L’art. 458 del Codice civile sancisce la nullità di qualsiasi convenzione con cui si disponga della propria successione ovvero dei diritti che spetterebbero su una successione non ancora aperta, neanche tramite rinuncia.

La ratio del divieto imposto dalla norma esaminata può essere individuata in un duplice ordine di ragioni.

Il primo riguarda la generale avversione dell’ordinamento nei confronti di convenzioni che abbiano ad oggetto la successione di una persona ancora vivente, in quanto i patti successori determinerebbero inevitabilmente un “votum captandae mortis”, sentimento socialmente non accettabile.

In secondo luogo, i patti successori si pongono in contrasto con la libertà del testatore, quale estrinsecazione del generale principio di autonomia negoziale che permea il sistema del diritto civile del nostro ordinamento.

Come è noto, infatti, l’ordinamento giuridico tutela e garantisce al testatore la libertà di disporre delle proprie sostanze fino all’istante prima della morte e, qualora si ammettessero i patti successori, l’ampiezza di tale libertà potrebbe essere compressa.

La previsione di cui all’art. 458 c.c. si ricollega alla caratteristica di essenziale revocabilità del testamento (art. 587 c.c.), dovendo la spontaneità essere intesa anche come libertà di modificare in ogni momento la propria volontà.

Ebbene, la classificazione generalmente seguita dalla dottrina suddivide i patti successori in reali e obbligatori, a seconda, rispettivamente, che abbiano efficacia immediata ovvero che prevedano che ci si obblighi ad effettuare disposizioni o rinunce, fermo restando che sono vietati i patti successori reali al pari di quelli obbligatori.

I patti successori sono ulteriormente suddivisibili in tre categorie: istitutivi o confermativi, dispositivi e rinunciativi.

Rientrano nella prima categoria di convenzioni i patti attraverso i quali un soggetto conviene con un altro soggetto di nominarlo erede ovvero di prevedere una determinata disposizione testamentaria a suo favore (legato). Un applicazione pratica prevista direttamente dal Codice del divieto di patti successori istitutivi è quello previsto dall’art. 2122, comma 3, c.c. che prevede la nullità di qualsiasi patto, anteriore alla morte del lavoratore, circa l’attribuzione e la ripartizione delle indennità.

Sono considerati dispositivi, invece, quei patti attraverso i quali un soggetto, presunto futuro erede di un secondo soggetto, dispone a favore di un terzo soggetto in relazione alla successione, non ancora aperta, del secondo.

Infine, sono considerati patti successori rinunciativi, quelli che prevedono la rinuncia di un soggetto, presento erede di un secondo soggetto, a favore di un terzo soggetto, sempre in relazione alla successione, non ancora aperta, del secondo. Appartenente a tale categoria, sono i patti di cui all’art. 557, comma 2, c.c., norma che vieta la rinuncia all’azione di riduzione da parte dei legittimari durante la vita del donante.

Tale ultima categoria ricorre anche quando si tratti non di un vero e proprio patto, bensì nel caso di mera dichiarazione unilaterale, e ciò lo si deduce direttamente dal testo dell’art. 458 c.c. che fa riferimento a “ogni atto”.

Il divieto di patti successori si applica altresì nel caso di patto successorio obbligatorio (o ad effetti obbligatori).

Fermo quanto appena esposto, una significativa deroga al divieto di patti successori è stata prevista dalla Legge 14 febbraio 2006, n. 55 che ha introdotto gli articoli 768 bis e seguenti c.c.

In particolare, la nuova disciplina ha introdotto l’istituto del patto di famiglia, con lo scopo precipuo di dare stabilità agli atti volti a pianificare la successione in modo da favorire la conservazione dell’integrità delle aziende nei passaggi da una generazione all’altra.

E’ previsto, infatti, che l’imprenditore possa individuare, tra i propri discendenti, quelli che ritiene più idonei alla continuazione dell’impresa e trasferire loro l’azienda o le partecipazioni societarie; in tale secondo caso, deve trattarsi non di partecipazioni detenute a scopo di investimento, bensì di partecipazioni che attribuiscono al socio il potere di gestire l’impresa, essendo la ratio dell’istituto trattato quello di garantire effettivamente la l’integrità dell’azienda nel passaggio generazionale.

L’istituto di cui trattasi, nonostante si ponga testualmente in aperta deroga rispetto al divieto di patti successori, prevede all’art. 768 quater c.c., allo specifico fine di tutelare i diritti dei legittimari, che partecipino all’atto tutti coloro che sarebbero legittimari dell’imprenditore se, al momento della conclusione di tale patto, si aprisse la sua successione.

La norma da ultimo citata dispone che ai legittimari gli assegnatari dell’azienda o delle partecipazioni societarie debbano corrispondere una somma di denaro o una certa quantità di beni in natura, pari alla liquidazione della quota che ad essi spetterebbe in base gli artt. 536 e seguenti c.c., anche se è possibile che essi rinuncino a tale corresponsione.

Assegnatari del complesso produttivo o degli strumenti partecipativi possono essere soltanto i discendenti dell’imprenditore, restando esclusi gli estranei, altri familiari e il coniuge.

L’art. 768 ter c.c. prevede, poi, che tale contratto debba essere formulato tramite atto pubblico, a pena di nullità.

Mai sopìto risulta il dibattito in dottrina circa la natura bilaterale o plurilaterale del contratto in esame.

Risulta prevalente e favorita la tesi che sostiene la natura plurilaterale del patto di famiglia. Del resto, la lettera della norma di cui all’art. 768 quater c.c. suggerisce tale lettura utilizzando l’espressione “al contratto devono partecipare […] tutti coloro che sarebbero legittimari”.

Secondo tale orientamento, la deroga al divieto di patti successori deve essere giustificata, quantomeno, dalla stabilità del trasferimento che può aversi solamente con la neutralizzazione delle pretese degli altri legittimari.

Se, infatti, questi ultimi potessero rimettere in discussione l’attribuzione dopo la morte del disponente perché pretermessi dalla stipulazione del patto, verrebbe meno la ragion d’essere di tale istituto, che, come già ricordato, mira a garantire la stabilità dei rapporti futuri in maniera da rendere il passaggio generazionale il meno invasivo possibile per la continuazione dell’attività imprenditoriale.

Ebbene, per fare sì che i legittimari non agiscano con l’azione di riduzione o tramite collazione al momento dell’apertura della successione è necessaria, dunque, la loro partecipazione al patto, partecipazione che si pone, secondo la teoria esaminata, come doverosa, a pena di nullità per contrarietà a norma imperativa (ossia l’art. 768 quater c.c.).

Non mancano, tuttavia, i sostenitori di una tesi opposta, che sostiene la piena validità del patto a prescindere dalla partecipazione di tutti i legittimari e che, pertanto, considera tale atto come contratto solo bilaterale.

La mancata convocazione, pertanto, comporterebbe solamente l’inopponibilità a questi della determinazione del valore della liquidazione dei loro diritti di legittima.

Si è già anticipato, però, che tale lettura non risulta conforme alla ratio di stabilità sottesa all’istituto trattato.

Ebbene, secondo i sostenitori di tale orientamento, pertanto, i legittimari non assegnatari manterrebbero il diritto alla riduzione ed alla collazione.