Corte di giustizia UE,  Grande Sezione 13 novembre 2018, C-310/17, Levola Hengelo BV c Smilde Foods BV

«Rinvio pregiudiziale – Proprietà intellettuale – Armonizzazione di taluni aspetti del diritto d’autore e dei diritti connessi nella società dell’informazione – Direttiva 2001/29/CE – Ambito di applicazione – Articolo 2 – Diritti di riproduzione – Nozione di “opera” – Sapore di un alimento»

Principio: La Direttiva 2001/29/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 22 maggio 2001, sull’armonizzazione di taluni aspetti del diritto d’autore e dei diritti connessi nella società dell’informazione, dev’essere interpretata nel senso che essa osta a che il sapore di un alimento sia tutelato dal diritto d’autore ai sensi di tale direttiva e a che una normativa nazionale sia interpretata in modo da conferire a un tale sapore una tutela ai sensi del diritto d’autore.

Il principio in parola reso dalla Corte di Giustizia Europea  in tema di sapore degli alimenti (si trattava  di introdurre fra le opere artistiche e/o letterarie meritevoli di tutela anche il sapore di un alimento, nella specie il sapore di  Heksenkaas» o «Heks’nkaas» formaggio olandese spalmabile con panna e erbe aromatiche, già protetto da un brevetto con riguardo al procedimento di produzione) si muove nell’alveo del principio sancito dal Trattato che garantisce la protezione del diritto d’autore, qualunque ne sia la forma e/espressione, escludendo dalla tutela “le idee, i procedimenti, i metodi di funzionamento o i concetti matematici in quanto tali”.

La Corte, dopo aver rilevato come il sapore di alimento possa essere tutelato dalla Direttiva 2001/29 a condizione che rientri nel concetto di “opera”, ha osservato che devono essere necessarie due condizioni cumulative, la prima, che l’oggetto tutelabile sia originale, e la seconda che l’espressione tutelata abbia caratteristiche di precisione di obbiettività, quand’anche non permanenti. Queste ultime caratteristiche  non ricorrono nel caso del sapore di un alimento  in quanto la sua identificazione  “si basa essenzialmente su sensazioni ed esperienze gustative soggettive e variabili,  (che) dipendono, in particolare, da fattori connessi alla persona che assapora il prodotto in esame, come la sua età, le sue preferenze alimentari e le sue abitudini di consumo, nonché l’ambiente o il contesto in cui tale prodotto viene assaggiato”; tanto più che gli attuali mezzi tecnici disponibili non consentono di distinguere il sapore di alimento che si intende tutelare  dal sapore di altri prodotti dello stesso tipo.

Corte di giustizia UE 13 novembre 2018, causa C-33/17 Cepelnik d.oo/Michael Vavti

Principio: L’articolo 56 TFUE deve essere interpretato nel senso che esso osta a una normativa di uno Stato membro, come quella di cui al procedimento principale, in base alla quale le autorità competenti possono imporre a un committente stabilito in tale Stato membro di sospendere i pagamenti alla sua controparte contrattuale stabilita in un altro Stato membro e persino di costituire una cauzione di importo equivalente al compenso per la prestazione non ancora versato, a garanzia del pagamento dell’eventuale sanzione pecuniaria che potrebbe essere inflitta a detta controparte in caso di accertata violazione del diritto del lavoro del primo Stato membro.

La Corte ha innanzitutto considerato che costituiscono restrizioni alla libera prestazione dei servizi tutte le misure che vietino, ostacolino o rendano meno allettante l’esercizio di detta libertà. In particolare, misure che impongano ad un committente, in caso di ragionevole sospetto di un’infrazione amministrativa da parte del prestatore di servizi alla normativa nazionale in materia di diritto del lavoro, la sospensione dei pagamenti dovuti alla sua controparte contrattuale e il versamento di una cauzione di importo pari al compenso della prestazione ancora da versare possono privare, da un lato, il destinatario dei servizi della possibilità di trattenere una parte del suddetto importo quale indennizzo in caso di vizi o di ritardo di nell’esecuzione dei lavori e, dall’altro, il prestatore di servizi del diritto di reclamare il pagamento del compenso per la prestazione residua. Una simile restrizione può essere ammessa quando sia giustificata da ragioni imperative d’interesse generale, sia idonea a garantire la realizzazione dello scopo perseguito e non vada oltre quanto è necessario per il raggiungimento di quest’ultimo.

Nel caso in esame le misure previste dalla normativa austriaca volte a garantire l’efficacia della sanzione applicata ai prestatori d’opera nel caso di violazione della legislazione del lavoro, devono essere considerate idonee per tutelare l’obiettivo della difesa sociale dei lavoratori. La Corte ha però osservato che la possibilità di ingiungere misure di tal genere anche prima che l’autorità competente abbia accertato un’infrazione amministrativa alla normativa nazionale in materia di diritto del lavoro è contraria  all’art. 56 TFUE  perché la legislazione nazionale non prevede  che il prestatore di servizi nei confronti del quale gravi un ragionevole sospetto di aver commesso una simile infrazione possa, prima dell’adozione di dette misure, far valere le proprie osservazioni in merito ai fatti contestati. Inoltre, dato che l’importo della cauzione che può essere imposta al destinatario dei servizi interessato può essere fissato dalle autorità competenti senza considerare eventuali vizi di costruzione o altre inadempienze del prestatore di servizi nell’esecuzione del contratto d’opera, esso potrebbe superare, anche in misura consistente, l’importo che il committente interessato dovrà normalmente versare al termine dei lavori.

Corte di giustizia, 6 novembre 2018, C-684/16, Max-Planck-Gesellschaft zur Förderung der Wissenschaften eV c Tetsuji Shimizu

Principio: L’articolo 7 della direttiva 2003/88/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 4 novembre 2003, concernente taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro, e l’articolo 31, paragrafo 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea devono essere interpretati nel senso che ostano a una normativa nazionale, come quella discussa nel procedimento principale, in applicazione della quale, se il lavoratore non ha chiesto, nel corso del periodo di riferimento, di poter esercitare il suo diritto alle ferie annuali retribuite, detto lavoratore perde, al termine di tale periodo – automaticamente e senza previa verifica del fatto che egli sia stato effettivamente posto dal datore di lavoro, segnatamente con un’informazione adeguata da parte di quest’ultimo, in condizione di esercitare questo diritto –, i giorni di ferie annuali retribuite maturati per tale periodo ai sensi delle suddette disposizioni, e, correlativamente, il proprio diritto a un’indennità finanziaria per dette ferie annuali non godute in caso di cessazione del rapporto di lavoro. Il giudice del rinvio è, a tale riguardo, tenuto a verificare, prendendo in considerazione il diritto interno nel suo complesso e applicando i metodi di interpretazione riconosciuti da quest’ultimo, se gli sia possibile pervenire a un’interpretazione di tale diritto che sia in grado di garantire la piena effettività del diritto dell’Unione.

La Corte, dopo aver sancito il principio in base al quale i giorni di ferie retribuiti  non goduti dal lavoratore nel corso del rapporto del lavoro  e non oggetto di considerazione in caso di cessazione del rapporto del lavoro, devono essere fruiti o indennizzati, ha disposto che è fatto obbligo al giudice nazionale di verificare l’esistenza di una normativa che tuteli l’esercizio effettivo di tale diritto. Nel caso in cui ciò non sia possibile, il giudice nazionale, investito di una controversia tra un lavoratore e il suo ex datore di lavoro avente qualità di privato, deve disapplicare tale normativa nazionale e assicurarsi che, ove detto datore di lavoro non sia in grado di dimostrare di aver esercitato tutta la diligenza necessaria affinché il lavoratore fosse effettivamente in condizione di fruire delle ferie annuali retribuite alle quali aveva diritto ai sensi del diritto dell’Unione, il lavoratore medesimo non possa essere privato dei diritti da lui maturati. Né, correlativamente, in caso di cessazione del rapporto di lavoro, il lavoratore può essere privato dell’indennità finanziaria per le ferie non godute, il cui pagamento è direttamente a carico, in tal caso, del datore di lavoro interessato.