Ogniqualvolta un medesimo diritto reale appartenga a più persone si pone il problema dei rapporti esistenti tra questi ultimi, anche alla luce dell’utilizzo che gli stessi facciano della cosa comune.

Uno dei casi in cui sussiste la contitolarità del medesimo diritto in capo a più soggetti diversi è la comunione  disciplinata dall’art 1100 c.c. ai sensi del quale vi è comunione quando la proprietà o altro diritto reale spetta in comune a più persone.

In giurisprudenza si è a lungo discusso in ordine alla natura giuridica da attribuire alla comunione alternandosi alla teoria della soggettività autonoma della comunione- che inquadrava nella comunione un nuovo e autonomo soggetto di diritto- la teoria, ad oggi preferibile, della proprietà plurima parziaria, alla stregua del quale la comunione è funzionale ad attribuire a ciascun partecipante il diritto sulla quota ideale del tutto. La  proprietà dei singoli comunisti investe  l’intero bene  e il suo  esercizio trova il  necessario limite nell’esistenza dell’eguale diritto degli altri compartecipi.

La comunione si distingue dalla società; in quest’ultima i  soci esercitano un’attività diretta alla produzione o allo scambio di beni o servizi mentre nella comunione i proprietari esercitano unicamente il diritto di proprietà godendo della cosa comune. Si distingue, inoltre, dalla multiproprietà, che si configura solo allorché venga convenuto l’utilizzo turnario del diritto di proprietà. Tale ultimo istituto prevede, infatti, il godimento esclusivo del bene, seppure nel periodo di tempo assegnatogli al singolo multiproprietario.

Ai sensi dell’art 1103 c.c ai contitolari della comunione  spetta una quota ideale sull’intero bene; tali quote si presumono uguali e determinano la partecipazione  dei    singoli comunisti nei pesi e nei vantaggi della comunione stessa. Il contitolare può disporre liberamente della propria quota, consentendo  l’ingresso all’interno della comunione di un soggetto diverso, che subentrerà nella medesima posizione del venditore.

Ciascun partecipante ha poi l’obbligo di contribuire alle spese necessarie per la conservazione e il godimento della cosa comune  oltre alle spese deliberate dalla maggioranza, salva la facoltà di liberarsene con la rinunzia al diritto (art 1104 cc).

La comunione può essere volontaria, incidentale (sorge, cioè, in assenza di un atto volontario, come nell’ipotesi della successione ereditaria ex art 713 c.c.), forzosa (trova la propria fonte in una disposizione di legge, come nel caso della comunione forzosa del muro a confine tra due proprietà ex art 880 e ss).

In tema di comunione, il legislatore puo in alcuni casi  dettare  una disciplina speciale derogando  alla comunione ordinaria. In tal caso le norme di cui agli art. 1100 e segg.  si applicano  solo ove compatibili. Uno dei casi in cui il legislatore è intervenuto specificamente è il condominio.

Il condominio è disciplinato dall’art 1117 cc, che stabilisce che si ha condominio quando più soggetti hanno la proprietà esclusiva di parti distinte di un medesimo fabbricato, laddove alcune parti dell’edificio, strutturalmente e funzionalmente connesse al complesso delle singole unità immobiliari, appartengono in comunione pro-indiviso a tutti i comproprietari.

Sicché, il diritto del condomino sulle parti comuni dell’edificio trova il suo fondamento nella circostanza che tali parti siano necessarie per l’esistenza dell’edificio stesso, o siano destinate in modo permanente all’uso o al godimento comune dell’edificio.

Il legislatore prevede, infatti, all’art 1117 cc un elenco di beni che sono oggetto di proprietà comune dei proprietari delle singole unità immobiliari, elenco ritenuto in giurisprudenza non tassativo ma meramente esemplificativo dei beni da considerare presuntivamente oggetto di comunione.

Ciò che contraddistingue il condominio è che, ai sensi dell’art 1118 cc, il diritto di ciascun condomino sulle parti comuni, salvo che il titolo non disponga altrimenti, è proporzionale al valore dell’unità immobiliare che gli appartiene.

Definiti i tratti generali dei due istituti, occorre analizzare i principi e le differenze in materia di utilizzo della cosa comune dal singolo partecipante alla comunione o al condominio  con particolare riguardo alle problematiche concernenti l’uso  intenso della cosa comune da parte del singolo proprietario.

Come anticipato, la disciplina della comunione ordinaria risponde alla logica per cui il diritto di ciascuno dei contitolari, pur investendo il bene nella sua interezza, incontra il limite del diritto degli altri contitolari.

Tant’è che ai sensi dell’art 1102 “Ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto. A tal fine può apportare a proprie spese le modificazioni necessarie per il miglior godimento della cosa. Il partecipante non può estendere il suo diritto sulla cosa comune in danno degli altri partecipanti, se non compie atti idonei a mutare il titolo del suo possesso”.

La norma prevede, dunque, la facoltà di servirsi delle cose comuni con delle limitazioni. In primo luogo, si prevede il divieto di alterare la destinazione della cosa.

La giurisprudenza ha chiarito che la destinazione non deve coincidere necessariamente con la funzione naturale della cosa,  deve essere compatibile con quella impressale dalla volontà dei comunisti che può anche derivare dalla pratica costante osservata dai comunisti oppure da una deliberazione adottata a maggioranza.

La norma richiede, inoltre, che l’uso intenso della cosa debba essere esercitato senza impedire agli altri partecipanti di farne parimenti uso.

Pertanto, il singolo condomino può apportare solo le modifiche necessarie per il miglior godimento della cosa comune e non anche estendere il suo diritto sulla cosa in danno agli altri partecipanti, salvo che non compia un atto di interversio possessionis.  Non deve, quindi, essere alterato il rapporto di equilibrio tra tutti i comproprietari

I principi nell’utilizzo della cosa condominiale  – e del  conseguente uso intenso – sono in parte diversi dovendosi fare riferimento alla combinazione di articolate disposizioni normative.

In giurisprudenza si ritiene che il singolo condomino possa far uso delle parti comuni, coerentemente con l’art 1102 c.c., purché non compia attività che incidano negativamente e in modo sostanziale sulla loro destinazione d’uso e non impedisca agli altri condomini di farne parimenti uso. Inoltre, l’uso da parte del condomino non deve arrecare pregiudizio alla stabilità, alla sicurezza e al decoro architettonico dell’edificio.

A favore di quanto appena affermato, ad es, in relazione alla modifica della destinazione d’uso, l’art 1117 ter prevede che solo l’assemblea possa modificare la destinazione d’uso delle parti comuni, vietando in ogni caso all’ultimo comma le modificazioni delle destinazioni d’uso che possano recare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato o che ne alterino il decoro architettonico.  Esempio tipico di uso intenso  della proprietà comune è l’apertura di porte o finestre nel muro  perimetrale in corrispondenza della proprietà di un condomino. Infatti, in  una tale ipotesi  si verrebbe ad impedire l’uso di una cosa comune agli altri condomini sia  perché la nuova opera si affaccia su aree condominiali o sulle proprietà esclusive altrui  sia perchè incide su alcune parti comuni dell’edificio tanto da  impedire agli altri condomini di fare uso del muro condominiale secondo la sua naturale destinazione. La giurisprudenza più recente ritiene, tuttavia, ammissibile l’apertura di una porta o di una finestra nel muro perimetrale purchè le nuove opere siano autorizzate dall’assemblea condominiale e vengano rispettati i limiti sopra indicati (assenza di pregiudizio per la stabilità, scurezza e decoro architettonico dell’edificio)

Allo stesso modo l’art.1127 , nell’attribuire al proprietario dell’ultimo piano dell’edificio il diritto di elevare nuovi piani, sancisce che tale sopraelevazione non è ammessa se le condizioni statiche dell’edificio non la consentono e se essa pregiudica l’aspetto architettonico dell’edificio o diminuisce notevolmente l’aria o la luce dei piani sottostanti. Percio ai sensi dell’art 1117 quater “In caso di attività che incidono negativamente e in modo sostanziale sulle destinazioni d’uso delle parti comuni, l’amministratore o i condomini, anche singolarmente, possono diffidare l’esecutore e possono chiedere la convocazione dell’assemblea per far cessare la violazione, anche mediante azioni giudiziarie. L’assemblea delibera in merito alla cessazione di tali attività con la maggioranza prevista dal secondo comma dell’articolo 1136”.

L’uso intenso della cosa comune non deve essere confuso con  il suo parziale uso esclusivo. Sul punto  le  ssuu, nell’ esaminare la questione relativa all’ ammissibilità del diritto da parte di un singolo condomino ad utilizzare in via esclusiva  una parte del cortile comune ne hanno esaminato la natura giuridica ed hanno  ritenuto che ai sensi degli art art 1102 cc e 1117 cc,  l’ uso della cosa comune  descrive un insieme di poteri e facoltà spettanti ai comproprietari tali da fungere come  nucleo essenziale del diritto di proprietà. Tale essenzialità emergerebbe, a detta delle ssuu, proprio dall’art 1102 che vieta al singolo partecipante di ostacolare gli altri comunisti nell’uso del bene. Difatti, se da un lato è possibile che tale uso venga esercitato in maniera più intensa da alcuni comunisti, ciò non toglie che debbano sempre rispettarsi i limiti di tale utilizzo. La configurazione di un uso esclusivo finirebbe per svuotare la struttura della comunione o del condominio, situazione questa che non trova conferma neanche nell’art 1126 (relativo ai lastrici solari) il quale introduce una regola eccezionale, insuscettibile di essere estesa a fattispecie diverse.

Lee ssuu  hanno pertanto escluso che il diritto di uso esclusivo possa rientrare nella categoria dei diritti personali di godimento, in quanto tali regolabili dall’autonomia negoziale. Contro questo assunto vi è non solo il principio di tipicità dei diritti reali, ma anche il fatto che consentire ai privati di creare diritti reali atipici tramite contratti, oltre ad essere contrario all’ordine pubblico, illecito e immeritevole di tutela alla luce dell’interesse perseguito, determinerebbe un vulnus in capo ai terzi estranei, i quali non potrebbero essere messi a conoscenza dell’esistenza di una tale deroga, ponendosi in contrasto con l’art 1372 cc e con l’art 42 cost. Ciò sarebbe a maggior ragione confermato dalla circostanza che tali contratti non sarebbero in ogni caso trascrivibili ai sensi dell’art 2643 cc.

Ne  deriva, secondo la Corte di legittimità.  la nullità di un accordo  volto ad escludere radicalmente il godimento di anche solo una parte della cosa comune   La Corte ha, tuttavia, fatta salva la possibilità di verificare, alla luce dell’effettiva volontà delle parti, se queste ultime abbiano inteso non tanto costituire un diritto di uso esclusivo, quanto piuttosto un atto traslativo del diritto di proprietà ovvero attribuire un diritto di uso esclusivo sulle cose sussistendone però i presupposti normativi. Ha, inoltre, ammesso la possibilità di convertire il contratto nullo in un contratto avente ad oggetto la concessione di un uso esclusivo e perpetuo di natura obbligatoria.