Con sentenza n.6371 del 21 ottobre 2020, resa dalla sezione III ( Pres. Frattini, Est. Veltri) il Consiglio di Stato ha fornito importanti indicazioni in ordine alla sussistenza della propria potestà giurisdizionale in materia di diritti fondamentali, nello specifico quello alla salute.

Il riferimento è alla questione relativa al riparto di giurisdizione tra GO e GA in materia di diritti fondamentali ,  originatasi ormai quasi un secolo fa ma in ordine alla cui definitiva soluzione sono a lungo persistite  resistenze, nonostante gli storici arresti della giurisprudenza, anche costituzionale. E’ noto come per diritti fondamentali si intendano quelle situazioni soggettive  attive considerate primarie, cioè riconosciute direttamente ed immediatamente dalla Carta costituzionale in capo ad ogni individuo in quanto concreta specificazione del  più generale principio personalista di cui all’art 2 Cost, che tutela i diritti inviolabili dell’individuo, sia come singolo che nelle formazioni sociali dove si esplica la di lui personalità. Orbene, in deroga all’allora vigente principio dell’affievolimento del diritto soggettivo ( CHIOVENDA; cfr sul punto anche SS.UU. Ferrari 1949), tali tipologie di situazioni soggettive erano considerate “inaffievolibili ab origine” ( cfr. SS.UU. 9.3.1979 n.1436), cioè non degradabili nell’ interesse legittimo, all’annullamento dell’atto lesivo, per effetto dell’intervento potestativo della P.A. : gli atti della PA adottati in violazione di diritti fondamentali erano pertanto da ritenersi nulli per difetto assoluto di attribuzione e restavano sottratti, quanto alle relative controversie, alla giurisdizione del giudice amministrativo, potendo essere giustiziabili dinanzi alla sola AGO, quale giudice naturale dei diritti soggettivi. Il problema di fondo, risiedeva  nel fatto che dalla attribuzione di una tale potestà giurisdizionale alla AGA, la tutela dei diritti fondamentali avrebbe sofferto un vulnus notevole ed intollerabile,  in quanto – prima della celebre pronuncia delle SS.UU. 500/99, cui è conseguita la riforma operata dalla L 205/2000 – l’interesse legittimo – quale diritto soggettivo affievolito da un atto dell’amministrazione che fosse espressione di un potere autoritativo – non era assistito da una tutela risarcitoria, né tantomeno l’ordinamento prevedeva all’epoca che il GA potesse condannare la PA al risarcimento del danno da lesione dell’interesse legittimo pretensivo.

Venendo al proprium della decisione in commento, la questione si è riproposta con riguardo alla legittimità di un provvedimento della Azienda USL Toscana Nord di rigetto della richiesta di proseguire all’estero le cure di cui l’istante necessitava, motivato sulla scorta della considerazione per cui il programma riabilitativo della richiedente potesse essere svolto presso un’ Azienda Universitaria sita nel comune di Pisa.

Tale diniego veniva impugnato dinanzi al competente TAR poiché, innanzitutto, la citata Azienda Universitaria sarebbe stata carente tanto di posti letto che di strumentazione adeguata; in secondo luogo, la ricorrente lamentava la lesione del proprio diritto di beneficiare di trattamenti sanitari presso centri altamente specializzati all’estero, nonostante si trovasse nelle condizioni imposte dalla normativa nazionale e comunitaria per fruire di prestazioni assistenziali all’estero. L’adito TAR ha declinato la giurisdizione del GA, poiché in materia di autorizzazione ad effettuare cure mediche all’estero la PA non eserciterebbe alcun potere autoritativo, poiché è chiamata ad effettuare una valutazione di tipo tecnico e non discrezionale in ordine alla sussistenza dei presupposti sanitari, peraltro avvalendosi di soggetti che ricoprono  la mera qualifica di medici. La controversia dunque non afferirebbe all’organizzazione del servizio sanitario, ma attiene ad un rapporto tra paziente e PA che riguarda la richiesta di autorizzazione ad effettuare cure all’estero, con relativo rimborso: un rapporto di utenza che già l’art 33 comma 2 lett e) Dlgs 80/98 escludeva dall’ambito della giurisdizione amministrativa.

Il caso di specie, secondo il giudice di prime cure, non rientrerebbe nel concetto di procedimento amministrativo, richiamato dall’art 133 comma 1 lett c) c.p.a. che assegna la giurisdizione amministrativa esclusiva, tra le altre, alle “controversie in materia di servizi pubblici…relative a provvedimenti adottati dalla pubblica amministrazione…in un procedimento amministrativo” poiché detta disposizione non può essere interpretata nel senso che qualsiasi provvedimento amministrativo, quale che sia il nomen iuris, adottato nell’ambito di un servizio pubblico sia espressione di una potestà autoritativa, con conseguente radicarsi della giurisdizione amministrativa, viceversa dovendosi avere riguardo al tipo di rapporto instauratosi tra PA e privato, dedotto  concretamente in giudizio: occorre dunque verificare se la posizione della prima sia di supremazia rispetto al secondo, tale che l’amministrazione goda del potere di conformare il rapporto stesso a fini di pubblico interesse. Ciò non accadrebbe, secondo l’adito TAR, nel caso in cui la PA sia chiamata a verificare unicamente la sussistenza dei presupposti richiesti dalla legge affinché un soggetto possa fruire di prestazioni sanitarie all’estero, atteso che si tratterebbe di una valutazione affatto discrezionale, quanto piuttosto un accertamento tecnico che, come noto, non comporta alcuna necessità di contemperare l’interesse pubblico con quello del privato, tale che l’amministrazione medesima non eserciterebbe alcuna potestà iure imperii.

Avverso tale sentenza propone appello la ricorrente, sostenendo che la PA, al momento della richiesta di cure all’estero, esercita un potere discrezionale a seguito di due distinte valutazioni, di cui una tecnica ed una tipicamente amministrativa:

  1. a) il primo è demandato alle valutazioni tecnico-scientifiche in ordine alla sussistenza dei presupposti sanitari dell’impossibilità di fruire delle prestazioni sanitarie richieste in modo tempestivo ovvero adeguato alle specificità del caso di specie;
  2. b) il secondo è rimesso alla discrezionalità della PA, la quale, nell’esercizio della propria potestà di programmazione, deve bilanciare l’interesse del cittadino/paziente con quello pubblico di contenimento e razionalizzazione delle spese sanitarie, a tutela anche dell’erario e della parità di trattamento dei cittadini utenti.

A sostegno di tale conclusione, l’appellante ricorda diverse pronunce del C.d.S. (n.5861/2018; n.1320 e 4460 del 2014; n. 1989/2013, tutte della III Sezione) e delle SS.UU. ( n. 27187/2007 e 5290/2010) le quali, non più condividendo la teoria dell’indegradabilità dei diritti fondamentali ad interessi legittimi, ormai divenuta insostenibile a seguito delle riforme legislative del 1998 e del 2000, hanno ritenuto sussistente la giurisdizione amministrativa in tutti i casi in cui la PA rifiuti una prestazione sanitaria richiesta dal privato previo esercizio di potestà iure imperii ed all’esito di un procedimento amministrativo avviatosi su istanza di parte. Nè tantomeno può ritenersi che nel caso di specie si sarebbe di fronte ad un rapporto paritetico tra PA e privato, valevole ad incardinare la giurisdizione dinanzi alla AGO, perché una siffatta situazione verrebbe a configurarsi solo per effetto della lesione, da parte della PA medesima, della sfera giuridica privata mediante comportamento materiale ovvero mera inerzia in alcun modo riconducibili, neppure mediatamente, all’esercizio di un potere pubblicistico. A tali censure, le odierne appellate osservano come le SS.UU., con pronunce 20577/2013 e 2867/2009, abbiano chiarito che le controversie relative al diniego di autorizzazione ad effettuare cure specialistiche all’estero appartenga alla giurisdizione ordinaria, essendo la domanda diretta alla salvaguardia di un diritto fondamentale, quello alla salute, ab origine non affievolibile per effetto della discrezionalità tecnica della PA, all’uopo non rilevando che in concreto sia chiesto l’annullamento dell’atto amministrativo, potendo il giudice ordinario comunque disapplicarlo, ai sensi della L.A.C. del 1865 All.E, e di conseguenza interpretare la domanda come comprensiva della richiesta di accertamento del diritto di ottenere l’autorizzazione ad effettuare le cure all’estero.

Concludono, inoltre, facendo proprie le statuizioni di principio espresse dal giudice di prime cure.

I  giudici di Palazzo Spada, nel dichiarare fondato l’appello, per l’effetto riformando la sentenza impugnata con rimessione degli atti al giudice di primo grado, all’uopo affermando la sussistenza della giurisdizione amministrativa, ritengono  anzitutto di dover prendere le mosse dalla citata teoria dell’affievolimento, unitamente alla relativa deroga, concernente l’inaffievolibilità dei diritti fondamentali.

Sul punto, rammenta il C.d.S. come tale teoria della degradazione del diritto soggettivo in interesse legittimo, per effetto dell’incisione dell’atto amministrativo autoritativo, come sopra più ampiamente descritta, era la conseguenza di una concezione ormai largamente superata dell’interesse legittimo, quale interesse alla rimozione dell’atto amministrativo illegittimo, non anche al riconoscimento del bene della vita (c.d. tesi natura processuale dell’interesse legittimo). In tale contesto, le SS.UU. del 1979, si erano rese fautrici della tesi della indegradabilità dei diritti fondamentali, con conseguente nullità dell’atto amministrativo a mezzo del quale la Pa incidesse sui medesimi e radicamento della giurisdizione ordinaria, poiché avevano preso atto che la tutela che il GA avrebbe potuto offrire al privato era incompleta, in quanto meramente demolitoria dell’atto amministrativo.

Tanto premesso, i giudici del C.d.S. rammentano come, nel corso dell’evoluzione del diritto amministrativo, vi siano stati tre passaggi storici che depongono nel senso di dover considerare la tesi della degradazione del tutto superata; in estrema sintesi:

  1. L’affermazione dell’interesse legittimo come situazione giuridica sostanziale, per effetto della storica pronuncia delle SS.UU. 500/99, ma peraltro evincibile già dal comb. disp. artt 24 e 113 Cost, relativi al diritto ad agire in giudizio a tutela (anche) degli interessi legittimi. E’ questa forse la grande conquista del diritto amministrativo contemporaneo: ricostruita la natura giuridica dell’interesse legittimo in termini meramente processuali, la conseguenza è che esso non può che configurarsi solo dopo l’emanazione del provvedimento illegittimo sfavorevole al privato; inteso in questo senso, quindi, l’interesse legittimo non esisteva prima del provvedimento e non aveva nulla a che vedere con il procedimento, con la conseguenza che le possibilità del privato di partecipare allo stesso, e di dialogare con la PA, erano di fatto ben poche. Il processo di affermazione del carattere sostanziale dell’interesse legittimo – iniziato dalla Costituzione del 1948, artt 24, 103 e 113, proseguita dalla L 241/90 e completato dal c.p.a. – permette di ritenere come lo stesso viva nel procedimento e consenta al privato di dialogare con la PA prima ed a prescindere dal processo, al fine di tutelare la propria sfera giuridica, attribuendogli finanche la possibilità di proporre accordi integrativi ovvero sostitutivi del provvedimento amministrativo (unilaterale).    1.1
  2. l’ormai raggiunta pienezza ed effettività del sistema delle tutele nel processo amministrativo per ogni sorta di situazione soggettiva attiva, per effetto dell’evoluzione giurisprudenziale e normativa, culminata con il nuovo codice del processo amministrativo; difatti, per quanto la struttura impugnatoria rimanga centrale, il “nuovo” processo amministrativo consente di concentrare nell’ambito del medesimo giudizio tutte le questioni afferenti al bene della vita che il privato intende acquistare o non perdere: finanche la previsione dell’azione di condanna al rilascio di un provvedimento, quando si tratta di attività vincolata ovvero non risultino ulteriori margini di discrezionalità e non sono necessari ulteriori adempimenti istruttori da parte della PA ( cfr. artt 31,comma 3, e 34 lett c) c.p.a.). Inoltre, è altresì chiaro come il controllo di legittimità del GA importi un sindacato pieno sul fatto ( SS.UU. 6691 e 18592 del 2020) e, dunque, la giurisdizione sia piena sul punto dal momento che il giudice può riformare l’atto amministrativo nella sua interezza.
  3. La giurisprudenza costituzionale, la quale, a partire dalla nota pronuncia 204/2004, ha avuto modo di chiarire come non si possa negare la giurisdizione amministrativa relativamente a situazioni giuridiche fondamentali, in forza della teoria dell’inaffievolibilità, tendendo piuttosto a configurare la giurisdizione amministrativa quella relativa alle controversie in cui la PA sia coinvolta come autorità, superando la necessità di distinguere in ordine alla qualità della situazione giuridica dedotta in giudizio, di diritto soggettivo ovvero di interesse legittimo ( cfr anche Corte Cost. 140/2007 e 35/2010). Tale linea di riparto è stata pienamente recepita dalle SS.UU. ( cfr n.5290/2010). Non residuano  pertanto più dubbi in ordine al fatto che il carattere fondamentale della situazione giuridica fatta valere sia ormai inidonea a giustificare ( ancora) la deroga al generale criterio di riparto della giurisdizione, per il quale essa si radica in capo al GA quando la PA agisca di una potestà autoritativa legalmente attribuitale.La nuova dinamica delle situazioni giuridiche, inoltre, rifugge ormai dai postulati della teoria dell’affievolimento, laddove diritti soggettivi ed interessi legittimi oggi convivono tutte le volte in cui l’interesse sostanziale di cui il privato è titolare sia protetto ma al medesimo tempo debba essere conformato, quanto al relativo godimento, per effetto dell’esercizio di un potere pubblicistico che assicuri la compatibilità rispetto agli interessi della collettività.

Una volta attribuito tale potere, quindi, dovrà aversi riguardo al concreto esercizio di esso e, laddove non avvenuto correttamente, potrà ricorrersi alla AGA affinché intervenga con pienezza ed effettività di poteri al fine di tutelare le ragioni del privato. Quanto alle considerazioni del giudice di prime cure, sostanzialmente fatte proprie anche dagli appellati, relative al carattere vincolato dell’azione amministrativa considerata, il Collegio esclude recisamente l’asseribilità del sillogismo per cui dal carattere vincolato dell’azione amministrativa deriverebbe l’assenza del potere pubblicistico in capo alla PA, con la conseguente natura paritetica degli atti adottati nei rapporti con il privato. Del resto, è noto come non sia possibile qualificare ipso iure come paritetici gli atti che siano espressione di attività amministrativa vincolata. Rammenta il C.d.S. che la nozione di atto paritetico si sia affermata in materia di pubblico impiego alla fine degli anni trenta del 1900 ( cfr. C.d.S. n. 795/1939) e che fosse relativa alla circostanza per la quale l’atto amministrativo, pur avendo la forma di atto pubblico unilaterale, fosse adottato non nell’ambito di un rapporto iure imperii, bensì di parità tra PA e privato, con conseguente applicazione non delle regole caratteristiche del provvedimento amministrativo, bensì di quelle dei negozi di diritto privato a carattere patrimoniale. Ciò in quanto la PA è parte di un rapporto contrattuale nell’ambito del quale gode di specifiche prerogative che le consentono di agire in via unilaterale per la tutela dei propri interessi negoziali: non già un potere pubblico, quanto invece un diritto potestativo iure privatorum , con le ovvie conseguenze in tema di tutela e di giurisdizione.

Diversa è invece la situazione del c.d. potere amministrativo vincolato, laddove l’assenza di discrezionalità, dunque il vincolo, non riduce il potere della PA ad una mera obbligazione civilistica, perché la PA svolge attività di verifica, controllo, accertamento tecnico in ordine alla esistenza di presupposti legalmente dati; tanto nell’esercizio del potere pubblicistico di cura di interessi generali, esulanti dalla sfera patrimoniale di parte amministrativa. Quantunque la legge ne predetermini l’an ed il quomodo, in buona sostanza, un siffatto potere è, e resta, espressione di un rapporto amministrativo in cui la posizione della PA è di supremazia rispetto al privato. Difatti, lo spostamento di giurisdizione non può essere determinato dalla natura vincolata dell’attività amministrativa, atteso che ciò che muta in conseguenza della predeterminazione legale dell’an e del quomodo della stessa riguarda piuttosto le modalità di tutela: contestualmente all’annullamento del provvedimento illegittimo, infatti, l’amministrazione può essere condannata anche all’emanazione dell’atto dovuto ex art 34 c.p.a.; ancora, per i casi di attività vincolata, a fronte della violazione dell’obbligo di provvedere da parte della PA il giudice amministrativo, in presenza dei presupposti di cui all’art 31 comma 3 c.p.a., può direttamente decidere in ordine alla fondatezza dell’istanza.  Sotto quest’ultimo profilo deve essere ricordato l’art 21 octies, comma 2, della L241/90 che prevede il divieto per il GA di annullare il provvedimento impugnato qualora”per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”.

Tanto chiarito, il C.d.S.  procede dunque alla disamina della disciplina del potere azionato dalla PA nel caso di specie, il DM Sanità 3.11.1989, relativo alle prestazioni assistenziali all’estero,  rimarcando come tali norme  delineino un potere amministrativo il cui esercizio, pur vincolato che sia, è pur sempre deputato alla verifica della sussistenza dei presupposti considerati dalla legge a tutela dell’interesse pubblico al corretto utilizzo delle risorse ed al buon andamento dell’amministrazione sanitaria: con la conseguenza che, non trasparendo dal caso di specie alcun tratto peculiare che ne possa giustificare una deroga, la giurisdizione resta affidata alla AGA cui hli atti sono stati ritrasmessi per  un nuovo esame.