Tutor Magistralis prova a fare il punto della più recente giurisprudenza in tema di prova e liquidazione del danno patrimoniale. L’argomento è molto vasto ed oggetto dell’ultima prova  di diritto civile dell’ultimo concorso in magistratura che sta mietendo tante “eccellenti” vittime.  A mio modesto avviso perchè  i  capisaldi dell’elaborato avrebbero  dovuto essere giocati su questi due grandi temi da considerarsi molto controversi, senza indulgere in complesse (e fuorvianti) disamine teoriche che avrebbero  (inutilmente) appesantito il discorso e portato fuori strada.

In materia di prova del danno derivato da responsabilità extracontrattuale, l’orientamento  maggioritario della Corte di Cassazione è quello secondo cui  ( vedi Sez. U, n. 26972/2008) il sistema del risarcimento del danno delineato dal codice civile esclude la configurabilità del danno patrimoniale in re ipsa, in quanto l’obbligazione risarcitoria non insorge in seguito alla mera colposa o dolosa violazione del diritto (antigiuridicità della condotta), ma soltanto a causa delle “conseguenze” pregiudizievoli,  conseguenze che implicano l’accertamento  di un evento ulteriore ed ontologicamente apprezzabile rispetto a quello determinativo della violazione del diritto (ex multis, Sez. 3, n. 11203/2019).

L’autorità di tale enunciazione non è, comunque, valsa ad orientare le pronunce successive entro un percorso ermeneutico uniforme, tanto che ha continuato a coesistere l’impostazione che, invece, ammette tale sovrapposizione.

In linea con il primo orientamento si colloca la sentenza della Corte di legittimità  (n. 12123/2020)  ha affermato che, in caso di accertamento dell’illegittimità dell’iscrizione ipotecaria, ricorre un evento di danno costituito dall’apparenza di una situazione idonea a determinare difficoltà alla commerciabilità del bene;  ai fini della risarcibilità occorre però  accertare se in concreto si sia verificato un danno-conseguenza, che non può essere configurato in re ipsa, ma può consistere nel pregiudizio economico derivante dalla perdita di occasioni di alienare il cespite oppure di venderlo a condizioni più favorevoli. Sul medesimo solco si pone la sentenza n. 03133/2020 in tema di indebita segnalazione alla Centrale Rischi della Banca d’Italia  la quale ha chiarito che il danno derivato da tale condotta può essere provato dal danneggiato anche per presunzioni, potendo consistere, per l’imprenditore, nel peggioramento della sua affidabilità commerciale, essenziale pure per l’ottenimento e la conservazione dei finanziamenti, e, per qualsiasi altro soggetto, nella maggiore difficoltà nell’accesso al credito. Il danno non patrimoniale è pertanto un danno-conseguenza, che deve essere adeguatamente allegato e provato da colui che ne invochi in giudizio il risarcimento, sebbene non debba essere sottovalutato il ruolo che esplica in tale sede il gioco  delle presunzioni, proprio in virtù delle caratteristiche intrinseche di tale tipo di pregiudizio.

L’accertamento del danno da perdita del rapporto parentale è, più degli altri, caratterizzato da un ampio ricorso alle presunzioni dal momento che i congiunti sono chiamati a provare l’effettività e la consistenza della relazione conculcata dall’illecito con riguardo non solo alla cd. famiglia nucleare; è stato così affermato che  il rapporto tra nonni e nipoti, per essere ritenuto giuridicamente qualificato e rilevante, non può essere ancorato alla sola convivenza in quanto essa non include l’automatica  conseguenza dell’esistenza di rapporti costanti di reciproco affetto e solidarietà con il familiare defunto. In linea di massima la Corte ha tenuto a precisare che per provare la sussistenza del danno – conseguenza  sia sufficiente dimostrare la compromissione della salute o la (significativa) contrazione delle abitudini di vita dei congiunti, senza che, in quest’ultimo caso, sia necessario accertare la ricorrenza di un totale sconvolgimento delle stesse.

Il danno non patrimoniale diverge, per natura, da quello patrimoniale. Tale diversità persiste anche all’atto della liquidazione, che ha la sola funzione di tradurre il pregiudizio sofferto in un’entità economicamente valutabile. Secondo la Corte  di legittimità ( Sez. 3, n. 15213/2018) deve ritenersi fondamentale “il principio di piena e integrale equivalenza tra entità del pregiudizio e liquidazione dell’importo risarcitorio, per cui il danneggiato deve percepire tutto quanto sia necessario a reintegrarlo nella situazione quo ante, ma nulla di più di quanto abbia effettivamente perduto”. Ruolo centrale è, dunque, rivestito dalla funzione compensativa (più propriamente consolatorio-satisfattiva) del risarcimento, il quale, se da un lato non può assumere la natura di mero indennizzo (con conseguente inammissibile arricchimento del danneggiante), dall’altro non può tradursi in una pena privata.

Ne deriva che quando il fatto illecito è fonte di arricchimento per il danneggiante, il risarcimento del danno va commisurato al pregiudizio subito dal danneggiato, salvo che l’arricchimento derivi dallo sfruttamento di beni o risorse del danneggiato stesso ( cfr. Cass. civ. n. 08137/2020 nella quale l’ oggetto del giudizio era il risarcimento del danno per la mancata pubblicazione della sentenza di condanna per diffamazione, che la Corte ha statuito dovesse essere parametrato al danno inferto al diffamato e non già al risparmio, per il diffamante, del costo di pubblicazione). Nella stessa ottica la Corte applica la regola della compensatio lucri cum damno alla materia del danno da emotrasfusioni Sez. 3, n. 08532/2020 laddove  ha chiarito che, nel giudizio promosso contro il Ministero della salute per il risarcimento dei pregiudizi connessi al contagio da virus HBV, HIV o HCV, l’indennizzo ex l. n. 210 del 1992, che sia stato già corrisposto al danneggiato, deve essere interamente scomputato dalle somme liquidabili a titolo di risarcimento del danno al fine di scongiurare un ingiustificato arricchimento, consistente nel porre a carico di un medesimo soggetto (il Ministero) due diverse attribuzioni patrimoniali in relazione al medesimo fatto lesivo.

Caratteristica fondamentale della liquidazione del danno non patrimoniale è la sua natura equitativa (art. 1226, richiamato dall’art. 2056 c.c.), canone valutativo che consente di modellare la quantificazione del risarcimento sulla peculiarità della fattispecie concreta, scongiurando (almeno tendenzialmente) la corresponsione di somme di denaro sensibilmente diverse, a parità di effettivo pregiudizio. Il giudizio in esame non è da considerarsi di equità, ma di diritto perché è caratterizzato dalla cosiddetta equità giudiziale correttiva o integrativa, con la conseguenza che la sentenza emessa dal giudice nell’esercizio di tale potere non è assoggettata ai limiti di appellabilità previsti per le sentenze pronunciate secondo equità dall’art. 339 c.p.c-.

Per quanto attiene, più nello specifico, all’utilizzo delle tabelle predisposte dal Tribunale di Milano la Corte ha più volte tenuto a precisare come esse siano munite di efficacia para-normativa, in quanto concretizzano il criterio della liquidazione equitativa di cui all’art. 1226 c.c.. Ne consegue che la loro omessa adozione – integra una violazione di norma di diritto censurabile con ricorso per cassazione, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., poiché i relativi parametri devono essere presi a riferimento dal medesimo giudice ai fini di tale liquidazione, dovendo egli indicare in motivazione le ragioni che lo abbiano eventualmente condotto ad una quantificazione del risarcimento che, alla luce delle circostanze del caso concreto, risulti inferiore a quella cui si sarebbe pervenuti utilizzando dette tabelle. Tuttavia, la deduzione, in sede di legittimità, dell’avvenuta applicazione di una tabella diversa da quella milanese non è sufficiente, di per sé, ad inficiare il corretto utilizzo, da parte del giudice, del criterio di liquidazione equitativa, dovendo la correlata denuncia essere accompagnata dall’esposizione delle ragioni che, in concreto, hanno determinato l’incongruo ricorso al criterio in questione (così Sez. 3, n. 08884/2020).