Il diritto dell’unione europea ha l’attitudine a produrre norme giuridiche vincolanti all’interno degli stati membri, fondandosi sul principio di primazia e dell’effetto diretto. Da questo principio discende che in caso di conflitto tra una norma interna e una norma europea idonea a produrre effetti diretti nell’ordinamento nazionale, la norma europea prevale sulla norma interna.
La giustificazione alla base di tale prevalenza si rinviene nella circostanza che gli stati membri, entrando a far parte dell’UE, hanno ceduto parte della propria sovranità in determinate materie, come si evince dapprima dall’art 11 cost. ai sensi del quale l’Italia acconsente in condizioni di parità a limitazioni di sovranità e poi, a partire dalla riforma del titolo V del 2001, dall’art 117 Cost, ai sensi del quale la potestà legislativa è esercitata dallo stato e dalle regioni nel rispetto della costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali.
Per comprendere il livello di interferenza tra i due ordinamenti occorre preliminarmente evidenziare che emergono in giurisprudenza due tesi di fondo: la tesi monista e la tesi dualista.
Per la prima tesi, patrocinata dalla CGUE, le fonti europee e nazionali sono integrate in un unico sistema, ordinato solo in termini di gerarchia. Da ciò consegue che le norme di diritto europeo sono fonte immediata di diritti e obblighi per tutti coloro che ne sono assoggettati (sentenza Simmenthal). Questo consente di rendere inapplicabile qualsiasi disposizione della legislazione nazionale contrastante con il diritto comunitario.
La tesi dualista, invece, supportata dalla corte costituzionale, considera l’ordinamento italiano e quello europeo come due ordinamenti tra loro autonomi e distinti, ancorché coordinati, secondo le competenze rispettivamente attribuitegli dal trattato.
Dunque, in base al principio di primazia del diritto Ue , il diritto dell’ue prevale sulle norme interne, anche costituzionali; ne deriva che, a fronte di un contrasto tra una norma comunitaria direttamente applicabile e una norma nazionale di rango anche legislativo, persino costituzionale, qualora tra le possibili interpretazioni del testo normativo non si individui una interpretazione conforme alla disciplina dell’UE, il contrasto va risolto disapplicando la norma nazionale e applicando in sua sostituzione la norma comunitaria.
Tuttavia, la corte costituzionale, attraverso la teoria dei controlimiti, ha affermato che se è vero che il diritto dell’UE prevale sulle norme costituzionali, va fatta eccezione per quelle che esprimono principi e riconoscono diritti fondamentali, che costituiscono il nocciolo duro della costituzione dei singoli stati. Ciò è stato anche sancito dall’art 4, c 2 TUE (l’unione rispetta… l’identità nazionale) e dall’art 53 della carta di Nizza (nessuna disposizione… deve essere interpretata come limitativa o lesiva dei diritti dell’uomo o delle libertà fondamentali riconosciuti dalle costituzioni degli stati membri).
Come anticipato, però, la disapplicazione può intervenire solo allorquando vi sia una norma europea dotata di efficacia diretta e solo laddove la norma non violi i controlimiti. Nei casi in cui, invece, la norma non sia self executing o violi i diritti fondamentali della costituzione, al giudice non resterà che rimettere alla corte costituzionale la questione di legittimità costituzionale della norma interna in contrasto con norma europea, per violazione degli artt 10, 11 e 117 cost.
Tali principi sono stati ribaditi, per ultimo, dall’adunanza plenaria in materia di concessioni demaniali marittime. La questione riguardava se la previsione normativa di proroghe automatiche di concessioni demaniali marittime fosse coerente con l’art 12 della direttiva Bolkestein – che, invece, obbligava la pubblica amministrazione a espletare una procedura ad evidenza pubblica per la scelta del beneficiario della concessione di beni pubblici- e se tale direttiva potesse ritenersi direttamente esecutiva.
La giurisprudenza, infatti, al fine di difendere la legittimità costituzionale di tali norme – che prevedevano la proroga automatica delle concessioni demaniali- aveva affermato che l’applicazione diretta della direttiva Bolkestein avrebbe comportato un’ingerenza non consentita dell’UE sulla politica nazionale in materia di turismo e, in particolare, riteneva che la disposizione in questione non fosse direttamente disapplicabile, non essendo sufficientemente dettagliata.
Sulla questione è intervenuta l’adunanza plenaria la quale ha osservato in primo luogo che il livello di dettaglio che una direttiva deve possedere per essere definita self executing dipende dal risultato perseguito e dal tipo di prescrizione necessaria per raggiungere il risultato. A detta dell’adunanza l’art 12 della direttiva Bolkestein persegue l’obiettivo di aprire il mercato delle attività economiche il cui esercizio richiede l’utilizzo di risorse naturali scarse; pertanto, per assicurare la par condicio tra i soggetti interessati, è necessario la sottoposizione a gara, purché sussista un interesse transfrontaliero certo. Nel caso di specie si è ritenuto che tale interesse sussista perché offre un’opportunità di guadagno limitata e importante.
Ciò detto, si è ritenuto in giurisprudenza che laddove lo stato risulti inadempiente rispetto al suo obbligo di recepire la normativa europea, al singolo cittadino spetterà il diritto di agire per il risarcimento del danno purchè il risultato prescritto dalla direttiva implichi l’attribuzione di diritti direttamente in capo ai singoli e il contenuto dei diritti sia individuato sulla base della direttiva; deve inoltre sussistere il nesso di causalità tra la violazione dell’obbligo a carico dello stato e il danno dell’individuo.
In giurisprudenza si sono registrati diversi orientamenti in ordine alla qualificazione da attribuire alla responsabilità dello stato. Difatti, secondo una giurisprudenza – prevalente – si tratta di una responsabilità extracontrattuale da atto lecito ma dannoso, antigiuridico solo sul piano dell’ordinamento comunitario, con conseguente riconoscimento al privato di un’indennità per inadempimento di un obbligo di legge (derivante dal diritto dell’ue); una giurisprudenza minoritaria ritiene, invece, che si tratti di una responsabilità contrattuale da contatto sociale ai sensi dell’art 1218 cc con conseguenze rilevanti ai fini del’indagine relativa alla sussistenza dell’elemento soggettivo. Tale questione è stata, tuttavia, superata grazie all’intervento della CGUE, per la quale non rilevano dolo e colpa, venendosi piuttosto a configurare in questi casi una responsabilità oggettiva, il cui fine è sanzionare esclusivamente l’inadempimento dei vincoli derivanti dall’adesione dello stato membro all’unione europea.
Diversa, invece, è la tutel del privato apprestata in caso di violazione delle norme CEDU. Secondo l’ordinamento prevalente, alla cedu va riconosciuto valore di parametro costituzionale interposto, potendo rinvenirsi la base giuridica delle norme cedu nel solo art 117 cost. Per questo motivo se è vero che le norme cedu posseggono una maggior forza di resistenza rispetto alle leggi ordinarie successive, d’altro canto non possono essere contrarie alla costituzione.
Laddove vi siano contrasti tra la norma interna e norma cedu, pertanto, il giudice comune non ha il potere di disapplicare la norma, ma potrà sollevare questione di costituzionalità della norma violativa della cedu per eventuale violazione in via indiretta dell’art 117 cost.
La disapplicazione introduce un sindacato diffuso sulla validità della legge da parte non solo del giudice, ma anche da parte di qualsiasi organo statale, ivi compreso l’organo amministrativo.
Infatti, ben può accadere che un atto amministrativo risulti in contrasto con il diritto dell’ue.
L’atto amministrativo in contrasto con il diritto Ue pone problematiche sostanziali e processuali diverse rispetto alle altre fonti del diritto tanto da imporre diverse soluzioni sia da parte della dottrina che della giurisprudenza.
Possono configurarsi due ipotesi di illegittimità del provvedimento: a) illegittimità comunitaria diretta, laddove il provvedimento amministrativo è direttamente in conflitto con una norma comunitaria; b) illegittimità comunitaria indiretta laddove, invece, il provvedimento amministrativo è conforme ad una norma nazionale che è però in conflitto con la norma comunitaria.
A seconda dell’adesione alla teoria monista o dualista, diverso sarà il regime da applicare al provvedimento amministrativo illegittimo.
Difatti, per la teoria monista, a prescindere dal tipo di illegittimità- diretta o indiretta- del provvedimento amministrativo l’atto sarà sempre annullabile.
Ciò in quanto gili ordinamenti si integrano vicendevolmente tra di loro ed è pertanto indifferente la fonte della norma violata. Sarà, infatti, in ogni caso configurabile una violazione di legge da cui deriva l’annullamento del provvedimento ai sensi dell’art 21 octies L 241/90. Inoltre, il regime dell’annullamento dell’atto, secondo questa tesi, è più in linea con la disciplina del processo amministrativo, basato sulla tipicità delle cause di nullità. A questa tesi aderisce la CGUE oltre che parte minoritaria della giurisprudenza.
La giurisprudenza maggioritaria interna, invece, aderisce alla teoria dualista, che vede i due ordinamenti come ordinamenti separati, ancorché tra loro coordinati.
Tale tesi distingue il regime dell’atto amministrativo in contrasto con il diritto unionale a seconda che si tratti di un’illegittimità comunitaria diretta o indiretta. Nel primo caso, si ritiene che il provvedimento amministrativo sia annullabile per violazione di legge ex art 21 octies. In caso di illegittimità comunitaria mediata si distingue a seconda della tipologia di norma interna sulla cui base viene adottato il provvedimento amministrativo comunitariamente illegittimo. In particolare, a seconda che la norma interna sia attributiva o meno del potere decisionale, il provvedimento sarà da considerarsi nullo – o per alcuni inesistente- per difetto assoluto di attribuzione ex art 21 septies L 241/90 o al contrario meramente annullabile. In tale ultimo caso, infatti, la norma interna svolgerebbe la funzione di regolamentare un potere già inquadrato legittimamente a livello comunitario.
Occorre, infine, soffermarsi sulle tutele approntate al privato a fronte di sentenze amministrative contrastanti con il diritto dell’Ue.
In proposito occorre distinguere a seconda che la sentenza in discorso sia una sentenza definitiva o sia una sentenza ancora appellabile.
Dal principio di primazia del diritto dell’Ue discende l’emersione in capo allo stato di una responsabilità nell’ipotesi in cui il giudice nazionale nella sua attività di interpretazione e di applicazione delle norme non rispetti il diritto dell’Ue.
In particolare, tale responsabilità emerge in conseguenza della mancata disapplicazione di una norma nazionale incompatibile ove il giudice interno non abbia provveduto ad esperire il rinvio pregiudiziale o abbia interpretato le norme di diritto interno senza tenere conto di quelle di diritto comunitario. Tale responsabilità, tuttavia si configura solo allorquando nei successivi gradi di giudizio il giudice del gravame non conformi la sentenza al diritto comunitario. Essa si traduce, sul piano della tutela, nella possibilità per il privato di agire per il risarcimento del danno e sul piano, invece, dei rapporti tra Unione Europea e stato membro , nella possibilità di iniziare una procedura di infrazione.
In merito alla procedura di risarcimento del danno la CGUE ha regolato la responsabilità principale dello stato contemplando l’azione di rivalsa nei confronti del giudice. Tale responsabilità emerge dal combinato disposto dell’art 2 e dell’art 7 L 177/1988. L’art 2 della predetta legge sancisce che chiunque abbia subito un danno ingiusto per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato con dolo o colpa grave nell’esercizio delle sue funzioni può agire contro lo stato per il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali. Precisa poi che costituisce colpa grave la violazione manifesta della legge nonché del diritto dell’UE.
A fronte del riconoscimento tale responsabilità dello stato sussiste poi un obbligo in capo al presidente del consiglio dei ministri di esercitare, entro due anni dal risarcimento, l’azione di rivalsa nei confronti del magistrato nei casi di violazione del diritto dell’UE.
Tanto premesso, ci si è molto interrogati in giurisprudenza anche sul regime del giudicato amministrativo in contrasto con una normativa dell’unione europea ed, in particolare, se, a fronte della violazione della norma comunitaria, il giudicato possa essere, in taluni casi, recessivo.
La giurisprudenza si è assestata, salvo casi eccezionali, nel senso della prevalenza del principio di intangibilità del giudicato sul principio di primazia, in quanto il diritto dell’Ue non impone al giudice nazionale di disapplicare norme procedurali interne che attribuiscono forza di giudicato a una pronuncia giurisdizionale.
Dunque, in linea di principio, il giudicato nazionale anti-comunitario rimane in vita, non essendo previsto all’interno del nostro ordinamento uno specifico rimedio volto alla sua caducazione.
Difatti, lo strumento della revocazione, solitamente utilizzato per rimuovere il giudicato in casi eccezionali, non è applicabile al caso di specie in quanto, ai sensi dell’art 360 n 3) cpc, le sentenze pronunziate in grado d’appello o in unico grado possono essere impugnate con ricorso per cassazione, tra gli altri motivi, solo per violazione o falsa applicazione di norme di diritto, in ciò comprendendo solo l’errore di fatto e non anche l’errore di diritto (quale sarebbe la violazione del diritto unionale).
In giurisprudenza si è tentato di trovare un contemperamento a tale principio attraverso l’ampliamento della nozione di limiti esterni alla giurisdizione ex art 111 c 8 cost.
Esso sancisce che contro le decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei conti è ammesso il ricorso in Cassazione per i soli motivi inerenti alla giurisdizione.
La cassazione ha rivendicato la possibilità di sindacare la sentenza del giudice amministrativo passata in giudicato qualora questi sia incorso in un error in procedendo di particolare gravità, quale la mancata disapplicazione di una norma interna antieuropea. La cassazione ha dettato, così, una lettura evolutiva della dicitura “motivi attinenti alla giurisdizione” affermando che devono considerarsi norme giurisdizionali non solo quelle che individuano i presupposti del potere del giudice, ma anche quelle che danno concreto contenuto alla funzione giurisdizionale. Dunque, si avrebbe violazione di norme sulla giurisdizione non solo in caso di difetto assoluto o relativo della giurisdizione ma anche nelle ipotesi in cui il giudice commetta un errore di diritto che si concretizzi in una denegata giustizia.
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