La Corte di Giustizia dell’Unione Europea, con sentenza del 17 marzo 2021 resa in causa C-652/19, ha deciso un interessante caso, nel quale il datore di lavoro aveva proceduto al licenziamento collettivo di 350 lavoratori. Il Tribunale di Milano ha giudicato il licenziamento illegittimo, per violazione dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare dettati dalla L. 223/1991, e ha dunque ordinato al datore di reintegrare sul posto di lavoro, in applicazione della tutela c.d. “reale” di cui all’art. 18 L. 300/70, 349 lavoratori. Ossia tutti, tranne una lavoratrice, che era stata assunta nel 2013 con contratto a tempo determinato, poi trasformato in tempo indeterminato a far data del 31 marzo 2015: a questa lavoratrice non era dunque applicabile la tutela di cui all’art. 18 (applicabile a chi era stato assunto con contratto a tempo indeterminato prima del 7 marzo 2015) ma quella – decisamente minore – di cui al d.lgs. 23/2015 (c.d. “jobs act”), con conseguente condanna del datore non già alla reintegrazione – come tutti gli altri lavoratori – ma ad una sola indennità pecuniaria.

Il Tribunale di Milano aveva dubitato della compatibilità di questa conclusione col diritto dell’Unione Europea sotto un duplice profilo: da un lato, violazione della direttiva 98/59 sui licenziamenti collettivi perché la mera tutela indennitaria non era ritenuta dal Giudice di primo grado sufficiente a garantire i diritti del lavoratore e a dissuadere il datore dal licenziare ingiustamente.

Dall’altro, perché giudicava irragionevole tale disparità di trattamento fra i 349 lavoratori a cui era applicabile la tutela reintegratoria di cui all’art. 18 perché assunti prima del 7 marzo 2015, e quell’altra lavoratrice che poteva godere solamente di una tutela indennitaria perché assunta a tempo indeterminato solo dal 30 marzo 2015, senza che il tempo lavorato in azienda prima, quando era assunta solamente “a termine”, potesse valere a farla ricadere nella tutela reale. In altri termini, il Tribunale riteneva che così opinando si sarebbe creata una irragionevole e illegittima disparità di trattamento fra lavoratori assunti a tempo indeterminato e assunti “a termine”, in quanto il periodo maturato prima del 7 marzo 2015 veniva conteggiato solo per i primi e non per i secondi… con una radicale differenza di tutele avverso il licenziamento illegittimo.

Così ritenendo, il Tribunale di Milano ha sollevato rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea. Val la pena subito evidenziare che la prima questione è stata subito rigettata dalla Corte in quanto i criteri di scelta fra i lavoratori da licenziare – unico motivo di illegittimità del licenziamento collettivo – non ricadono nel campo d’applicazione della direttiva 98/59 e, dunque, la questione circa l’efficacia della sanzione non può essere conosciuta dalla Corte lussembrughese.

Più complesso il discorso invece sulla seconda questione.

Abbiamo già affrontato su questo sito il tema della discriminazione dei lavoratori a tempo determinato, commentando la sentenza 5476/21. In quel caso, la Corte di Cassazione aveva giudicato un’illegittima discriminazione il fatto che il datore avesse rinnovato il contratto di lavoro a tutti i lavoratori a termine, ad eccezione di una lavoratrice incinta.

Diverso questo caso, nel quale la discriminazione discende direttamente da una norma di legge, che esplicitamente dispone l’applicabilità del “jobs act” ai lavoratori assunti a tempo indeterminato dopo il 7 marzo 2015, anche se erano già in azienda prima di tale data con contratto a termine.

La Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha ritenuto che le discriminazioni fra lavoratori a tempo determinato e a tempo indeterminato sono illegittime, a meno che non sussistano ragioni oggettive – e, aggiungiamo noi, meritevoli di tutela giuridica – a sorreggere la diversità di trattamento. Sulla scorta di ciò, la Corte passa in rassegna le ragioni sottese alla disposizione in parola.

Tale normativa, secondo la Corte, trova la sua ratio nel tentativo di incoraggiare i datori di lavoro ad assumere con contratto a tempo indeterminato: in altri termini, l’allentamento delle tutele avverso il licenziamento illegittimo renderebbe più agevole l’assunzione a tempo indeterminato perché il datore è liberato dalla paura di dover reintegrare il lavoratore se il licenziamento da lui comminato venisse giudicato illegittimo. Ne sarebbe conferma il fatto che la lavoratrice che lamentava la discriminazione era stata assunta a tempo indeterminato proprio in conseguenza dell’entrata in vigore del c.d. “jobs act” e aveva ricevuto una tutela, per quanto minore, avverso il licenziamento collettivo solo grazie a tale assunzione, mentre se fosse rimasta “a termine” non avrebbe avuto strumento alcuno.

Non è questa la sede per discutere della veridicità di una simile affermazione. Basti sapere che tale ratio è stata giudicata sufficiente dalla Corte a giustificare la disparità di trattamento in parola, che dunque ha così concluso: “La clausola 4 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18 marzo 1999 e allegato alla direttiva 1999/70/CE del Consiglio, del 28 giugno 1999, relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, deve essere interpretata nel senso che essa non osta a una normativa nazionale che estende un nuovo regime di tutela dei lavoratori a tempo indeterminato in caso di licenziamento collettivo illegittimo ai lavoratori il cui contratto a tempo determinato, stipulato prima della data di entrata in vigore di tale normativa, è convertito in contratto a tempo indeterminato dopo tale data”.