Con la sentenza n. 33 del 09/03/2021 la Corte Costituzionale ha  dichiarato  inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 12, comma 6, della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), dell’art. 64, comma 1, lettera g), della legge 31 maggio 1995, n. 218 (Riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato), e dell’art. 18 del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127), sollevate – in riferimento agli artt. 2, 3, 30, 31 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), agli artt. 2, 3, 7, 8, 9 e 18 della Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con legge 27 maggio 1991, n. 176, e all’art. 24 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.

COMMENTO

Con la sentenza in esame la Corte  ha respinto la questione di illegittimità costituzionale delle norme  dettate in materia di procreazione medicalmente  assistita affermando che la disincentivazione  alla pratica di maternità surrogata attuata in Italia  attraverso la repressione penale del cosidetto “utero in affitto” deve essere contemperata e bilanciata dall’interesse superiore del minore a vedere riconosciuto il proprio rapporto di filiazione anche con il genitore  non biologico ove questo sia accertato in fatto e abbia caratteristiche di effettiva autenticità.

Il caso sottoposto alla Corte  riguardava una  coppia omosessuale  di nazionalità italiana, unita in matrimonio in Canada che aveva  deciso di praticare, in quel Paese, la maternità surrogata. L’embrione, formato dai gameti di una donatrice anonima e di uno dei due uomini, era stato impiantato nell’utero di una donna, dalla quale  era nato poi il bambino, consegnato ai due uomini che avevano condiviso insieme il progetto genitoriale.

Nell’atto di nascita canadese era  stato indicato solo il padre biologico del minore, mentre non  erano stati menzionati né la madre surrogata, né il compagno del padre e neppure la donatrice dell’ovocita. Il padre biologico e il padre d’intenzione avevano  quindi proposto ricorso, accolto dalla Corte Suprema della British Columbia, la quale  aveva dichiarato i due uomini quali genitori del bambino. Ritornati in Italia, gli stessi  avevano chiesto il riconoscimento del provvedimento canadese in Italia. La Corte d’Appello di Venezia  aveva  accolto il ricorso, ma l’avvocatura dello Stato  aveva proposto ricorso per cassazione la quale aveva sollevato, a sua volta,   la questione di legittimità costituzionale degli artt. 12 comma 6 L. 40/2004 (norme in materia di procreazione medicalmente assistita), dell’ art. 64 comma 1 lett. g delle norme di diritto internazionale privato e dell’art. comma 12 del regolamento sullo stato civile (L. 127/95) perchè il combinato disposto delle predette norme non consentiva  il riconoscimento e l’esecutività del provvedimento straniero di inserimento del genitore d’intenzione nell’atto di stato civile di un minore procreato con maternità surrogata.

La questione di costituzionalità si era resa necessaria, perchè sul punto si erano già pronunciate le Sezioni Unite della Corte di Cassazione (con la sentenza n. 12193/2019), escludendo il riconoscimento dell’efficacia del provvedimento straniero con cui fosse stato dichiarato il rapporto di filiazione tra il bambino nato con maternità surrogata e il genitore d’intenzione. Secondo le Sezioni Unite, il riconoscimento sarebbe infatti contrario a ragioni di ordine pubblico, posto che l’ordinamento italiano punisce penalmente la pratica della surrogazione di maternità.

La Sezione rimettente aveva tuttavia ritenuto che la posizione delle Sezioni Unite del 2019 sarebbe stata in contrasto con gli artt. 2, 3, 30, 31 e 117 della Costituzione.

La Corte Costituzionale, pur confermando la posizione delle Sezioni Unite sulla contrarietà all’ordine pubblico della maternità surrogata, pone un principio importante di tutela del minore ribadendo prioritariamente la posizione già assunta in precedenti pronunce (sent. 272/2017) per la quale il divieto penalmente sanzionato di surrogazione di maternità è un principio di ordine pubblico posto a tutela di valori fondamentali perché “offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane”. Inoltre, gli accordi con la donna prestatrice di utero comporterebbero il rischio di sfruttamento della vulnerabilità di donne economicamente bisognose o in condizioni sociali disagiate, le quali verrebbero indotte ad accettare la gravidanza solo per motivi di bisogno, dovendo poi consegnare il bambino a terzi.

Fatta questa premessa, la Corte Costituzionale affronta il problema della tutela del minore, nato per il progetto di una coppia che ha comunque portato a compimento la pratica  di maternità surrogata  in uno Stato in cui la stessa è consentita. Il criterio di riferimento è costituito dal principio di salvaguardia dell’interesse superiore del minore, tutelato dalla Dichiarazione di New York sui diritti del Fanciullo, ma anche dagli artt. 30 e 31 della Costituzione secondo l’interpretazione di plurime pronunce della Corte (sent. 11/81, 272/2017, 76/2017, 17/2017 e 239/2014). In base a tale principio, ogni decisione deve “ricercare la soluzione ottimale in concreto per l’interesse del minore”.

Non vi è dubbio, secondo la Corte, che l’interesse del bambino sia quello di veder riconosciuto giuridicamente il legame con entrambi i componenti della coppia e quindi sia con il genitore biologico che con quello “d’intenzione”. E’ in gioco infatti la tutela dell’identità del bambino che fin dalla nascita è stato accudito nell’ambito di una determinata famiglia o comunque di una comunità di affetti che ha le caratteristiche della formazione sociale (tutelata dall’art. 2 Cost.). In ogni caso (si legge nella sentenza) non si tratta di riconoscere la pretesa ad un presunto “diritto alla genitorialità”, ma semmai di affermare il dovere della coppia all’esercizio delle responsabilità genitoriali nei confronti del bambino. Per garantire il riconoscimento giuridico del rapporto tra il minore e il genitore non biologico  è possibile ricorrere al procedimento di adozione speciale in virtù del quale al genitore d’intenzione è consentire adottare il figlio dell’altro genitore biologico. La Corte  sottolinea  perciò in un passo decisivo della sentenza che “ (anche l’interesse superiore del minore) come “tutti i diritti fondamenti tutelati dalla Costituzione si trova in rapporto di integrazione reciproca e non è possibile pertanto individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri…se così non fosse si verificherebbe l’illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe “tiranno” nei contorni delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute…”

Passando poi all’esame della procedura di adozione in casi particolari, prevista dall’ordinamento italiano (art. 44 comma 1 della Legge 184/83), la Corte esclude che la essa possa integrare quella “tutela sufficiente” richiesta dai parametri stabiliti anche dalla Corte EDU nell’interesse del minore. La procedura in esame prevede l’adozione speciale ossia l’adozione di un minore che non si trovi in stato di abbandono e che sia inserito stabilmente in un nucleo in cui   egli sia accudito correttamente in quanto legato da una relazione affettiva stabile e duratura oltre che con il suo genitore biologico anche con il cosidetto  genitore sociale. L’ipotesi più ricorrente è infatti quella dei compagni dei padri e delle madri dei minori i quali si occupano del figlio del loro compagno o compagna od anche ci vivono insieme, nel tempo che questo si trova dal genitore. Costoro appaiono alla società come genitori di quel minore, perché come tali si comportano.

Orbene, secondo la Corte una siffatta procedura non varrebbe a soddisfare interamente l’interesse del minore perché non garantirebbe un effettivo rapporto genitoriale  ( così  testualmente: come correttamente sottolinea l’ordinanza di rimessione, il possibile ricorso all’adozione in casi particolari di cui all’art. 44, comma 1, lettera d), della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore ad una famiglia), ritenuto esperibile nei casi all’esame dalla stessa sentenza n. 12193 del 2019 delle Sezioni unite civili, costituisce una forma di tutela degli interessi del minore certo significativa, ma ancora non del tutto adeguata al metro dei principi costituzionali e sovranazionali rammentati. L’adozione in casi particolari non attribuisce la genitorialità all’adottante. Inoltre, pur a fronte della novella dell’art. 74 cod. civ., operata dall’art. 1, comma 1, della legge 10 dicembre 2012, n. 219 (Disposizioni in materia di riconoscimento dei figli naturali), che riconosce la generale idoneità dell’adozione a costituire rapporti di parentela, con la sola eccezione dell’adozione di persone di maggiore età, è ancora controverso – stante il perdurante richiamo operato dall’art. 55 della legge n. 184 del 1983 all’art. 330 cod. civ. – se anche l’adozione in casi particolari consenta di stabilire vincoli di parentela tra il bambino e coloro che appaiono socialmente, e lui stesso percepisce, come i propri nonni, zii, ovvero addirittura fratelli e sorelle, nel caso in cui l’adottante abbia già altri figli propri. Essa richiede inoltre, per il suo perfezionamento, il necessario assenso del genitore “biologico” (art. 46 della legge n. 184 del 1983), che potrebbe non essere prestato in situazioni di sopravvenuta crisi della coppia, nelle quali il bambino finisce per essere così definitivamente privato del rapporto giuridico con la persona che ha sin dall’inizio condiviso il progetto genitoriale, e si è di fatto presa cura di lui sin dal momento della nascita.

La Corte, dichiarando quindi inammissibile la questione di legittimità costituzionale, invita il legislatore, nella propria discrezionalità, a disciplinare un procedimento di adozione idoneo a realizzare l’interesse del minore nato all’estero, da maternità surrogata, al legame di filiazione con il genitore non biologico.