Aspetti teorico-applicativi del principio di offensività nell’ordinamento penale italiano

Di Alberto Parmentola

Il principio di offensività impone che sia punita come reato solo una condotta che leda o quantomeno ponga in pericolo un bene giuridico rilevante per l’ordinamento. Dunque, non potranno essere puniti come reato meri modi di essere o condotte di mera disobbedienza, ma solo fatti lesivi di un bene altrui (nulla poena sine iniuria).  Se tradizionalmente si riteneva che detto principio fosse positivizzato all’art. 49 c.p., oggi si ritiene che esso abbia fondamento costituzionale. Infatti, l’art. 13 Cost., nel definire la libertà personale  come “inviolabile”, impone che essa possa essere  compressa solamente in seguito al bilanciamento con altri beni costituzionali; parimenti, l’art. 21 Cost., valorizzando la libera espressione della personalità dell’individuo, esclude la punibilità di modi d’essere o opinioni; si ritiene inoltre che la funzione rieducativa della pena ex art. 27 co. 3 Cost. sarebbe vanificata ove la punizione fosse irrogata in assenza di lesioni a diritti altrui. Ecco allora che il “fatto” menzionato all’art. 25 co. 2 Cost. si arricchisce di significato, dovendo più propriamente essere letto come “fatto offensivo”.

Posto il fondamento costituzionale del principio di offensività, occorre evidenziare che ripetutamente la Corte Costituzionale è intervenuta a sua tutela. Si ponga  mente alla sentenza 249/2010, che ha dichiarato l’illegittimità della c.d. “aggravante della clandestinità” posta dall’art. 61 n. 11-bis) c.p.: la Corte ha infatti ritenuto che la clandestinità sia un mero modo d’essere del soggetto attivo, in nulla incidente sull’offensività del fatto. Si rileva per inciso come la Corte abbia invece ritenuto non fondata la questione di legittimità del reato di immigrazione clandestina punito dall’art. 10-bis T.U. sull’immigrazione: contrariamente a quanto rilevato in sede di giudizio sull’aggravante, la Consulta ha ritenuto che questa contravvenzione sia posta a tutela dell’integrità dei confini nazionali e del rispetto delle norme poste per il loro attraversamento e sia dunque conforme al principio di offensività, pur incidendo su di uno stato d’essere, quello di essere clandestino, Va detto, però, che  la condotta criminosa ascritta all’agente, in questo caso,  si risolve nel permanere nel territorio dello Stato senza essere in possesso dei documenti autorizzativi, situazione ben diversa rispetto al riconoscimento dell’aggravante che prescinde del tutto dalla condotta e dal dolo richiesto per la sussistenza del reato di cui all’art. 10-bis T,U. sull’immigrazione.

Più spesso, il Giudice delle Leggi non ha dichiarato l’illegittimità di una norma, ma con sentenza di rigetto ne ha imposto al Giudice un’interpretazione conforme a offensività. Si pensi ad esempio al reato di possesso ingiustificato di chiavi alterate o grimaldelli ex art. 707 c.p.: detta contravvenzione costituisce un reato-ostacolo, in quanto, impedendo al pregiudicato di portare con sé chiavi alterate o grimaldelli, cerca di prevenire quei reati contro il patrimonio che con essi possono essere commessi. Tuttavia, la Corte ha ritenuto che il possesso di per sé solo considerato non è offensivo di bene alcuno, dovendo dunque il Giudice verificare se le condizioni di tempo e spazio in cui il pregiudicato è stato colto con detti oggetti sia indice del loro prossimo utilizzo per commettere reati contro il patrimonio: solo in questo caso sarà lecita la punizione.

Ecco dunque che il principio di offensività si rivolge, da una parte, al Legislatore, obbligato a selezionare come reati esclusivamente condotte offensive, e, dall’altra, al Giudice, obbligato a verificare se  il fatto concreto abbia effettivamente leso i beni protetti dalla norma incriminatrice. In ogni caso, si precisa che non è mai il Giudice a poter in prima persona valutare l’offensività di un comportamento (concezione sostanziale del reato), dovendo, l’Autorità Giudiziaria,  operare una valutazione sulla sussistenza della fattispecie penale giunta   al suo cospetto  verificandone la corrispondenza al fatto – reato previsto dalla legge come reato (concezione formale), sulla base di una valutazione di effettività (nulla poena sine iniuria et lege).

Fondamento simile del principio di offensività è rinvenibile nel diritto europeo. Infatti, l’art. 52 CDFUE impone che la restrizione di una libertà ivi sancita possa avvenire solo in maniera proporzionata a finalità di interesse generale o all’esigenza di proteggere le libertà altrui. Dunque, la pena sarà legittima solo ove proporzionata e necessaria a proteggere beni di altri.

Tuttavia, il principio di offensività in campo europeo sta recentemente assumendo un significato in parte diverso da quello che gli è proprio nell’ordinamento interno. Infatti, se in quest’ultimo la riserva tendenzialmente assoluta di legge ostacola in ogni caso che l’introduzione di norma incriminatrice avvenga per opera del Giudice delle Leggi, in ambito europeo talune sentenze sembrano imporre esse stesse la punizione di comportamenti lesivi di interessi protetti dall’ordinamento. Si ponga mente alla sentenza Taricco, che impone agli stati membri di punire le frodi IVA, lesive degli interessi finanziari dell’Unione, anche attraverso la disapplicazione delle norme sulla prescrizione, sulla base del rilievo che una simile condotta sia comunque offensiva per lo stato ed imponga, per questo motivo, l’applicazione di una sanzione; si segnala tuttavia che il dictum Taricco è stato successivamente reso pressoché inoperante per via dell’irretroattività della legge penale così introdotta, oltre che per l’eccessiva vaghezza del principio di diritto espresso dalla Corte. In ambito CEDU, poi, la Corte di Strasburgo ha più volte condannato l’Italia per non aver punito fatti offensivi: fra tutti, famoso è il caso Cestaro, in cui, qualificati i fatti avvenuti durante il G8 di Genova come trattamenti inumani e degradanti ex art. 3 Convenzione, l’Italia è stata condannata per non aver punito adeguatamente i responsabili istituzionali che li avevano provocati.

Posto dunque che un comportamento, per essere punito come reato, deve essere lesivo di beni giuridici, si è posto il problema di comprendere quali siano tali beni: per una prima impostazione, essi sono quelli protetti dalla Costituzione; per una seconda, maggioritaria, essi sono quelli non-rifiutati dalla Costituzione, così ammettendosi la protezione di beni anche non direttamente menzionati dalla Carta Fondamentale, quale, per esempio, il sentimento per gli animali.

Tuttavia, non è contrario a offensività il fatto che sia punito un comportamento che, pur non direttamente lesivo del bene protetto, lo metta comunque in pericolo. Si distingue fra reati di pericolo concreto, in cui il Giudice deve verificare che il bene sia stato effettivamente messo in pericolo nel caso di specie, e di pericolo astratto, in cui la pericolosità del comportamento è valutata ex ante dal legislatore, non ammettendosi alcuna verifica ex post del Giudice. Esistono inoltre reati di pericolo indiretto, che ricorrono in tutte le ipotesi in cui, di fronte a beni di particolare rilevanza, si vogliono punire comportamenti che non mettono direttamente in pericolo il bene, ma creano le condizioni perché tale pericolo sorga: si pensi per esempio al reato di danneggiamento seguito dal pericolo di incendio.

Oltre alle disposizioni di parte speciale, vi è poi una norma di parte generale che arretra la soglia di punizione alla messa in pericolo del bene protetto,  dal momento che punisce atti diretti a commettere delitti a condizione che ciò avvenga indipendentemente dalla volontà dell’agente: ci si riferisce alla norma di cui all’art. 56 c.p.  che punisce,  nella forma del tentativo,  chi commette atti idonei e diritti in modo non equivoco a commettere un delitto, se questo non avviene per motivi indipendenti dalla sua volontà.

Secondo le più recenti evoluzioni, hanno la medesima struttura del tentativo i c.d. delitti di attentato, ossia quei delitti, previsti dalla parte speciale, che consistono nel tentativo di ledere un bene di particolare valore per l’ordinamento, come l’indipendenza e l’unità dello Stato o la vita del Presidente della Repubblica.

Seppur l’art. 56 c.p. escluda expressis verbis l’applicabilità del tentativo per le sole contravvenzioni, occorre rilevare che il principio di offensività ne impone un’ulteriore applicazione restrittiva: per evitare un eccessivo arretramento della soglia di punibilità rispetto alla lesione del bene protetto, si esclude, infatti,  la punibilità del tentativo dei reati di pericolo, perché non sia punito il pericolo del pericolo, e dei delitti di attentato, perché non sia punito il tentativo di un tentativo.

Tutto ciò premesso, è ora possibile analizzare taluni precipitati applicativi del principio di offensività.

Innanzitutto, l’art. 49 co. 1 c.p. esclude la punibilità del reato c.d. putativo, ossia sancisce che non potrà essere irrogata sanzione penale a chi abbia commesso un fatto nell’errato convincimento che esso costituisse reato. Questa norma  dispone ancora una volta che non rileva la mera indole criminale del soggetto, ma esclusivamente ciò che un soggetto concretamente fa: il pensiero di commettere un reato non costituisce esso stesso reato se si risolve in una condotta inoffensiva e, in quanto tale, non punita dalla legge (cogitationis poenam nemo patitur.

Particolare applicazione del principio di offensività fanno anche gli artt. 82 e 83 c.p., che disciplinano il c.d. reato aberrante. L’art. 82 punisce chi, per errore nei mezzi di esecuzione del reato, offende una persona diversa da quella che voleva offendere (c.d. aberratio ictus) con la stessa pena che avrebbe subito se avesse offeso la persona voluta. Tale norma pone dunque al centro dell’analisi il bene giuridico leso dal comportamento illecito, con irrilevanza della identità della persona offesa: a fronte di un determinato reato, a nulla importa sia stato offeso, unicamente rilevando che vi sia stata lesione del bene giuridico. Sarà dunque omicidio l’uccisione di una persona, sia essa Sempronio o Mevio, sia essa quella presa di mira dal soggetto agente o una diversa. Si rileva per completezza però che la concreta applicazione di tale principio ha posto un problema in punto di elemento soggettivo: se per taluno il dolo persiste quantunque il soggetto leso sia diverso da quello voluto, per altra corrente,  detta norma pone una presunzione di dolo di difficile coordinamento col principio ex art. 27 Cost.

L’art. 83 invece punisce a titolo di colpa chi, per errore nell’esecuzione, cagiona un evento diverso da quello voluto (c.d. aberratio delicti): la differenza dall’art. 82 consiste proprio nel fatto che l’errore ha colpito un bene diverso da quello voluto. In questo diverso caso, il legislatore non ha operato un’equivalenza fra i beni, imponendo la punizione per l’evento diverso solo se la lesione di detto bene è punita anche a titolo di reato colposo (colpa). Dunque, se la lesione del medesimo bene è capace di fondare un’imputazione comunque a titolo di dolo, la lesione di bene diverso non porta a punizione se non a titolo di colpa. Tuttavia, si è aperto ampio dibattito circa il significato della locuzione “a titolo di colpa”: se essa debba essere intesa meramente quoad poenam, senza dunque alcuna verifica della concreta colposità della condotta, o piuttosto quoad factum, ossia con una concreta verifica dell’atteggiamento psicologico del soggetto agente. Le Sezioni Unite si sono espresse con riguardo ad una particolare ipotesi di aberratio delicti, ossia l’art. 586 c.p., sancendo che, nel caso di specie, allo spacciatore non può essere contestata la morte per overdose del cliente se non l’ha potuta prevedere, con ciò sposando la seconda tesi e, dunque, l’esigenza di indagare la sussistenza  dell’elemento soggettivo  in capo all’agente

Il più importante precipitato applicativo del principio di offensività è però il delitto c.d. impossibile ex art. 49 co. 2 c.p.: detta norma esclude la punizione quando è impossibile l’evento dannoso o pericoloso per inidoneità dell’azione o inesistenza dell’oggetto. Esempi di scuola di inesistenza dell’oggetto sono il furto di cosa già propria o l’uccisione di persona già morta.

Maggiori problemi ha creato il concetto di inidoneità dell’azione. Infatti, secondo una prima corrente esso deve essere letto come risvolto negativo del delitto tentato. Infatti, superata la distinzione fra atti preparatori non punibili e atti esecutivi punibili propria del codice Zanardelli, il codice Rocco ha sancito che gli atti, oltre che univoci, devono essere idonei a ledere il bene protetto. La necessità di indagare  sull’oggettiva  idoneità lesiva  della condotta nel reato tentato  integra l’aspetto più significativo  del principio di offensività in quanto, in difetto di essa  il  bene della vita oggetto di tutela non sarebbe neanche messo in pericolo. Questa prima concezione ha dunque affermato che l’idoneità degli atti ex art. 56 e l’inidoneità ex art. 49 sono l’uno il risvolto dell’altro: in altri termini, se gli atti diretti in modo non equivoco sono idonei a commettere il delitto, si è di fronte ad un delitto tentato punito dall’art. 56 c.p.; se invece non sono idonei si è di fronte ad un reato impossibile, non punito in forza dell’art. 49 co. 2 c.p,

Tuttavia, una diversa impostazione, c.d. concezione realistica del reato, esclude che l’art. 49 non sia altro che il doppione dell’art. 56, assegnandovi dunque un significato autonomo. Ciò sulla scorta di svariate considerazioni. Innanzitutto, i sostenitori di detta tesi sostengono che bisogna interpretare ogni norma come avente un proprio autonomo significato e non come doppioni di altre; inoltre, si sostiene che l’art. 49 c.p. ha un campo d’applicazione più vasto di quello dell’art. 56 c.p., applicandosi anche alle contravvenzioni;  altrimenti opinando, si arriverebbe all’assurda conclusione che un tentativo idoneo  per commettere una contravvenzione non avrebbe alcuna conseguenza, mentre un tentativo inidoneo sarebbe comunque sottoposto a misura di sicurezza.

Tutto ciò considerato, la concezione realistica del reato ritiene che gli artt. 56 e 49 c.p. abbiano campi d’applicazione diversi: il primo prende in considerazione gli atti atipici che rivelino l’intenzione unica di commettere il reato; il secondo invece il fatto tipico, ossia quello propriamente preso in considerazione dalla norma incriminatrice, che si riveli impossibile per inidoneità dell’azione

Ne consegue che l’idoneità nel tentativo e nel delitto impossibile devono seguire coordinate ermeneutiche differenti. Nel primo (tentativo), l’idoneità degli atti atipici deve essere valutata ex ante: altrimenti opinando, nessun atto atipico potrebbe mai essere ritenuto idoneo, in quanto il fallimento del tentativo ne evidenzierebbe sempre ex post l’inidoneità; inoltre, la valutazione deve avvenire “a base parziale”, ossia prendendo in considerazione solamente ciò che il soggetto agente poteva  fenomenologicamente rappresentarsi, per non incorrere nell’assurdo di non punire chi sia stato fermato nel suo intento mentre si accingeva a commettere il reato e la condotta criminosa sia stata arrestata grazie al  tempestivo intervento della forza pubblica.

Nel secondo, invece, la valutazione deve avvenire ex post, per verificare che il fatto tipico non abbia in modo alcuno leso concretamente il bene giuridico protetto. Dunque, per esemplificare, sparare con una pistola giocattolo non sarà un tentativo inidoneo, ma propriamente un reato impossibile per inidoneità dell’azione. Tale concezione ha avuto importanti riflessi applicativi. Si ponga per esempio mente ai sopra citati reati di pericolo in astratto. Essi, come detto, puniscono condotte la cui offensività è già stata verificata ex ante dal legislatore e non ammette riconsiderazione da parte del Giudice: ciò è legittimo nella misura in cui sono posti a tutela di interessi di particolare rilevanza o proteggono beni, come l’ambiente, lesi non da condotte singole, ma dall’accumularsi di singoli fatti in sé non lesivi. Tuttavia, la concezione realistica cerca di leggere anche i reati di pericolo astratto alla luce dell’art. 49 co. 2 c.p., al fine di evitare che tale divieto di verifica dell’offensività concreta si risolva nella punizione di condotte assolutamente inoffensive, senza alcuna relazione col bene protetto. Lo strumento a ciò dedicato è l’interpretazione degli elementi oggettivi del reato, al fine di escludere che possano integrare reato elementi assolutamente inidonei a creare qualsivoglia pericolo. Per esempio, il reato di incendio di cosa altrui non può essere integrato da qualsivoglia  accensione, ma solo da un evento di vaste proporzioni, tale da poter mettere in pericolo, almeno astrattamente, la pubblica incolumità; anche il disastro ferroviario non può essere integrato da qualsivoglia disguido, ma solo da un grave incidente. Così, al Giudice sarà impedito di verificare se concretamente il fuoco di vaste proporzioni o il grande incidente abbiano concretamente messo in pericolo l’incolumità di qualcuno, ma il principio di offensività è comunque recuperato per il fatto che l’interpretazione data alle locuzioni “incendio” e “disastro” osta a che vengano puniti fatti senza alcuna potenzialità offensiva  e che non arrivino, per questi motivi,  ad integrare  la soglia minima di punibilità specificatamente  prevista dalla norma incriminatrice..

Vasta applicazione ha avuto l’art. 49 co. 2 c.p. nel campo dei reati contro la fede pubblica. La concezione realistica ha infatti escluso che possano essere puniti dei falsi che siano del tutto inidonei a ledere il bene protetto della “pubblica fede”. Sono state così elaborate le categorie del falso grossolano, quel falso così maldestro da non poter trarre in inganno nessuno, essendo del tutto evidente la falsità, e del falso innocuo, ossia quel falso che, seppur non evidente, comunque non lede la pubblica fede perché inidoneo a raggiungere l’obiettivo prefissato. Diverso da queste categorie è il falso inutile, che cade su elementi privi di valenza probatoria. Non si tratta in questo caso di reato impossibile, quanto di caso del tutto esulante dal bene protetto dalla norma incriminatrice.

Ulteriore applicazione è stata resa in tema di coltivazione di piante produttive di sostanze stupefacenti ex art. 73 d.P.R. 309/90. Infatti, la Corte Costituzionale ha considerato tale incriminazione legittima nella misura in cui la coltivazione è condotta “ambigua”, incapace di per sé sola di rivelare se effettuata al mero scopo di uso personale o se, invece, sia volta alla commercializzazione della sostanza prodotta. La Corte ha tuttavia rimesso al Giudice del caso concreto la verifica della concreta lesività della coltivazione per il bene protetto. Per un primo orientamento, è inidonea la coltivazione di una quantità di piantine che non sia capace di produrre alcuna sostanza drogante. Per un’altra impostazione, riferentesi alla concezione realistica, invece, sarà inidonea la coltivazione di piante che, seppur potendo produrre sostanza drogante, comunque non sia sufficiente alla sua commercializzazione, in quanto concretamente inidonea a ledere il bene salute pubblica.

In sintesi, il reato impossibile, così come interpretato dalla concezione realistica del reato, costituisce una importante cartina al tornasole del principio di offensività del reato, rispetto al quale  si pone come costante baluardo.