Le società pubbliche sono società il cui capitale è detenuto, in tutto o in parte, da pubbliche amministrazioni. Ai sensi dell’art. 2 d.lgs. 175/2016, si distingue fra società partecipate, società a controllo pubblico e società in house. Le prime, normate alla lett. n), sono quelle il cui capitale è parzialmente detenuto da una p.a. Le seconde, normate dalla lettera m), sono quelle sulle quali la p.a. esercita un controllo ai sensi dell’art. 2359 c.c., delle quali detiene la maggioranza delle azioni (controllo di diritto), oppure detiene un numero di voti comunque sufficiente ad esercitare un’influenza dominante sull’assemblea (controllo di fatto, generalmente individuato nel 30% dei voti), o  ancora  sulle quale eserciti un’influenza dominante in forza di vincoli contrattuali. Sono altresì sotto il controllo pubblico le società che richiedono che le decisioni strategiche siano assunte all’unanimità. Le terze, normate alla lett. o), sono quelle che svolgono almeno l’80% della propria attività in favore della p.a. che ne detiene interamente o quasi il capitale e su cui detta p.a. esercita un “controllo analogo” a quello che essa esercita sulle proprie strutture interne.

Le società pubbliche, necessariamente di capitali, ai sensi dell’art. 4 d.lgs. 175/2016, svolgono attività  dirette al perseguimento delle finalità istituzionali dell’ente che vi partecipa. Si pensi per esempio alle svariate partecipate comunali in materia di trasporto pubblico locale (ATAC a Roma, ATM a Milano, GTT a Torino) o raccolta rifiuti (AMA a Roma, AMIAT a Torino).

Per vero, si è a lungo dubitato della possibilità per le pp.aa. di utilizzare strumenti societari al fine di perseguire scopi istituzionali. In passato, si riteneva vi fosse una radicale incompatibilità fra gli istituti di diritto privato e le finalità pubbliche e, in modo particolare, fra il fine di lucro che caratterizza le società commerciali ex art. 2247 c.c. e gli scopi istituzionali.  Più recentemente, tale incompatibilità è stata revocata in dubbio ed è stato progressivamente ammesso l’utilizzo di forme societarie per il perseguimento di finalità pubblicistiche. Una forte accelerazione è stata impressa in questo senso dal diritto dell’Unione Europea. Infatti, il diritto comunitario rimane indifferente alle forme, privatistiche o pubblicistiche, utilizzate dai singoli stati membri, ma detta una nozione sostanziale di ente pubblico: dunque, anche quella che a livello interno è una società commerciale può essere ritenuta ente pubblico ai fini dell’ordinamento comunitario.  Infatti, non esiste un’unica definizione di ente pubblico a livello europeo, ma sono dettate diverse nozioni nei diversi ambiti dell’ordinamento. Per esempio, al fine di imporre l’applicazione del diritto dei contratti pubblici ad una vasta gamma di soggetti, la definizione di p.a. nel diritto dei contratti risulterà piuttosto lata, ricomprendente tutte le persone giuridiche che subiscono un’influenza pubblica e sono volte al soddisfacimento di interessi generali, aventi carattere non commerciale o industriale (c.d. organismo di diritto pubblico); per converso, al fine di favorire la libera circolazione dei lavoratori, risulterà ristretto il novero di quelle pp.aa., che, svolgendo compiti in stretta correlazione con la sovranità, sono autorizzate ad assumere solo cittadini nazionali, escludendo gli altri cittadini comunitari. In sintesi, anche una società può essere considerata ente pubblico, se rientra nella definizione fornita dal diritto UE, definizione peraltro cangiante: dunque, una società commerciale può essere sottoposta a norme pubblicistiche indipendentemente dalle materie trattate  purchè la sua attività dal punto di vista sostanzialistico  serva ad un interesse pubblico.  Peraltro, recentemente l’utilizzo delle forme privatistiche è stato ritenuto più efficiente rispetto all’utilizzo di quelle pubblicistiche. Si pensi, per esempio, ai maggiori poteri gestori di cui sono dotati gli amministratori di società rispetto a quelli di cui sono dotati gli organi amministrativi, sottoposti a procedure, formalità, obblighi di motivazione e al rispetto degli equilibri della maggioranza Dunque, ammessa la possibilità di svolgere attività pubblicistica in forma societaria, si è assistito alla progressiva trasformazione degli enti pubblici economici in società di capitali (c.d. privatizzazione fredda), talvolta seguita dalla dismissione di parte delle azioni o delle quote a privati (c.d. privatizzazione calda.) La compresenza di forma privatistica e finalità pubblicistica ha però provocato il problema di comprendere quando, in ossequio alla finalità, debbano applicarsi norme pubblicistiche e quando, in ossequio alla forma, il diritto pubblico. Tendenzialmente, la summa divisio può essere rinvenuta nella costituzione della società: il procedimento per decidere di costituire una società e per eventualmente individuare il socio privato ha carattere pubblicistico; l’atto costitutivo e lo svolgimento dell’attività sociale sono invece normati dal diritto privato.

Il carattere pubblicistico del procedimento di costituzione della società si riflette nella necessità di una deliberazione dell’organo di indirizzo politico, individuato dall’art. 7 co. 1 d.lgs. 175/2016, nella necessità che tale deliberazione sia motivata analiticamente in conformità dell’art. 5 d.lgs. 175/2016 e nella necessità che l’eventuale socio privato sia scelto con procedure ad evidenza pubblica.  Per converso, l’art. 1 co. 3 d.lgs. 175/2016 statuisce che alla società costituita si applicano le norme del codice civile: persino le determinazioni dell’amministrazione, per esempio in merito alla nomina degli amministratori o ai voti da rendere in assemblea, saranno assoggettate al diritto privato e alla giurisdizione del giudice ordinario, in quanto espressione dei poteri del socio e non già di potestà d’imperio pubblicistica.

Tuttavia, durante la vita della società possono venire in rilievo vicende di carattere pubblicistico, con conseguente applicazione delle norme di diritto pubblico. Per esempio, anche le società pubbliche possono essere considerate organismi di diritto pubblico e, dunque, essere assoggettate al diritto dei contratti pubblici di procedure di evidenza pubblica per la scelta del contraente. Altro esempio può essere costituito dall’art. 22 co. 1 lett. e) L. 241/90, il quale statuisce che sono pp.aa. ai fini della disciplina dell’accesso agli atti amministrativi anche i soggetti di diritto privato, e dunque le società pubbliche, “limitatamente alle loro attività di pubblico interesse”: il Consiglio di Stato ha così, per esempio, ritenuto che la società Poste Italiane s.p.a. sia tenuta a garantire l’accesso con riguardo alle procedure di reclutamento del personale, assoggettate a principi di trasparenza, pubblicità e imparzialità ex art. 19 d.lgs. 175/2016, e non invece agli di micro-organizzazione del personale stesso, puramente privatistici.

Così ricostruito in termini generali il fenomeno delle società pubbliche, è ora possibile analizzare la tematica  specifica della dismissione delle quote di partecipazione da parte dell’ente pubblico. La problematica è oggi oggetto di normazione all’art. 10 d.lgs. 175/16. Esso ripropone la dicotomia, già analizzata in tema di costituzione della società, fra deliberazione pubblicistica e contratto privatistico.

In altri termini, il codice delle società afferma che, nonostante si tratti di una vicenda successiva alla formazione della società, essa è comunque una vicenda pubblicistica. Infatti, in quanto uguale e contraria a quella di costituire la società, la decisione di dismettere la partecipazione non può essere considerata come mero esercizio di un diritto del socio, ma assume una connotazione politica e pubblicistica tale da far rivivere la necessità di un procedimento pubblico. In altri termini, quando la p.a. decide di dismettere la propria partecipazione non si limita ad esercitare un diritto che le derivava dalla qualità di socio, ma pone in essere una vicenda con forti connotati pubblicistici: solo successivamente all’espletamento del procedimento amministrativo sarà possibile addivenire alla stipula del contratto privatistico di cessione delle quote. Dunque, sarà innanzitutto necessaria una deliberazione di quegli stessi organi individuati per la decisione di costituire la società. Si sottolinea che si tratta di una deliberazione politica e non di una determinazione dirigenziale: infatti, al contrario della determinazione a contrarre ex art. 32 d.lgs. 50/2016, non si tratta di un atto di attuazione dell’indirizzo politico, ma è essa stessa un atto di discrezionalità amministrativa, che dunque necessita di una deliberazione dell’organo di indirizzo. In mancanza della deliberazione il successivo contratto privatistico di trasferimento delle quote sarà nullo. Inoltre, il carattere pubblico della dismissione di quote sociali porta con sé la necessità di rispettare i principi di pubblicità, trasparenza e non discriminazione. Peraltro, detta necessità non è solamente posta dal disposto dell’art. 10 co. 2 d.lgs. 175/2016, ma dal fatto che si tratta di contratto attivo della p.a., assoggettato a detti principi dalla più generale norma di cui all’art. 3 R.D. 2440/1923.   La negoziazione diretta è possibile solamente in caso di particolare convenienza economica, soprattutto in relazione al prezzo, di cui sia dato analiticamente atto nella motivazione.

L’aggiudicazione senza previo esperimento della procedura di evidenza pubblica può essere oggetto di impugnazione da parte degli operatori del mercato che vantino un interesse alla gara, i quali, all’evidenza, non saranno onerati alla previa impugnazione del bando, atteso che bando non v’è stato. La cognizione, in ragione del fatto che si verte in materia di interessi legittimi, sarà del giudice amministrativo, che giudicherà col procedimento speciale di cui all’art. 119 c.p.a. L’art. 10 d.lgs. 175/16 ha tuttavia lasciato aperte talune problematiche che si sono presentate con riguardo alla dismissione di quote sociali. In modo particolare, è all’attenzione degli interpreti la compatibilità fra le necessarie procedure ad evidenza pubblica e i diritti di prelazione spesso previsti dagli statuti delle società commerciali.  Infatti, l’art 2355-bis c.c. ammette la possibilità di limitare la circolazione delle azioni, anche a mezzo di diritti di prelazione, in favore degli altri soci. Dunque, se Tizio è socio di Caio e Sempronio nella società Alpha e volesse cedere il proprio pacchetto azionario, dovrebbe prima di tutto offrirlo a Caio e a Sempronio e, solo dopo il rifiuto di questi, potrebbe cederlo a Mevio. Tali diritti di prelazione possono essere necessari ad evitare che l’alienazione delle azioni da parte di un socio a terzi faccia entrare nella compagine sociale estranei non graditi: Caio e Sempronio potranno evitare che Mevio diventi loro socio acquistando prima di lui le azioni di Tizio

Tuttavia, pare evidente che detti diritti di prelazione siano incompatibili con la necessità di evidenza pubblica posta dal d.lgs. 175/2016, in quanto consentiranno l’aggiudicazione della partecipazione non già in seguito ad una vittoria in una procedura comparativa, ma solamente mediante lo sfruttamento di una rendita di posizione. In altri termini, se il Comune di Beta è socio con Tizio nella società Gamma, prima di esperire gara pubblica, dovrebbe offrire le proprie quote innanzitutto a Tizio, il quale potrebbe acquistarle per il solo fatto di essere stato già socio in precedenza.

In forza di queste considerazioni, il Consiglio di Stato ha dichiarato , nel 2016, la nullità dei patti di prelazione  la cui  attuazione abbia determinato la violazione dei principi di buona amministrazione sopra specificati, Il Supremo Collegio è, a tali fini, partito dalla considerazione secondo la quale  i   principi di imparzialità, trasparenza e parità di trattamento impongono di ritenere illegittima una qualsiasi gara in cui non sia  stato predeterminato il compito che il privato  è chiamato ad assolvere o i limiti qualitativi e quantitativi del servizio fornito. Tuttavia, come in qualsiasi società, anche per le società miste, il principio della libera circolazione delle partecipazioni sociali si pone quale principio cardine, sancito dagli artt. 2355, 2355 bis e 2469 cod.civ.  Pertanto la prelazione, quale eccezione alla regola generale,  deve trovare spazio  all’interno delle pattuizioni statutarie, attraverso le quali si riconosce la possibilità ai soci di riservarsi la qualità di acquirenti “preferenziali”,  obbligando, così,  il socio che intende vendere le quote di preferire, a parità di condizioni, questi ultimi rispetto all’eventuale terzo acquirente. La configurazione del patto di prelazione ha, quindi nelle società miste,   la finalità pratica  di rafforzare la compagine sociale.

Occorre ricordare che la dottrina distingue tradizionalmente  due categorie di prelazioni: la prima definita come “propria”  volta ad attribuire la preferenza ai soci, rispetto a terzi, a parità di condizioni economiche; la seconda “impropria”  caratterizzata  dalla possibilità per la compagine sociale di contestare il corrispettivo offerto, rimettendo la valutazione ad un arbitrato. Ebbene, nell’ambito delle società miste, il diritto di prelazione trova il suo limite nel rispetto dei principi alla base delle procedure ad evidenza pubblica  finalizzate  all’alienazione delle quote sociali, e deve pertanto  servire  all’esigenza di tutela dell’ordine pubblico economico  e quindi a  garantire la libera concorrenza, la parità di trattamento e la non discriminazione. La violazione di tali principi pertanto comporterebbe l’annullabilità di qualsiasi atto o clausola protesa a garantire un eventuale diritto di prelazione sulle quote alienate dall’ente.

I Giudici di Palazzo Spada  hanno perciò ritenuto di dichiarare la nullità della prelazione impropria, nella parte  in cui  attribuisce anche un diritto di contestare il corrispettivo: hanno  poi ritenuto valida, in linea di principio,  la prelazione propria perché nel pieno rispetto dei principi alla base della gara ad evidenza pubblica. Infatti, in base T.U. 175/2016 in materia di società per azioni, la prelazione propria non risulta in contrasto con la procedura di gara ad evidenza pubblica indetta per l’alienazione delle quote, dal momento che la parte maggiormente interessata all’acquisto della partecipazione pubblica risulta essere il socio privato già presente nella compagine sociale. Il Consiglio  ha ritenuto, così,  di ampliare i casi di  nullità del diritto di prelazione oltre i limiti previsti,  fino ad arrivare ad invalidare anche la prelazione propria tutte le volte in cui  la scelta del socio privato  sia avvenuta non solo nella fase della costituzione della società mista, ma anche nella fase dell’eventuale alienazione di partecipazioni sociali.

Il caso riguardava, nello specifico,  la nullità di una clausola statutaria che attribuiva un diritto di prelazione a favore di due soggetti privati, (due società titolari di partecipazioni azionarie della società affidataria del servizio pubblico di trasporto locale) i quali  avevano impugnato  l’aggiudicazione definitiva della procedura di gara per l’alienazione delle quote dell’ente  sostenendo che  l’organo preposto non  aveva  tenuto  conto del riconosciuto ed esercitato diritto di prelazione. Il Consiglio di Stato, ribadendo la necessità di una procedura ad evidenza pubblica al fine di alienare le partecipazioni sociali dell’ente pubblico, ha dichiarato la nullità della clausola statutaria che prevedeva la prelazione, senza il preventivo esperimento di tale procedura, e  ha altresì enunciato la   nullità di tutti i conseguenti atti amministrativi sorti in applicazione della clausola nulla.