In assenza di una norma che in via generale definisca il concetto di ENTE PUBBLICO, l’elaborazione di criteri identificativi dello stesso è stata rimessa agli sforzi di dottrina e giurisprudenza resi ancor più ardui negli ultimi anni, causa emersione di tre differenti fenomeni. Tali eventi sono riscontrabili nella genesi  di nuovi soggetti sostanzialmente pubblici (per funzioni e poteri) con forma societaria ritenuti quindi, nel contempo soggetti privati, il cui riconoscimento è avvenuto tramite il TU in materia di società D.lgs. 175/2016; nell’affermarsi di un concetto comunitario di Pubblica Amministrazione (P.A.) basato da un lato, sulla valorizzazione del profilo sostanziale del controllo pubblico (rispetto a quello formale concernente la forma di organizzazione pubblica)e dall’altro, sull’utilizzo di una nozione a geometrie variabili che non considera lo status di ente pubblico come permanente e non mutevole, bensì  fa riferimento ad un concetto elastico da applicare ratione materiae.  Il panorama attuale è ancora più variegato per effetto della  proliferazione delle autorità indipendenti caratterizzate da neutralità ed indipendenza, oltre che da estraneità rispetto ai controlli dell’autorità politica,tali da indurre dubbi circa la loro qualificazione come soggetti di P.A.

Tanto premesso, è necessario richiamare due riferimenti normativi che cercano, in parte, di porre un argine alla problematica de qua. In prima battuta va osservato che, l’art 4 L 70/75 stabilisce espressamente che : “nessun nuovo ente pubblico può esser costituito o riconosciuto se non per legge”, tale disposizione va a rafforzare il precetto costituzionale di cui all’art 97 ai sensi del quale :” i pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge”. Tale norma esprime il principio secondo cui, spetta all’ordinamento generale ed alle sue fonti stabilire ed individuare le soggettività che operano al suo interno. Dall’ art 4 L. 70/75 si ricava che nascita, modifica e soppressione di un ente pubblico, devono necessariamente basarsi  su regole giuridiche disposte dal legislatore; del pari, si richiede a quest’ultimo anche un’esplicita previsione circa il conferimento di veste pubblicistica ad un ente privato preesistente. Trattandosi però di una riserva c.d. relativa e quindi non assoluta di legge, è necessario sottolineare che molti enti pubblici (come ad esempio consorzi, aziende speciali) continuano ad essere istituiti da altri enti pubblici amministrativi sulla base di leggi e non per legge,  ragione per cui  in dottrina è solito porre una distinzione tra una configurazione astratta ed una concreta istituzione dell’ente.

La norma in esame non esclude  dunque che si possa pervenire al riconoscimento del carattere di pubblicità dell’ente in base a semplici   ELEMENTI SINTOMATICI dai quali desumerla. In difetto di una qualificazione espressa infatti, spetta all’interprete individuare i criteri identificativi della pubblicità dell’ente che, secondo dottrina e giurisprudenza prevalenti, consistono: in un sistema di controlli pubblici  più o meno intensi a seconda dell’autonomia del soggetto; nell’ingerenza dello stato o di altra P.A. nella nomina e revoca di dirigenti e nell’amministrazione dell’ente;  nel potere di direttiva dello stato verso l’ente in relazione al conseguimento di determinati obiettivi; nel finanziamento pubblico e nella costituzione dell’ente ad opera di soggetti pubblici. Importante è infine rilevare che a livello pratico, la mancata menzione di un singolo ente negli elenchi ISTAT non esonera dall’applicazione di tali “indici rivelatori”, al fine di individuare compiutamente , la natura pubblica o privata di un determinato soggetto.

La complessità dell’operazione di qualificazione, dipende anche dalla c.d. DETIPICIZZAZIONE DEGLI ENTI PUBBLICI caratterizzata da una stratificazione normativa che ha generato serie difficoltà nell’individuare un momento comune ed unificante del regime pubblico dell’ente. Peraltro, l’ordinamento si sarebbe orientato verso una nozione elatico-funzionale e cangiante di ente pubblico. Negli ultimi anni infatti, si è andata affermando la c.d. LOGICA DELLE GEOMETRIE VARIABILI (di matrice comunitaria) in base alla quale, almeno nei settori toccati da interventi “unionali” un ente può esser considerato pubblico, solo settorialmente e quindi, solo in  relazione a determinati ambiti mentre, nella generalità delle sue azioni, viene considerato privato. Si pensi a titolo esemplificativo, alle diverse nozioni di P.A. che l’Unione sposa ai fini della regolamentazione dei rapporti di lavoro, della responsabilità e degli appalti pubblici. Anche la nostra legislazione nazionale, come pocanzi esposto, in ossequio ad diritto comunitario, si sta aprendo ad una nozione di ente pubblico non statica ma dinamica, andando a qualificare l’ente come pubblico, non in modo perpetuo ma per scopi peculiari. E’ quanto accaduto, ad esempio, in materia di appalti (pubblici) con il nuovo codice dei contratti pubblici D.lgs 50/2016 che obbliga al rispetto delle regole di evidenza pubblica, una serie di soggetti (organismi di diritto pubblico, spa, società miste ecc) qualificandoli come P.A al sol fine di assoggettarli alla disciplina relativa gli appalti. Tale concetto elastico di P.A. ha consentito inoltre di annoverare tra i soggetti di diritto pubblico, anche enti in forma societaria ed ha trovato massima applicazione anche nelle ipotesi di società deputata alla gestione di servizio pubblico locale con particolare riguardo a quelle che gestiscono il servizio pubblico in house. Alla luce di quanto esposto, è possibile concludere che l’ente pubblico è quello che, al di la della definizione normativa, la giurisprudenza ritiene tale superando la rigida lettura della legge.

Tanto premesso, qualora si voglia descrivere teoricamente l’essenza dell’ente pubblico, occorre osservare che, pur non disconoscendo l’importanza dei c.d indici rivelatori  esterni di pubblicità utilizzati dalla giurisprudenza, essi non risultano idonei a rilevare l’elemento essenziale della pubblicità di una persona giuridica. Tale elemento va ricercato, considerando la particolare rilevanza pubblica dell’interesse che l’ente cui è connessa, la valutazione della presenza di tale interesse nel nostro ordinamento. L’interesse è pubblico in quanto la legge, accertato che abbia rilevanza generale e carattere non industriale e commerciale , lo imputi ad una persona giuridica che concretamente sarà tenuta a perseguirlo. Detti bisogni non dovranno esser quindi suscettibili di esser soddisfatti mediante attività di produzione o scambio di beni o servizi organizzati attraverso criteri di economicità. Da ciò discenderà, l’automatico riconoscimento di tale soggetto come pubblico.

Da ultimo deve farsi cenno a due particolari ipotesi, la prima in cui il potere pubblico può esser eccezionalmente speso da un privato e la seconda , su cui dottrina e giurisprudenza si sono a lungo interrogate, relativa il caso in cui una legge vada a qualificare come pubblico, un ente già esistente che abbia però una matrice sostanzialmente privatistica .Per quanto attiene il primo istituto esso prevede lo svolgimento di una attività di diritto pubblico, in nome proprio, da parte di un privato estraneo alla P.A. ai sensi dell’art. 1 e 1 ter L.241/90. Si tratta in definitiva, di un mezzo utilizzato dagli enti pubblici per perseguire i loro fini delegandone l’attuazione ad soggetto che è e resta privato. Richiamando il succitato art 97 cost. esso prevede che la traslazione di un potere pubblico ad un privato avvenga comunque tramite una legge autorizzativa e che la sostituzione di un privato ad una P.A. non implica il venir meno della titolarità della funzione pubblica che resta sempre in capo alla P.A.  Con il passare degli anni, parte della giurisprudenza ha qualificato l’esercente la pubblica funzione  (in particolare il concessionario di pubblico servizio) come un organo indiretto della P.A., ritenendo le sue determinazioni (provvedimenti amministrativi) impugnabili ex art 103 cost. dinanzi al GA ove incidano  su posizioni soggettive di privati. In tal caso, le norme che prevedono tale traslatio di potere pubblico a soggetto privato, ne sanciscono la qualificazione rationae materiae come P.A. ciò ad ulteriore avallo, dello sviluppo di quella nozione elastica di PA . Di qui il richiamo anche all’art 133 c.p.a che devolve al GA, in sede esclusiva, la cognizione di controversie relative le procedure di affidamento de qua. Per ciò che invece attiene la seconda ipotesi, ciò che viene  in considerazione  è se a tale operazione nominalistica debba necessariamente corrispondere una modifica sostanziale in seno a disciplina e regole di funzionamento della persona giuridica in questione. Ebbene, tale problematica è stata sollevata in relazione alle IPAB (istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza) ,che sono state convertite e qualificate quali enti pubblici, senza però apportare  modifiche sulla loro organizzazione  richiamate. La Corte Costituzionale ha chiarito che, la legge potrà qualificare come pubblico, quell’ente che abbia già natura pubblica sul piano sostanziale  (organizzazione, funzionamento, attività e finalità perseguite) ma non potrà attribuire nomen pubblicistico a soggetti integralmente privati, con particolare riferimento alle IPAB. La Corte ha precisato, che seppur esse astrattamente perseguono un fine pubblico (di interesse generale) e  non abbiano, tuttavia,  una creazione, un finanziamento o gestione pubblica, non potranno esser definiti enti dotati di pubblicità. Da ciò discende che, il legislatore è vincolato al rispetto di un parametro di ragionevolezza secondo cui non è sufficiente un generico fine pubblico (perseguibile anche da soggetto privato), essendo quindi necessario per la qualifica pubblica di ente, l’assoggettamento dello stesso ad un regime concernente organizzazione, potere decisionale, controllo e finanziamento di matrice pubblica.

La qualificazione di ente come pubblico risulta importante in quanto comporta rilevanti conseguenze giuridiche. La presenza di tali conseguenze, molte volte, è considerata indice rivelatore della pubblicità per cui, vi può essere una sovrapposizione di presupposti e conseguenze . Tra tali effetti, ve ne sono alcuni che comportano un regime di favore rispetto ai soggetti di diritto privato ed altri che comportano una deminutio.

Focalizzando la nostra analisi sulle finalità positive , In primis deve evidenziarsi che ogni persona giuridica pubblica ha un potere di imperio in relazione alla propria organizzazione  che si sostanzia nel dettare regole fondamentali in merito. Tali atti organizzativi si suddividono in due tipologie ovvero di macro e micro organizzazione. Quelle di macro organizzazione vanno a definire la linee fondamentali di organizzazione degli uffici, individuano gli uffici di maggiore rilievo, le modalità di conferimento della titolarità dei medesimi e le dotazioni organiche complessive (art. 2 TUPI). Quelli di Micro organizzazione invece riguardano, aspetti organizzativi più ristretti di uffici e gestione di rapporti. Essi sono adottati dalla P.A. nell’esercizio dei poteri e delle capacità del datore di lavoro privato (art 5 TUPI)in presenza dei quali, si riscontrano posizioni di diritto soggettivo, data la parità del rapporto che si instaura tra P.A. e dipendenti. Gli enti pubblici godono inoltre di ulteriori forme di imperio la cui sussistenza ed estensione varia da ente ad ente. Parliamo infatti, della capacità di porre in essere norme generali ed astratte (c.d. AUTONOMIA NORMATIVA); di fissare i propri obiettivi (AUTONOMIA DI INDIRIZZO); decidere delle proprie spese e disporre di entrate (AUTONOMIA FINANZIARIA) e di tributi (AUTONOMIA TRIBUTARIA).

L’AUTARCHIA invece è la possibilità di agire per conseguire i propri fini mediante l’esercizio di attività amministrativa che ha natura ed effetti di quella della P.A.  Parte della dottrina rifiuta la configurazione dell’autarchia come mera specificazione del concetto di AUTONOMIA piuttosto, opera una distinzione tra i due concetti in quanto, l’autonomia sarebbe attinente la possibilità di emanare norme giuridiche, l’autarchia invece sarebbe connessa alla possibilità per gli enti pubblici di emanare provvedimenti

Solo l’ente pubblico inoltre ha potestà di AUTOTUTELA in quanto, l’ordinamento gli riconosce la possibilità di risolvere un conflitto attuale o potenziale di interessi e di sindacare la validità dei propri atti senza bisogno di ricorrere all’autorità giudiziaria. L’autotutela amministrativa pone il netto discimen tra soggetti di diritto pubblico ed il privato, il quale, di  norma ,non può farsi giustizia da se ma deve sempre ottenere una pronuncia giudiziaria. Incerto risulta l’ambito di applicazione dell’autotutela .  Si nega infatti che essa faccia riferimento ai soli rapporti di diritto pubblico, ritenendo che in alcuni casi, sia esercitabile anche in relazione  a rapporti di diritto privato che fanno capo all’amministrazione. Discusso risulta anche se tale potere e le sue esplicazioni abbiano carattere generale ovvero sussistano solo in ipotesi tassativamente previste dalla legge. La legge 241/90 ha riconosciuto carattere generale ai poteri amministrativi di revoca (art 21 quinques), sospensione (21 quarter), ed agli atti di annullamento e convalida ( 21 nonies). E’ possibile distinguere tra AUTOTUTELA DECISORIA che si esprime attraverso l’adozione di provvedimenti, quali l’annullamento ed AUTOTUTELA ESECUTIVA che consiste nel compimento di operazioni come ad esempio la demolizione di opere pubbliche. Opportuno risulta infine precisare che il solo presupposto che un provvedimento sia illegittimo, non è  dunque sufficiente a giustificare l’esercizio dell’autotutela su quel determinato atto, ed è inoltre sempre opportuno, dimostrare l’esistenza di un interesse pubblico attuale all’emanazione dell’atto.

La qualificazione pubblicistica di un soggetto inoltre comporta l’assoggettamento del contenzioso concernente i PROVVEDIMENTI  da questo adottati alla giurisdizione del GA ex art 103 Cost. con la conseguenza che, in assenza della qualificazione pubblica, la giurisdizione non sarà devoluta a tale giudice. Gli enti pubblici sono sottratti alle regole ordinarie del FALLIMENTO mentre sotto il profilo patrimoniale, i beni demaniali ed indisponibili della PA non sono suscettibili di ESECUZIONE FORZATA secondo le regole ordinarie del cpc , ne di ESPROPRIAZIONE PER PUBBLICA UTILITA’, salvo casi eccezionali.  A tal proposito, risulta necessario effettuare un approfondimento, in quanto, come noto sia il c.c. (art 2221), sia la Legge Fallimentare (art 1) stabiliscono per l’ente pubblico una esplicita esenzione dalle disposizioni in materia di fallimento e concordato preventivo (fatta salva la possibilità, in casi espressamente previsti dalla legge, dell’attuazione della liquidazione coatta amministrativa).  Con riferimento alle SOCIETA’ A CAPITALE PUBBLICO invece, in mancanza di previsioni normative che ne stabiliscono la fallibilità o meno, si pone il problema se le stesse siano assoggettabili al regime degli enti pubblici o dei soggetti di diritto privato. Le società a capitale pubblico sono soggetti formalmente privati disciplinati da norme che, in alcuni casi, derogano in chiave pubblicistica alla disciplina di diritto civile. La scelta della forma societaria, come modalità di organizzazione dell’ente pubblico, comporta quindi la necessità di conciliare la struttura tipica della società imperniata sul fine di lucro, con l’interesse pubblico che si intende perseguire. In merito a ciò, il dibattito tradizionale sviluppatosi, evidenzia una contrapposizione tra una visione privatistica secondo cui le società a partecipazione pubblica sarebbero soggette al medesimo regime delle società di capitali a partecipazione privata, ed una visione pubblicistica, la quale proprio in considerazione della rilevanza di interessi pubblici, giunge ad ammettere la sostituzione delle società dettate dal c.c. con altre di natura pubblica.   Secondo un’ opinione dominante, le società in mano pubblica non perdono la loro natura privata rimanendo quindi soggette a fallimento e concordato preventivo. Tale assunto, sarebbe avallato dal fatto che il legislatore nel dettare poche norme ( artt 2448, 2451 cc) con riferimento alle società con partecipazione dello stato o di altri enti pubblici, avrebbe con ciò manifestato la volontà di assoggettare queste ultime, salvo quanto stabilito dalle norme citate, alla stessa disciplina prevista per le società private.  A sostegno di tale tesi, diversi sono  gli argomenti proposti dalla dottrina. Si ritiene infatti che, l’assoggettamento dell’attività della società in mano pubblica ad alcune regole giuspubblicistiche, non ne muta la natura privata e la conseguente applicazione dello statuto dell’imprenditore commerciale ed inoltre che, l’esenzione dalle procedure concorsuali, pregiudicherebbe secondo alcuni, sia l’interesse dei creditori, sia l’interesse pubblico, sia (potenzialmente) l’interesse della stessa società. La sottrazione ai creditori del rimedio dell’esecuzione concorsuale e la possibilità di ottenere tutela dei suoi interessi mediante il ricorso alla sola esecuzione individuale, lederebbe i principi di affidamento ed eguaglianza dei creditori che entrano in rapporto con la società pubblica. Infine, secondo tale orientamento, ove le società a partecipazione pubblica insolventi fossero non assoggettabili a fallimento ed alle altre procedure concorsuali, ciò potrebbe determinare una violazione del diritto di concorrenza, nonché una disparità di trattamento tra imprese pubbliche e private, lesiva, non solo dell’art 3 cost. ma anche dell’art 106 TFUE che impone parità di trattamento tra quanti operano all’interno dello stesso mercato con stesse modalità e forme. Recentemente, anche la Cassazione, dopo varie oscillazioni, ha aderito alla tesi dell’assoggettabilità al fallimento delle società de qua (Cass. Sent. 15 maggio 2013). L’iter logico seguito dagli ermellini, muove dalla considerazione, secondo cui, la scelta del legislatore di perseguire l’interesse pubblico attraverso lo strumento privatistico, comporta che tali società si assumano i rischi connessi alla loro insolvenza, pena la violazione dei principi di uguaglianza ed affidamento dei soggetti che con esse entrano in rapporto, data la necessità del rispetto delle regole sulla concorrenza. I giudici di legittimità, al fine di giustificare la soggezione al fallimento delle società de qua, richiamano nella sentenza su citata, il principio secondo il quale: una società non muta la sua natura di soggetto privato, solo perché un ente pubblico ne possiede in tutto o in parte il capitale. Se la fallibilità delle società a capitale misto (pubb-priv) risulta esser pacifica, la giurisprudenza ha tentennato relativamente alle società a totale partecipazione pubblica. Con la sent. 25 nov.2013, le SS.UU. muovendo dalla considerazione secondo cui le SOCIETA’ IN HOUSE  rappresentano la c.d. “longa manu” dell’ente pubblico controllante, ha superato i primari dubbi, sostenendo che non vi è distinzione tra ente e società, di conseguenza, anche quest’ultima riveste le caratteristiche dell’ente pubblico e per tale motivo non è soggetta a fallimento. Diverse le pronunce di merito a sostegno di quanto su esplicato, le quali hanno ritenuto che le società in mano pubblica, al ricorrere di determinate condizioni, non sarebbero fallibili, non in quanto enti pubblici ma perché non riconducibili alla categoria dell’imprenditore commerciale.  Secondo altro orientamento invece, le società pubbliche, in presenza di determinati indici sintomatici ed indipendentemente dalla veste giuridica formale, possono essere qualificate quali soggetti sostanzialmente pubblici con conseguente esenzione dal fallimento ciò, alla luce del disposto dell’art 1 co 1 L.Fall. previsto per gli enti pubblici.  La dottrina pur ammettendo la possibilità per le società pubbliche di fallire, ritiene opportuno distinguere a seconda delle caratteristiche di ciascuna società. In particolare, nelle SOCIETA’ A PARTECIPAZIONE PUBBLICA bisognerebbe tener presente, che vi sono società che si differenziano tra loro radicalmente, sia con riferimento al grado di ingerenza riconosciuto all’ente pubblico dalla LEGGE ISTITUTIVA, dallo Statuto e dalla partecipazione sociale, sia con riguardo ai compiti ad essa assegnati. Al fine di stabilire il regime giuridico applicabile alle diverse società a capitale pubblico, la dottrina oggi privilegia un orientamento di tipo SOSTANZIALISTICO che, andando oltre la semplice forma giuridica prescelta per l’esercizio del servizio pubblico, si basa sui concreti interessi coinvolti nella fattispecie. L’approccio sostanzialistico, è nato dalla constatazione secondo la quale, in molti casi, l’uso della veste privatistica da parte della P.A. può consentire alla stessa di sciogliersi dai vincoli pubblicistici posti alla sua azione, potendo cosi fruire della più flessibile disciplina privatistica. Pertanto, indipendentemente dalla qualificazione formale in termini di ente pubblico, a talune società a capitale pubblico che presentano determinati requisiti, possono applicarsi specifiche discipline settoriali previste per i soggetti pubblici, se ciò risulta necessario per la tutela di determinati interessi rilevanti per l’ordinamento. Il criterio della valutazione degli interessi protetti elaborato per individuare la normativa pubblicistica o privatistica applicabile alle diverse categorie di società a capitale pubblico, è stato utilizzato anche nell’affrontare la problematica relativa l’applicabilità della procedura fallimentare (c.d. CRITERIO FUNZIONALE).  In tale prospettiva, l’esenzione di talune società a capitale pubblico dalla procedura fallimentare, non deriverebbe dalla loro qualificazione sul piano formale in termini di “ente pubblico” ai sensi dell’art 1 L.Fall. (CRITERIO TIPOLOGICO) , ma dipenderebbe da una valutazione avente ad oggetto la compatibilità della disciplina fallimentare con gli interessi protetti nella fattispecie che viene considerata. Quando gli interessi pubblicistici emergono e devono ritenersi prevalenti, anche nelle società a capitale pubblico potrà essere utilizzato il criterio interpretativo su richiamato che, superando il dato formale, consente (o impone), al fine di tutelare tali interessi, l’applicazione del particolare regime pubblicistico che prevede l’esclusione dal fallimento. Tali conclusioni, tuttavia, non possono valere in maniera unitaria per tutte le società a capitale pubblico, in quanto vi sono società a partecipazione pubblica il cui fallimento non lede alcuno degli interessi pubblici tutelati dall’art. 1 l. fall. e società per le quali tale lesione è in re ipsa.  Quest’ultima categoria, in particolare, è costituita dalle società a capitale pubblico che presentano il carattere della “necessità”, nel senso che la loro esistenza è considerata necessaria dall’ente territoriale che vi intrattiene rapporti connessi a tale valutazione. La necessità è legata, allo svolgimento di determinati servizi pubblici essenziali destinati al soddisfacimento di bisogni collettivi (es. servizio di raccolta dei rifiuti, servizio di trasporto pubblico; servizio postale) che l’ente pubblico abbia affidato alla società. In questi casi, però, carattere necessario assume non tanto il determinato soggetto o ente che svolge il servizio pubblico ad esso assegnato, quanto il servizio medesimo. Alla luce delle superiori argomentazioni, dunque, quando una società in mano pubblica riveste carattere necessario per l’ente territoriale in un determinato momento, si profila una oggettiva incompatibilità tra l’eventuale suo assoggettamento a procedura fallimentare e la tutela degli interessi pubblici. In proposito, l’effetto immediato del fallimento è lo spossessamento del debitore e la cessazione dell’attività d’impresa (art. 42 l. fall.). Dal momento della dichiarazione di fallimento, la società in mano pubblica potrebbe così essere obbligata a cessare la propria attività d’impresa e, quindi, anche ad interrompere con effetto immediato, l’esercizio del pubblico servizio di cui è titolare. Proprio questo effetto interruttivo dell’attività d’impresa, che potrebbe conseguire alla sentenza di fallimento, verrebbe a pregiudicare l’interesse pubblico alla esecuzione continuativa e regolare del servizio pubblico.  Acquisito quindi il dato della non assoggettabilità al fallimento, a determinate condizioni, delle società in mano pubblica, si pone tuttavia il problema dell’individuazione  dell’individuazione del criterio più idoneo  da utilizzare per  la comparazione e selezione degli interessi rilevanti nella specifica normativa concorsuale (criterio funzionale), e quello basato invece sulla “natura giuridica” della società, utilizzato quest’ultimo anche dalla giurisprudenza (criterio tipologico).  Secondo la giurisprudenza di merito, infatti, va riconosciuta natura sostanzialmente pubblica a soggetti formalmente privati ove ricorrono determinati elementi, quali: detenzione della maggioranza del capitale sociale da parte dell’ente o degli enti pubblici, influenza dominante esercitata dai pubblici poteri sulla società, esistenza di una disciplina derogatoria rispetto a quella propria dello schema societario (criterio tipologico).  In presenza di questi indici, la società, formalmente privata ma sostanzialmente pubblica, dovrebbe essere esentata dal fallimento, indipendentemente dal tipo di attività svolta e dalla sua strumentalità rispetto al perseguimento dell’interesse pubblico. Avviandoci alle conclusioni e volgendo più in generale lo sguardo ai diversi orientamenti succedutesi negli ultimi anni in dottrina ed in giurisprudenza, di fronte ad un quadro così frammentato, il quale presenta ancora elementi di incertezza, parte della dottrina auspica un intervento del legislatore in materia, volto, ad introdurre una procedura di insolvenza speciale per quelle società che soggettivamente (perché a capitale pubblico) o oggettivamente (perché di interesse strategico o di rilevanza nazionale) non possono essere assoggettate al regime generale. Dopo avere esaminato la possibilità o meno di sottoporre le società in mano pubblica a fallimento, pare necessario, infine, dedicare qualche considerazione in merito alla possibilità di ricorrere alle altre procedure concorsuali previste dal nostro ordinamento e, innanzitutto, al concordato preventivo.  In proposito, come per il fallimento, differenti sono gli esiti derivanti dall’applicazione del metodo “tipologico” o di quello “funzionale”.   Nel caso in cui si applichi il metodo tipologico, dando così rilevanza alla natura giuridica del soggetto debitore, l’affermazione della natura sostanzialmente pubblica del soggetto implica come conseguenza l’esclusione dello stesso non solo dal perimetro delle imprese fallibili, ma anche da quello delle imprese assoggettabili a concordato preventivo.  In senso opposto, ove si applichi il metodo funzionale, che lega l’esenzione dalla procedura concorsuale al carattere della necessità della società (inteso come preordinazione della stessa allo svolgimento di determinati servizi essenziali destinati al soddisfacimento di bisogni collettivi, e, dunque, alla tutela dell’interesse pubblico alla continuità del servizio), vengono meno le ragioni che potrebbero impedire l’ammissibilità del concordato. Ciò, anche tenuto conto del fatto che, in quest’ultima ipotesi, non si produrrebbero quegli stessi effetti che tradizionalmente vengono invocati per escludere il ricorso alla procedura fallimentare.  Con riferimento alla tutela dell’interesse pubblico alla continuità del servizio, viene, infatti,  rilevato che, nell’ambito del concordato, l’apertura della procedura non impone l’interruzione dell’attività d’impresa che normalmente consegue alla dichiarazione di fallimento (art. 42 l. fall.), né lo spossessamento del debitore né, la procedura non attribuisce al tribunale un autonomo potere di scelta in merito alla destinazione del complesso aziendale ma piuttosto, questo avrà un potere di controllo.  Infine, con particolare riferimento al concordato preventivo con continuità aziendale, l’ammissione alla procedura non porta con sé l’interruzione nello svolgimento del servizio pubblico, in quanto l’art. 186-bis, l. fall., esclude da un lato, che tale procedura impedisca la partecipazione alla gara pubblica, e, dall’altro lato, che si faccia applicazione di quelle previsioni di legge e contrattuali che, per effetto dell’apertura della procedura, prevedono la risoluzione dei contratti sia privati che pubblici in corso d’esecuzione, la cui prosecuzione è anzi agevolata dal divieto di azioni esecutive individuali.  Anche il concordato preventivo liquidatorio non pone problemi di compatibilità con la tutela dell’interesse pubblico, in quanto, la scelta di non proseguire l’attività d’impresa, è assunta dalla stessa società in sede di piano di concordato, senza essere imposta dal Tribunale con il provvedimento di ammissione.  La dottrina ammette, inoltre, il ricorso da parte delle società a capitale pubblico, anche nell’ipotesi in cui si affermi l’esenzione dal fallimento, agli accordi di ristrutturazione dei debiti, ciò muovendo dal disposto dell’art. 182-bis, l. fall., che si limita a richiedere in capo al soggetto che vi fa ricorso la mera qualità di “imprenditore”.  Conclusivamente è opportuno sottolineare che, le problematiche connesse al variegato mondo delle società partecipate dagli enti pubblici ed all’esatto inquadramento giuridico delle stesse, rappresentano uno degli esempi più attuali delle sempre maggiori forme di interferenza tra diritto pubblico/amministrativo e diritto civile che si riflette sul tema dell’assoggettabilità delle società a capitale pubblico al fallimento e alle altre procedure concorsuali.  In assenza di una disciplina specifica, la materia non ha ancora trovato una soluzione uniforme, essendo state elaborate, alla luce dei principi e delle disposizioni normative vigenti, di volta in volta soluzioni differenti sulla base degli elementi concreti che caratterizzano la varie fattispecie societarie.

Unica eccezione sembra rinvenibile nella materia delle società in house, ove prevalgono argomentazioni che possono porsi come indici di univocità e di armonizzazione che fanno propendere per la esenzione dalla  fallibilità.

Lo scenario, alla luce della recentissima entrata in vigore del  nuovo codice d’impresa che ha  innovato profondamente la materia fallimentare fino a concepire una procedura unitaria dagli sbocchi differenti a seconda del grado di insolvenza in cui verte il soggetto sottoponibile alla procedura concorsuale, è destinato a complicarsi ulteriormente o, al contrario, a semplificarsi avuto riguardo alla necessarietà di sottoporre  l’attivazione di tutte  le procedure concorsuali   ad una valutazione unitaria da parte della Magistratura  fallimentare in un’ottica di stringente  preservazione dell’attività di impresa.