Ogni ordinamento giuridico ha come scopi precipui l’orientamento e la disciplina dello svolgersi dei rapporti economici e sociali degli individui, secondo principi fondamentali sia propri che ad esso superiori.

Per raggiungere tali obiettivi ogni branca dell’ordinamento è dotata di strumenti dispositivi e cogenti atti a prevenire o reprimere eventuali momenti patologici delle richiamate dinamiche sociali.

Il diritto penale, in particolare, si qualifica come quel complesso di norme che prevedono e disciplinano l’applicazione di una sanzione criminale (pene, misure di sicurezza, misure di prevenzione) in conseguenza di determinati comportamenti umani.La particolare incisività degli strumenti penalistici nella sfera della libertà personale e giuridico-patrimoniale dei consociati discende direttamente dalla inidoneità degli strumenti preventivi, riparatori o ripristinatori propri degli altri rami dell’ordinamento alla garanzia di situazioni sociali di particolare importanza, nonché degli interessi individuali e collettivi ad essi collegati.

Tuttavia, e di converso, immediata conseguenza del carattere penetrante delle sanzioni criminali è la necessità che di esse se ne faccia un uso limitato, sia nell’an che nel quomodo, ai casi in cui gli altri strumenti ordinamentali siano realmente inidonei alla tutela delle predette situazioni. Da qui discendono, pertanto, taluni dei principi regolatori della potestà normativa penale, quali il principio di offensività, necessità e meritevolezza della pena, nonché di frammentarietà ed estrema ratio del diritto penale.

Il concetto di reato quale offesa, in termini di danno o di messa in stato di pericolo, di uno o più beni giuridici è stato accolto e posto a fondamento della moderna teoria generale del diritto penale, condizionando altresì il legislatore ordinario e costituente, nonché gli interpreti dottrinali e giurisprudenziali.

In particolare, gli articoli 2, 13, 14, 15, 16, 21, 23 e 27 della Costituzione sono stati individuati come referenti costituzionali del principio di offensività in materia penale.

L’art. 2 Cost., vera e propria Grundnorm dell’ordinamento, è la disposizione da cui più chiaramente traspare l’assunzione del principio personalista a canone ordinativo e interpretativo dei rapporti tra governanti e governati, ossia tra le istituzioni nelle quali si articola la collettività organizzata  e i membri stessi del consorzio sociale.  In essa si sancisce il riconoscimento della preesistenza all’ordinamento di interessi e situazioni dal carattere squisitamente giuridico, benché pre-normativo, connaturate all’essere umano e la protezione della loro inviolabilità in tutte le manifestazioni che assumono, sino a giungere all’imposizione ad istituzioni e consociati di un generalizzato ed inderogabile obbligo di solidarietà politica, economica e sociale.

Con la disciplina di cui ai successivi artt. 13, 14, 15, 16, 21 e 23 Cost. il legislatore costituzionale ha articolato la garanzia dei diritti fondamentali della persona umana nella loro sussistenza e consistenza di situazioni giuridicamente inviolabili.  Dall’analisi ravvicinata delle norme in parola si rileva, nondimeno, che la predetta inviolabilità non è illimitata, non potendo tale requisito condurre al punto di paralizzare specifiche e fondamentali funzioni ordinamentali, quali la statuizione di norme incriminatrici corredate dalla minaccia di una sanzione penale o la loro concreta inflizione nei casi e nei modi previsti dalla legge. L’inviolabilità dell’habeas corpus, come della libertà morale dell’individuo (art 13), nonché della sua proiezione spaziale (art. 14), della libertà e segretezza della corrispondenza (art. 15), della libera circolazione sul territorio della Repubblica (art. 16) e del patrimonio, ammetttono restrizioni solo in presenza di atti o fatti che non costituiscono libera manifestazione del pensiero (art. 21) ma espressioni nocive per valori e interessi parimenti importanti per la pacifica convivenza sociale.

Ciò detto sotto il profilo statico, la dinamica del principio di offensività si interseca con il principio rieducativo della sanzione criminale e i connessi divieti di trattamento inumano e degradante (art. 27 Cost.). Pratica indicazione dei parametri necessari alla determinazione di una pena rieducativa è data all’interprete dal contenuto dell’art 133 c.p che (oltre che ad altri criteri) si riferisce espressamente alle caratteristiche dell’azione criminosa, alla gravità del danno o del pericolo cagionato all’offeso, ossia al grado di offesa arrecata alle istanze sociali protette dalla legge.

Anche le restrizioni più propriamente strumentali al procedimento penale di tali diritti (ispezioni, perquisizioni, sequestri, misure precautelari e misure cautelari) ricevono la loro legittimità dall’essere asservite, in ultima ratio, alla prevenzione e repressione di condotte costituenti illecito penale.

Le forti limitazioni all’esercizio della potestà normativa penale degli organi normativi comunitari, comunemente individuati nei confini dei singoli Stati membri, non impediscono di individuare nell’acquis comunitario chiari addentellati normativi con cui comparare gli appena illustrati referenti ordinamentali italiani in tema di necessaria offensività condotte criminose e reazione penale.

In primo luogo, viene in rilievo il riferimento alla inviolabilità della libertà personale fisica e morale degli individui riconosciuto in tutte le sue manifestazioni sia nella CEDU, che nella Carta dei diritti e delle libertà fondamentali dell’Unione Europea, come nel Trattato di Lisbona che li richiama elevandoli alla dignità dei Trattati istitutivi.  Si tratta del richiamo effettuato dagli artt. 1 a 11 della CEDU e dal Capo I della Carta europea dei diritti e delle libertà fondamentali di Nizza, da cui si deduce la fondamentale regola che le misure approntate dai singoli ordinamenti al fine di garantire l’attuazione del diritto debbano essere sempre adatte e proporzionate allo scopo e mai esorbitanti le limitazioni proprie della dignità umana, anche in caso di sanzioni penali.

Ulteriori aspetti della dinamica dei rapporti tra il principio di offensività, i suoi corollari, e i principi del diritto penale europeo vengono in rilievo in relazione all’an e al quomodo della competenza normativa dell’Unione europea in ambito penale. Ad essi è opportuno rivolgere un rapido sguardo per le implicazioni che hanno nel determinare la concreta fisionomia degli ordinamenti dei singoli Stati membri e nel corroborare i limiti poc’anzi richiamati all’esercizio del potere normativo penale.

Tradizionalmente, l’imprescindibile esigenza di legittimazione democratica dell’ordinamento penale ha posto seri limiti all’esercizio della potestà normativa penale degli organi legislativi europei, comportando la necessità di approntare particolari soluzioni normative al fine di raggiungere adeguati livelli di protezione degli interessi comunitari. Ciò principalmente a causa del tradizionale deficit democratico che connota gli organi legislativi europei e la correlata procedura di legiferazione, poi mutata nel corso del tempo.

Prima del trattato di Lisbona, dunque, l’ordinamento europeo provvedeva comunque alla tutela dei beni giuridici, benché attraverso strumenti indiretti finalizzati all’armonizzazione e al ravvicinamento degli ordinamenti dei Paesi membri. Le direttive, in modo particolare, necessitando della cooperazione nomopoietica singoli Stati, quali atti non direttamente applicabili, hanno costituito lo strumento privilegiato mediante il quale gli organi comunitari hanno incentivato tale processo di ravvicinamento e armonizzazione, individuando gli obiettivi di tutela da raggiungere nei settori di competenza ad essi delegati nei trattati, purtuttavia senza poter imporre gli strumenti giuridici con cui raggiungerli.

Oltre che a tali strumenti più propriamente normativi, la tutela dei beni giuridici “comunitari”, soprattutto in tema di lotta alle frodi al patrimonio ed al bilancio europeo, è stata altresì tradizionalmente affidata al principio di leale collaborazione (oggi previsto dall’art. 4 TUE) che impone agli stati membri l’assimilazione degli interessi europei agli interessi nazionali e, pertanto, la tutela degli stessi mediante tutti gli strumenti posti a disposizione dall’ordinamento interno per la prevenzione e repressione di fenomeni criminosi lesivi e, dunque, anche lo jus puniendi.

L’avvertita inadeguatezza dei richiamati strumenti in ordine al raggiungimento di adeguati livelli di protezione di beni giuridici particolarmente sensibili da fenomeni criminosi di portata transnazionale ha indotto sia il legislatore europeo che la Corte di Giustizia al riconoscimento in capo all’ordinamento comunitario di ambiti di competenza nel quale esercitare una vera e propria attività normativa, anche penale sostanziale, non più indiretta e mediata, ma direttamente vincolante per gli Stati membri, e non più limitata alla sola individuazione degli obiettivi da raggiungere, ma consistente in interventi normativi di vera e propria criminalizzazione.

Detto riconoscimento ad opera della Corte di Giustizia è avvenuto in primo luogo in tema di tutela dell’ambiente, quando, in una famosa sentenza della Grande Camera, sebbene ben consapevole degli approdi della generale dottrina del reato in tema di principio di legalità, sono stati fissati  alcuni principi fondamentali, successivamente recepiti nella revisione dei trattati sugellata a Lisbona: l’Unione Europea, per la protezione di beni giuridici particolarmente importanti a livello comunitario, sulla base del principio di sussidiarietà, può provvedere alla criminalizzazione di condotte di particolare portata offensiva, per dimensioni e portata, quando il suo intervento sia maggiormente efficace rispetto a quello dei singoli ordinamenti.

Tali conclusioni sono state recepite nel Trattato di Lisbona che all’art. 83 (ex art. 31 TUE) ai sensi del quale il Parlamento europeo e il Consiglio, in materie specificamente indicate al comma 2, e salva la possibilità di ampliamento ad opera del Consiglio, deliberando mediante direttive secondo la procedura legislativa ordinaria, possono stabilire norme minime relative alla definizione dei reati e delle sanzioni in sfere di criminalità particolarmente gravi che presentano una dimensione transnazionale derivante dal carattere o dalle implicazioni di tali reati o da una particolare necessità di combatterli su basi comuni.

È facile cogliere l’implicito riconoscimento dei corollari del principio di offensività, quali sono la necessità e meritevolezza della pena e l’ estrema ratio dell’intervento penale, qui ulteriormente infuso dal principio di sussidiarietà, nonché, per completezza, il principio di legalità nel senso della riserva di legge formale e sostanziale per la predeterminazione legale dei reati e delle pene. Emerge che questi principi di diritto penale europeo si legano a quello dell’offensività in un modo particolare, nella misura  in cui essi –  utilizzati sinergicamente fra di loro –  mirano  a garantire l’effettività dell’azione repressiva europea in tematiche comuni a tutti gli Stati membri e, per questo giudicate particolarmente sensibili.  Il carattere particolarmente importante di tale previsione, atta ad intervenire in settori dotati di particolare criticità nei singoli ordinamenti, si coglie altresì negli ultimi commi dello stesso art. 83 TFUE che riconosce ai singoli Stati membri la possibilità di attivare il cd freno di emergenza e di istituire cooperazioni rafforzate.

Anche il nostro ordinamento appare caratterizzato dal principio dell’offensività inteso in senso sostanziale, sebbene lo stesso non sia stato consacrato in una norma di carattere generale ed astratta. Ne sono articolazioni specifiche il reato putativo, il reato impossibile (art. 49 c.p.) e il reato aberrante (artt. 82 e 83 c.p.).

La disciplina del reato putativo e del reato impossibile è descritta all’articolo 49 c.p che sancisce la non punibilità di chi commette un fatto non costituente reato nella supposizione erronea che esso costuisca reato, ed esclude, altresì, la punibilità quando per la inidoneità dell’azione o per l’inesistenza dell’oggetto di essa, è impossibile l’evento dannoso o pericoloso.

Entrambe le appena descritte ipotesi di esclusione della punibilità si collocano nel momento dogmatico della descrizione del fatto tipico e costituiscono il pendant del principio di offensività vincolante per il legislatore, concernendo qui la fase più propriamente attuativa del precetto sanzionatorio.

Sul fatto che la necessaria offensività del fatto tipico integrasse un effettivo elemento costitutivo della fattispecie penale, sia in astratto, nella fase edittale della norma, che in concreto, nel suo momento applicativo, prima dell’intervento della Corte Costituzionale non v’era concordia tra gli interpreti, nonostante il chiaro dato normativo.

Dietro l’elevazione di tale elemento a presupposto di validità del precetto e della sussumibilità concreta di un fatto concreto al precetto stesso, secondo alcuni interpreti, si celava il pericolo di un’eccessiva apertura all’arbitrio del giudice nella individuazione delle condotte tipiche.

Ripetuti interventi della Corte Costituzionale, in superamento di una certa concezione causale del reato, hanno sancito non solo la compatibilità costituzionale delle ricostruzioni più sensibili all’accoglimento del principio di offensività tra gli elementi costitutivi del paradigma dogmatico del reato, ma lo hanno elevato a rango di canone di legittimità e vincolo sia per il legislatore che per il giudice.

Ciò detto, è del tutto evidente l’irrilevanza, ai sensi dell’art. 49 c.p., di condotte prive del presupposto minimo di offensività per i valori dell’ordinamento, perchè a ciò inidonee a causa della loro natura o modalità di realizzazione o per mancanza del bene giuridico tutelato, ancorché nella supposizione erronea dell’agente di aver cagionato un danno o creato una situazione di pericolo penalmente biasimevole.

Il rapporto tra necessaria offensività dell’azione criminosa, intesa nel suo significato concreto, e il reato impossibile, secondo taluni autori è la premessa per la riconducibilità sotto il fuoco dell’art. 49 anche del concetto di azione socialmente adeguata come causa di esclusione della punibilità per esclusione del fatto tipico del reato.Rientrano nel concetto di azione socialmente adeguata le condotte soltanto apparentemente lesive di un bene giuridico tutelato, ma, invero, inoffensive per lo stesso o addirittura capaci di promuoverne il miglioramento perchè conformi con la concezione storicamente condizionata che ne ha una data collettività (es. l’esposizione di un nudo artistico in una galleria d’arte).Trattandosi di condotte del tutto prive di qualsivoglia capacità offensiva, ancorchè a fronte di una lesione soltanto causale dei beni coinvolti, esse corrispondono al paradigma delineato dall’art. 49, co. 2, c.p., in tema di reato impossibile.

Restano, da ultimo, da considerare i rapporti del principio di offensività con gli artt. 82 e 83 c.c., in tema di reato aberrante.

Costituiscono casi di reato aberrante, quantomeno nella loro forma base, le ipotesi caratterizzate da una divergenza tra l’evento voluto dal soggetto agente e quello in concreto verificatosi, a causa di errore nell’utilizzo dei mezzi di esecuzione del reato o per altra causa.   Sempre nella forma base, nel caso di aberratio icuts tale divergenza riguarda il soggetto attinto, mentre nel caso di aberratio delicti ad essere difforme è l’evento realizzato.

Nella struttura di entrambi i tipi di reato aberrante monolesivo ricorre, a ben vedere, un’ipotesi di tentativo di un determinato reato e un quid pluris, apparentemente costitutivo di un concorso formale di reati, ma che da questo se ne differenzia trattandosi di un evento per definizione non voluto dal soggetto agente.

Nel caso di aberratio ictus monolesiva, gli interpreti si sono interrogati sulla necessità che l’offesa alla persona che l’agente voleva attingere si realizzi almeno nei termini minimi del tentativo, concludendo in senso positivo. Ragionando diversamente si paventa il rischio di imputare all’agente un fatto a titolo di dolo esclusivamente sulla base del suo originario disegno criminoso, in spregio del principio cogitationis nemo pena patitur.

In altre parole, non essendo richiesto che il soggetto agente versi in uno stato di colpa quanto all’evento non voluto, ma potendo questi rispondere per dolo anche al di fuori di ogni riferibilità psicologica di tale evento, la formulazione dell’art. 82, co. 1, c.p. pone il rischio di aver veicolato nell’ordinamento una ipotesi di responsabilità per mero versari in re illicita.  Si pensi al caso di chi abbia confezionato e nascosto degli alimenti avvelenati per uccidere una determinata  persona, ed altri li abbia scoperti e mangiati perdendo la vita.

È chiaro che in questa circostanza mancano i presupposti materiali minimi per potersi dire attuata la condotta criminosa ideata e, pertanto, risulta inapplicabile pure la disciplina del reato aberrante.

Per il verificarsi della forma plurioffensiva il legislatore richiede espressamente che sia attinta anche la persona alla quale l’offesa era diretta. In tal caso non è sufficiente che il bene verso cui era diretta l’offesa sia posto soltanto in uno stato di pericolo, versandosi altrimenti nella ipotesi monolesiva di cui al comma primo.

Anche con riguardo alla previsione di cui all’art. 83 c.p. (i.e., aberratio delicti) il riferimento all’offesa consente di tratteggiare i caratteri precipui dell’istituto ad esso sotteso, quantomeno in funzione di distinguerlo dalla contigua ipotesi di aberratio ictus.

In particolare, i limiti tra le due diverse tipologie di reato in parola sono segnati dalla natura giuridica dell’evento realizzato rispetto a quello che l’agente aveva intenzione di realizzare, concretizzandosi solo nel caso di eterogeneità degli stessi un caso di aberratio delicti.

Sugli elementi da valorizzare al fine di valutare la natura dell’evento voluto e di quello realizzato, infine, si è concluso individuandone il discrimine nella diversità del bene giuridico attinto da quello che si voleva offendere essendo irrilevante il caso di offesa allo stesso bene giuridico, sebbene appartenente a persona diversa. La lettura combinata delle norme richiamate chiarisce, in linea con gli assunti della teoria generale del diritto penale, il ruolo irrinunciabile che l’ordinamento penale italiano riconosce al principio di offensività, ugualmente a quanto previsto dalla normativa europea, con cui condivide i medesimi obiettivi in tema di politica criminale. Il ricorso alla limitazione della libertà personale in ogni suo aspetto deve essere giustificato e la pena deve raggiungere finalità preventive e rieducative con esclusione di qualsiasi trattamento disumano o degradante.