Con ordinanza del 17.4.2020 la Corte di cassazione, decidendo sulla questione inerente la possibile estensione del fallimento ad una supersocietà fatto costituita dalla società fallita, dai soci illimitatamente responsabili ed altre società di capitali, ha statuito il seguente principio di diritto:

L’art. 147, comma 5, l.fall. trova applicazione non solo quando, dopo la dichiarazione di fallimento di un imprenditore individuale, risulti che l’impresa è, in realtà, riferibile ad una società di fatto tra il fallito ed uno o più soci occulti, ma, in virtù di sua interpretazione estensiva, anche laddove il socio già fallito sia una società, anche di capitali, che partecipi, con altre società o persone fisiche, ad una società di persone (cd. supersocietà di fatto) – non assoggettata ad altrui direzione e coordinamento – la cui sussistenza, però, postula la rigorosa dimostrazione del comune intento sociale perseguito, che dev’essere conforme, e non contrario, all’interesse dei soci, dovendosi ritenere che la circostanza che le singole società perseguano, invece, l’interesse delle persone fisiche che ne hanno il controllo, anche solo di fatto, costituisca, piuttosto, una prova contraria all’esistenza della supersocietà di fatto.

La vicenda processuale aveva tratto origine dal reclamo ex art. 18 legge fall. proposto dalla curatela del fallimento di una società a responsabilità limitata unipersonale in liquidazione, a seguito del quale il Tribunale di Cosenza aveva dichiarato il fallimento della società di fatto composta dalla predetta società in liquidazione e da altre tre società a responsabilità limitata nonché da alcuni soci persone fisiche in proprio.

Avverso tale sentenza era stato proposto reclamo da parte dei falliti, e la Corte d’Appello di Catanzaro aveva accolto il reclamo e revocato il fallimento, non ravvisando in concreto la sussistenza della asserita società di fatto o supersocietà. In particolare,  la Corte d’Appello aveva  asserito che non era possibile ravvisare l’esistenza della società di fatto per una serie di motivi, i principali tra i quali si sostanziavano: a) nella mancanza di un fondo comune  b)  nel fatto che le condotte distrattive in concreto  accertate a carico dei  presunti soci della società di fatto non erano state destinate alla formazione del  fondo, da utilizzare per lo svolgimento di attività imprenditoriale comune, ma erano piuttosto finalizzate  al semplice scopo di sottrarre liquidità ai creditori della società unipersonale; c) nel fatto che, dal punto di vista eminentemente soggettivo, mancava la c.d. affectio societatis, dal momento che la società fallita non aveva svolto attività imprenditoriale assieme agli altri soggetti ritenuti soci della società di fatto, i quali avevano esercitato la loro specifica attività in tempi diversi, taluni addirittura dopo la messa in liquidazione delle altre società.

I curatori fallimentari avevano proposto ricorso per cassazione evidenziando l’omesso esame di distinti fatti controversi da ritenersi incontrovertibili, rappresentati dalla commistione patrimoniale tra tutti i soggetti sopra indicati oltre che dalla comunanza imprenditoriale perseguita e dall’esteriorizzazione del vincolo associativo, situazione quest’ultima che non poteva non aver rappresentato in capo ai terzi  (creditori e non) l’apparenza della società

La Cassazione  ha confermato  il principio già espresso in passato che consente l’interpretazione estensiva dell’art. 147, quinto comma, legge fallimentare  ribadendo il principio secondo cui  l’estensione del fallimento  alla società con soci a responsabilità illimitata, troverebbe applicazione non solo quando, dopo la dichiarazione di fallimento di un imprenditore individuale, emerga che l’impresa è, in realtà, riferibile a una società di fatto tra il fallito e uno o più soci occulti, ma anche, per effetto di un’interpretazione estensiva, quando il socio già fallito sia una società, anche di capitali, che partecipi, con altre società o persone fisiche, a una società di persone, dando vita in questo modo alla cd. supersocietà di fatto.

La  Corte  ha tuttavia precisato che l’interpretazione estensiva è giustificata solo se è allo stesso tempo dimostrata la sussistenza del «comune intento sociale perseguito, che deve essere conforme, e non contrario, all’interesse dei soci, dovendosi ritenere che la circostanza che le singole società perseguano, invece, l’interesse delle persone fisiche che ne hanno il controllo, anche solo di fatto, costituisca, piuttosto, una prova contraria all’esistenza della supersocietà di fatto» In tale ultima ipotesi, secondo la Corte di cassazione sarebbe piuttosto da ravvisare una holding di fatto tendente  a perseguire un fine diverso e ulteriore rispetto a quella della società fallita; ne sarebbe dovuto derivare l’obbligo per i curatori della società componenti la holding di fatto di richiedere al giudice civile l’accertamento della holding  per far valere la  responsabilità di cui all’art. 2497 cod. civ. in tema di direzione e coordinamento, ed in caso di insolvenza della holding stessa,  di richiedere la dichiarazione di fallimento di quest’ultima in via del tutto autonoma  ( così testualmente la sentenza citata: simile circostanza può semmai costituire indice di esistenza di una “holding” di fatto nei cui confronti il curatore può agire in responsabilità (art. 2497 cod. civ.); la quale “holding” di fatto può essere dichiarata autonomamente fallita, ove ne sia accertata l’insolvenza a richiesta di uno dei soggetti legittimati (cfr. Cass. n.15346-16; Cass. n. 5520-17 )“