L’ordinamento penale italiano, al pari degli altri ordinamenti liberali e democratici, è fondato sul principio di offensività. In forza di tale principio l’affermazione della responsabilità penale può avvenire solo allorquando il fatto previsto dalla norma penale incriminatrice sia idoneo a ledere o porre in pericolo il bene giuridico da quest’ultima tutelato. La previsione di un simile criterio ispiratore del diritto punitivo ha origini piuttosto risalenti; si ritiene infatti che l’offensività sia stata teorizzata già durante l’esperienza romana e a sostegno di tale ricostruzione si è soliti far riferimento al brocardo latino “nullum crimen sine iniuria”. L’offensività rappresenta oggi un importante elemento di civiltà giuridica e costituisce il fondamento logico sul quale è stata costruita la generale disciplina del tentativo prevista dall’articolo 56 del Codice Penale.

L’introduzione nell’ordinamento positivo della fattispecie tentata come figura autonoma del reato risponde ad una esigenza pratica piuttosto evidente; si è ritenuto, invero, che una costruzione della responsabilità penale fondata sul solo reato consumato non fosse sufficientemente adeguata a svolgere funzioni repressive e deterrenti. Una simile scelta legislativa deriva dall’esigenza di evitare una situazione pericolosa e cioè quella dell’esposizione del bene tutelato al pericolo di una lesione futura, in questo senso può allora dirsi che la fattispecie del tentativo presenta una certa area di coincidenza con tutta la materia dei reati di pericolo in cui il disvalore penale non è collegato alla effettiva lesione del bene protetto.

 L’anticipazione della soglia di punibilità della condotta posta in essere dal reo ha però da sempre suscitato parecchie critiche in dottrina specie con riferimento ad alcune tipologie di reati. Dal punto di vista della teoria generale è stato osservato che la punibilità del tentativo striderebbe nettamente col principio di offensività almeno così come inteso dalle impostazioni tradizionali.

Era stato infatti rilevato che la punibilità di atti non ancora sfociati in una vera e propria lesione del bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice avrebbe comportato una intollerabile compromissione del principio del favor rei. Una simile impostazione ancorata ad una visione materialistica del diritto punitivo è stata superata con l’avvento delle nuove teorie progressiste e anche grazie alla formulazione  della Costituzione.

Il nuovo sistema costituzionale ha infatti posto le basi per una importante opera di rivisitazione  del concetto di materialità del diritto penale attraverso la quale è stato possibile pervenire alla nuova teorizzazione sul tentativo. Oggi il concetto di materialità viene riferito ad un elemento imprescindibile della condotta delittuosa cioè il fatto che essa non si limiti ad una mera intenzione o proposito. Anche tale considerazione, in realtà, non è certo di recente conio teorico ma è il momento iniziale della rilevanza penale della condotta a costituire la novità delle teorizzazioni moderne.

L’attenzione va quindi spostata sull’individuazione  del momento a partire dal quale è possibile muovere il rimprovero penale essendo pacifica, ancora oggi, la vigenza del principio “cogitationis poenam nemo patitur”. L’articolo 56 C.P. costituisce la norma di riferimento del tentativo. Questa norma non individua una precisa fattispecie delittuosa tentata ma si presta ad una applicazione generale nei confronti delle singole fattispecie di reato previste dalla parte speciale. Sarebbe questo, secondo alcuni esponenti della dottrina, il problema di fondo sotteso alla formulazione della fattispecie tentata e cioè l’assenza in sede legislativa di un attento vaglio di compatibilità con le figure di reato a struttura complessa.

Prima di analizzare tale delicato argomento è opportuno richiamare la disciplina del tentativo.

La disposizione in esame evoca il concetto di “atti idonei diretti in modo non equivoco a commettere un reato”; in ordine alla portata e al significato di una simile formula la dottrina e la giurisprudenza si sono lungamente interrogate.  Secondo l’impostazione prevalente l’atto può dirsi idoneo quando è teoricamente in grado di raggiungere uno scopo (da intendersi come evento lesivo) o un obiettivo criminale. Per poter individuare l’idoneità e la preordinazione degli atti in una direzione lesiva l’interprete è tenuto ad operare una valutazione di tipo prognostico effettuata ex ante e in concreto; solo così, secondo la giurisprudenza prevalente, sarà possibile apprezzare l’eventuale messa in pericolo del bene giuridico protetto.

In altre parole, quindi, è necessario che la condotta, pur non comportando la verificazione dell’evento lesivo, non sia espressione di un reato impossibile né tantomeno di un tentativo inconfigurabile. Si pensi, ad esempio, al caso di Tizio che provi ad uccidere Caio attraverso un colpo d’arma da fuoco ad una distanza ben maggiore della concreta gittata dell’arma. Come anticipato, l’idoneità degli atti presenta una certa frizione anche con l’area del reato impossibile di cui all’articolo 49 C.P. A differenza della richiamata figura, però, per la fattispecie tentata si richiede che gli atti, pur avendo una certa efficacia lesiva astratta, non riescano a realizzare l’evento lesivo; il reato impossibile, invece, richiede l’assoluta inidoneità lesiva della condotta dell’agente (es: Tizio che prova ad uccidere Caio sparandogli con una pistola giocattolo).

Ciò posto, è possibile osservare che la materia del tentativo costituisce una espressione del principio del favor rei; nell’ipotesi tentata, infatti, il reo risponderà penalmente attraverso una pena assai ridotta. Secondo una certa visione, tuttavia, lo sconto di pena applicabile alla fattispecie tentata è un diretto corollario del minore grado di afflittività della condotta lesiva posta in essere; pertanto, non dovrebbe parlarsi si una vera e propria norma di favore ma, più correttamente, del semplice adeguamento della sanzione al grado dell’offesa.

Vere e proprie norme di favore sono, invece, quelle in materia di desistenza e recesso attivo tipizzate rispettivamente dai commi 3 e 4 del citato articolo 56 C.P. La desistenza consiste nella volontaria intenzione di abbandonare l’esecuzione del progetto criminoso e prevede che l’autore risponda soltanto dei reati eventualmente compiuti. Dunque, può ritenersi integrata anche quando il reo si limiti ad una semplice omissione finale quale potrebbe essere, ad esempio, quella di Tizio che dopo aver preso la mira con l’intento di uccidere Caio desista dal premere il grilletto dell’arma.

Diversa dalla desistenza è la figura del recesso attivo. Quest’ultima si compone di un ulteriore elemento rispetto alla precedente ipotesi essendo richiesto che il soggetto agente si attivi spontaneamente al fine di impedire l’evento dopo aver innescato la serie causale ad esso orientata (sempre a fini esemplificativi si può pensare al caso di Tizio che dopo aver somministrato a Caio un potente veleno lo conduca in ospedale portando con sé l’antidoto).

Come sopra specificato il delitto tentato permette di individuare il preciso momento in cui la condotta dell’agente assume rilevanza penale in quanto espone a pericolo un dato bene giuridico. La costruzione teorica di questo peculiare istituto, però, si basa su un reato di evento a struttura semplice in cui, cioè, la condotta concretamente posta in essere sia causa dell’evento tipizzato dal legislatore.

In considerazione del fatto che il nostro diritto punitivo prevede anche figure particolari di reato caratterizzati da una diversa struttura, dottrina e giurisprudenza si sono chieste quale fosse il quadro applicativo dell’istituto in queste particolari ipotesi.

Il problema si è posto soprattutto con riguardo ai reati condizionati e a quelli aggravanti dall’evento.

Il reato condizionato è una singolare figura criminosa in relazione alla quale il legislatore ha previsto una condizione obiettiva di punibilità. Per tali reati infatti la semplice realizzazione di una condotta o di un evento perfettamente corrispondente a quanto tipizzato non permette di affermare la responsabilità penale essendo richiesto, infatti, anche la verificazione della condizione obiettiva di punibilità. A fini esemplificativi può menzionarsi tutta la materia dei reati tributari in cui la rilevanza penale delle condotte è espressamente subordinata al superamento delle soglie di punibilità previste dal legislatore.

Il quesito della configurabilità del tentativo in relazione ai reati condizionati pertiene proprio alla eventuale rilevanza penale della condotta non seguita dalla condizione di punibilità. Ci si è chiesti, invero, se la semplice rispondenza della condotta concreta a quella condizionata legittimasse il ricorso alla incriminazione formulata sull’articolo 56 C.P.

Posizione maggioritaria ritiene di dover dare risposta negativa al quesito in esame sulla scorta di alcune efficaci considerazioni; innanzitutto è stato rilevato che ammettendo una simile ipotesi si azzererebbe la funzione tipica della condizione obiettiva di punibilità ovvero quella  di deflazionare il carico del contenzioso penale. Per altro verso, poi, si è osservato che la costruzione teorica del tentativo non è compatibile con quella del reato condizionato; a differenza di quest’ultimo il reato tentato presuppone una netta diversità tra la condotta concretamente posta in essere e condotta (o evento) tipizzata in quanto la prima deve arrestarsi necessariamente ad uno stadio di realizzazione antecedente a quello previsto dalla legge.

Nel caso del delitto condizionato, invece, ciò che caratterizza la condotta non è una diversità strutturale rispetto a quella incriminata dalla norma bensì la sussistenza di un semplice evento futuro e incerto che la dottrina ha accostato agli elementi accidentali del contratto.

Profondamente diverso dal reato condizionato è quello aggravato dall’evento.

Con tale espressione si fa riferimento ad una categoria dogmatica  del reato in cui l’evento non rappresenta un tassello dell’elemento oggettivo del reato  ma si atteggia a circostanza aggravante. La sua eventuale sussistenza, dunque, non incide sulla rimproverabilità penale ma solo ed esclusivamente sulla entità della pena.

La considerazione di fondo nell’ambito di questi reati è quella in base alla quale si ritiene di dover dare rilevanza penale alla semplice condotta sul rilievo che la verificazione dell’evento comporterebbe soltanto un maggior disvalore penale del fatto commesso .

Il problema della configurabilità del tentativo si pone in special modo nei rapporti tra quest’ultimo e l’evento aggravatore. Se da un lato è ben possibile porre in essere la condotta incriminata fermandosi allo stadio del tentativo, dall’altro risulta impossibile conciliare la struttura della fattispecie tentata con la sopravvenienza dell’evento lesivo. Una simile evenienza rappresenterebbe un chiaro caso di contraddizione normativa difficilmente superabile; nonostante ciò si registra un certo orientamento in forza del quale la configurabilità della forma tentata del reato aggravato dall’evento sarebbe ammissibile in ragione del fatto che la condotta base tipizzata non presuppone la realizzazione necessaria dell’evento aggravatore.

Nonostante ciò la posizione maggioritaria della giurisprudenza di legittimità ritiene che nell’ipotesi dei reati aggravanti dall’evento il tentativo debba essere escluso.