L’arricchimento senza una giusta causa a danno di un’altra persona costituisce un’obbligazione legale (art. 1173 c.c.), ovvero un’obbligazione non derivante né da contratto, né da fatto illecito  . L’azione predisposta dall’ordinamento in favore del depauperato trova la sua disciplina negli artt. 2041 e 2042 c.c. e la sua ratio è  quella di porre rimedio a situazioni giuridiche che altrimenti rimarrebbero ingiustamente prive di tutela, non essendo ravvisabile in capo all’arricchito né una responsabilità contrattuale ex art. 1218 c.c. (non intercorrendo alcun rapporto contrattuale tra l’arricchito e il depauperato), né una responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c.; infatti, l’arricchimento dovuto a un fatto privo di una giusta causa non può essere valutato alla stregua di un fatto causativo  di responsabilità  sia  a titolo contrattuale che, a maggior ragione, extracontrattuale, difettando,  in quest’ultimo caso,  l’elemento soggettivo, vale a dire il dolo o la colpa. Secondo la c.d. teoria del trasferimento patrimoniale, prevalente in Italia, i presupposti per ottenere tutela in un’ipotesi siffatta si sostanziano: (i) nell’arricchimento di un soggetto, consistente in un incremento patrimoniale o in un risparmio di spesa o nell’evitato verificarsi di una perdita; (ii)  nel   correlato depauperamento di un altro soggetto; (iii) nell’esistenza di uno stretto  rapporto di causalità – tra le due situazioni, originate, a volte indirettamente,  da un unico fatto costitutivo; (iv) nella mancanza di una giusta causa; (v) nell’assenza di un rimedio tipico Tuttavia, è bene precisare, che secondo un’altra teoria – la c.d. teoria del profitto – molto apprezzata in Germania, l’arricchimento per il tramite di un comportamento lesivo di un’altrui situazione giuridica protetta non comporta sempre e necessariamente un depauperamento ma può risolversi nella mera creazione di ricchezza in capo all’arricchito  cui può non corrispondere un decremento patrimoniale in capo  al depauperato, come avviene, ad esempio nell’ipotesi di usi leciti di altrui in assenza di qualsiasi pattuizione contrattuale). beni immateriali. Ai sensi dell’art. 2041, co. 1, c.c., l’arricchito è tenuto a indennizzare il depauperato della correlativa diminuzione patrimoniale solo nei limiti dell’arricchimento. Quindi, a titolo esemplificativo, se l’ammontare della diminuzione patrimoniale fosse inferiore a quello dell’arricchimento, l’indennità sarebbe pari all’ammontare della prima (d = € 100; a = € 150; i = € 100); nell’ipotesi opposta, in cui cioè l’entità della diminuzione patrimoniale fosse maggiore di quella dell’arricchimento, l’indennità sarebbe pari all’ammontare del secondo (d = € 300; a = € 200; i = € 200). È evidente la funzione riequilibratoria svolta dalla norma in esame a fronte di un danno lecito (non a caso il legislatore parla di “indennizzo” e non di “risarcimento”), contrapposta a quella riparatoria degli artt. 2043 ss. c.c. per i fatti illeciti. Secondo la dottrina prevalente, inoltre,  il pagamento dell’indennizzo si sostanzierebbe in un debito di valore, ragione per cui esso, al pari della liquidazione dei danni, sarebbe suscettibile di rivalutazione monetaria previo riconoscimento degli interessi compensativi. Ai sensi dell’art. 2041, co.2, c.c., qualora l’arricchimento abbia per oggetto una cosa determinata, colui che l’ha ricevuta è tenuto a restituirla in natura, se quest’ultima è ancora reperibile. Si ritiene, comunque, che l’arricchito sia tenuto: (i) a pagare il valore della cosa determinata se questa sia perita; (ii) a restituire la cosa determinata assieme a un indennizzo, se questa si sia solo deteriorata (in applicazione analogica di quanto disposto dagli artt. 2037 e 2038 c.c. in materia di pagamento dell’indebito). Ai sensi dell’art. 2042 c.c., l’azione di arricchimento non è proponibile quando il depauperato può esercitare un’altra azione per ottenere ristoro del pregiudizio subito. Invero, nell’ordinamento giuridico italiano – a differenza che in quello tedesco o dei Paesi di common law – l’azione di arricchimento ha  quindi carattere sussidiario. Tuttavia, è questione dibattuta in dottrina se tale sussidiarietà debba essere intesa in senso astratto o concreto, ovvero, se si debba dare o meno rilevanza alla circostanza che l’ulteriore azione a cui il depauperato potrebbe astrattamente ricorrere sia concretamente preclusa a causa dell’intervenuta decadenza o prescrizione e se, come spesso accade, sia ammissibile la proposizione della domanda di arricchimento in via subordinata rispetto all’azione principale ove il giudice, nella valutazione del caso, non ne ritenga ricorrere i presupposti. La giurisprudenza e la dottrina maggioritaria sembrano propendere per la tesi restrittiva della sussidiarietà in astratto, spinti – è ragionevole ipotizzare – dalla volontà di scongiurare usi fraudolenti e/o sovrabbondanti  dell’azione di arricchimento. A dispetto del suo carattere sussidiario/residuale, la casistica giurisprudenziale evidenzia come siano numerosi i casi in cui soggetti privati ricorrono all’azione di arricchimento per ottenere tutela nei confronti della Pubblica Amministrazione allorquando hanno reso a quest’ultima delle prestazioni d’opera o di servizi in dipendenza di contratti irregolari, nulli o addirittura inesistenti, ovvero – più in generale – quando non vi è stata una puntuale osservanza delle particolari formalità richieste dalle norme che disciplinano l’azione amministrativa (tutti casi accomunati, comunque, dall’impossibilità astratta per il privato di ottenere tutela attraverso altri tipi di azione). Tuttavia, la natura pubblicistica dell’arricchito solleva alcune questioni peculiari di diritto processuale e sostanziale.  In particolare, quando l’arricchito è un soggetto pubblico, occorre preliminarmente accertare quale giudice, tra quello ordinario e quello amministrativo, abbia giurisdizione nel caso dedotto in giudizio. Per far ciò, si rende necessario individuare, con riguardo ai fatti allegati ed al rapporto giuridico del quale detti fatti costituiscono manifestazione, il c.d. petitum sostanziale, ossia la natura della posizione dedotta in giudizio dall’attore (i.e., il privato depauperato). In applicazione degli artt. 103 e 113 Cost., se tale posizione è qualificabile quale diritto soggettivo, la cognizione spetta al giudice ordinario (salve le ipotesi normativamente previste di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in cui vi sia stato l’esercizio di un potere autoritativo da parte della P.A.); se invece è qualificabile come interesse legittimo, la cognizione spetta al giudice amministrativo. A titolo esemplificativo, si può ricordare come in giurisprudenza sia stato affermato che:

  • le controversie aventi ad oggetto il riconoscimento di un maggior importo a titolo di revisione dei prezzi di un contratto di appalto pubblico rientrano nella giurisdizione del giudice amministrativo in quanto la pretesa di pagamento ha natura giuridica di interesse legittimo, in ragione del potere discrezionale riconosciuto dalla legge – al competente organo istituzionale dell’ente – di procedere o meno alla concessione di un maggiore importo, rispetto a quello richiesto inizialmente a titolo di revisione del prezzo dell’appalto;
  • le concessioni d’uso rientrano nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, per il caso in cui il privato concessionario pretenda il controvalore, quanto meno a titolo d’ingiustificato arricchimento, dell’esecuzione di opere realizzate in assenza di un’autorizzazione da parte dell’ente pubblico ed ancorché la convenzione da cui originava la concessione prevedesse invece l’esecuzione di opere previa autorizzazione; infatti, con riguardo a quest’ultimo caso, la causa petendi investe la portata della convenzione in generale; costituisce, invece, fattispecie esattamente contraria quella  nell’ipotesi in cui la causa petendi non riguardi il rapporto di concessione  dal momento che, in tal  caso, la giurisdizione spetta al giudice ordinario;
  • le cause aventi  quale petitum il pagamento del compenso di un professionista rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario se la domanda trova autonoma causa e giustificazione nella prestazione già resa in base ad un rapporto iure privatorum (ovvero tramite atti della P.A. che non sono espressione di poteri pubblicistici ma di autonomia negoziale privatistica)

Annosa e problematica questione, foriera di numerosi contrasti giurisprudenziali anche nel grado di legittimità,  è stata quella di valutare se, affinché il privato depauperato possa esercitare l’azione di arricchimento nei confronti della P.A., sia necessario o meno che quest’ultima abbia previamente riconosciuto (esplicitamente o implicitamente) l’utilità dell’opera o del servizio prestati dall’attore. A tal proposito, negli anni si è venuto a creare un contrasto giurisprudenziale che ha visto contrapposti tre diversi  orientamenti. Un primo orientamento, all’epoca maggioritario, sosteneva che il riconoscimento dell’utilità da parte della PA costituisse un ulteriore requisito per l’esperibilità dell’azione, onde evitare di dar luogo a spese non deliberate dall’ente pubblico nei modi previsti dalla legge e senza la previsione dell’apposita copertura finanziaria. Tale riconoscimento sarebbe potuto provenire, quale espressione della discrezionalità amministrativa dell’ente interessato, solo da parte degli organi rappresentativi di tale ente o da quelli cui fosse istituzionalmente devoluta la formazione della sua volontà, in maniera esplicita (ossia mediante un atto formale) o implicita, comunque secondo le regole dell’evidenza pubblica. Un secondo orientamento, al tempo minoritario, evidenziava – invece – come non vi fosse alcuna ragione di prevedere questo ulteriore requisito del riconoscimento dell’utilità dell’opera o del servizio, in quanto l’oggetto di accertamento da parte del giudice sarebbe il fatto, oggettivo, dell’arricchimento e non la qualifica soggettiva dell’arricchito. Pertanto, si è affermato che il riconoscimento avesse valore di atto reale o di dichiarazione di scienza, concorrendo ad integrare la fattispecie di un elemento di mero fatto. Ne derivava la possibilità da parte del giudice di potersi sostituire alla P.A. nella valutazione dell’utilità dell’opera o della prestazione. Un terzo orientamento, più risalente, sottolineava come fosse del tutto ingiustificato introdurre a livello interpretativo l’ulteriore requisito del riconoscimento dell’utilità dell’opera o del servizio nonostante l’art. 2041 c.c. facesse (e faccia) riferimento ad elementi esclusivamente oggettivi, oltretutto finendo con il subordinare la proponibilità dell’azione di arricchimento a un atto (il riconoscimento) che – secondo il primo orientamento – sarebbe dovuto provenire dalla stessa P.A. convenuta. La vera questione appariva perciò quella relativa alla sussistenza in capo all’ente arricchito della consapevolezza circa la prestazione indebita con particolare riguardo alla sussistenza di una sostanziale ratifica della stessa da parte della PA. Di recente, tuttavia, la Corte di Cassazione, pronunciandosi a sezioni unite ha avuto modo di porre fine al suddetto contrasto giurisprudenziale, chiarendo che il riconoscimento dell’utilità da parte dell’arricchito non costituisce un requisito dell’azione di arricchimento e che il privato depauperato ha solo l’onere di provare il fatto oggettivo dell’arricchimento, mentre l’ente pubblico – pur non potendo opporre il mancato riconoscimento dello stesso – può eccepire e provare che l’arricchimento non fu voluto o non fu consapevole, e che si trattò, quindi, di un  arricchimento non voluto  né formalmente autorizzato. Per fare alcuni esempi, si pensi al caso di un privato – cui sia stata contrattualmente affidata l’esecuzione di lavori (poi regolarmente retribuiti) di manutenzione ordinaria degli edifici di una P.A. – che esegua anche ulteriori lavori non previsti in contratto (e per questo mai pagati) ma richiesti informalmente dalla medesima P.A., ritenendoli indispensabili per assicurare la funzionalità di quegli stessi edifici. Oppure, si pensi ancora al caso di un privato che realizzi delle opere per una P.A., in forza di un contratto di appalto con essa stipulato, ma che poi tale contratto venga annullato dal giudice amministrativo quando ormai le opere siano state eseguite e positivamente collaudate. In questi casi, come in altri analoghi, stante la posizione assunta di recente dalla Corte di Cassazione a sezione unite, il privato potrà ricorrere ex art. 2041 c.c. contro la P.A., fornendo prova dei lavori di manutenzione eseguiti e delle opere realizzate e senza bisogno che la medesima P.A. abbia previamente riconosciuto l’utilità delle opere o dei servizi resi, potendo tutt’al più, quest’ultima, eccepire e provare che tale arricchimento non fu voluto o non fu consapevole, e che si trattò, quindi, di un c.d. arricchimento imposto. Fermo restando quanto sopra, preme tuttavia segnalare un’ulteriore questione che sorge specificamente quando l’arricchito sia un ente locale nel caso in cui un funzionario pubblico alle sue dipendenze abbia attivato un impegno di spesa per tale ente senza l’osservanza dei controlli contabili relativi alla gestione dello stesso (ossia al di fuori dello schema procedimentale previsto dalle norme di evidenza pubblica):   si discute in questi casi se  se in una simile ipotesi sia possibile o meno agire ex art. 2041 c.c. contro l’ente locale, stante il carattere sussidiario dell’azione di arricchimento. In merito, la giurisprudenza di legittimità ha avuto modo di osservare che, agli effetti di quanto disposto dall’art. 23, co. 4, D.L. 2 marzo 1989, n. 66 (convertito in legge con modificazioni), qualora le obbligazioni contratte non rientrino nello schema procedimentale di spesa, insorge un rapporto obbligatorio direttamente con il funzionario che abbia consentito la prestazione, sicché resta preclusa l’azione di arricchimento nei confronti dell’ente locale per difetto del requisito della sussidiarietà (dovendo il privato depauperato agire direttamente e personalmente nei confronti di tale funzionario). Un esempio di quanto sopra può essere rappresentato da un privato che abbia svolto un incarico di prestazione professionale in favore di un ente locale in mancanza di una formale delibera di assunzione di impegno contabile ex art. 191, D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267 (T.U. enti locali). In una simile ipotesi, il rapporto obbligatorio si instaurerebbe direttamente con il funzionario che avesse consentito la prestazione. Pertanto, il privato depauperato dovrebbe agire personalmente e direttamente contro di lui e non contro l’ente locale per il quale aveva svolto la propria prestazione professionale, non essendo possibile, nel caso di specie, esperire l’azione di arricchimento contro quest’ultima a causa del carattere sussidiario e residuale di quest’azione.

Detto ciò, per completezza sembra opportuno fare un sia pur breve cenno anche ad alcune ulteriori questioni – in un certo senso minori rispetto a quelle sopra esaminate in quanto circoscritte a casi molto specifici – emerse in controversie ex art. 2041 c.c. in cui l’arricchito era una P.A.. Ci si riferisce, in particolare, alla questione: (i) dell’arricchimento indiretto; (ii) del computo dell’indennità; (iii) dell’ammissibilità dell’azione di arricchimento nel corso di un processo già avviato. La Corte di Cassazione, pronunciandosi a sezioni unite, ha avuto modo di precisare nel corso del tempo:

  • l’azione di arricchimento è ammissibile anche nel caso di arricchimento indiretto nei soli casi in cui lo stesso sia stato realizzato dalla P.A. in conseguenza della prestazione resa dal privato depauperato ad un ente pubblico;
  • l’indennità prevista dall’art. 2041 c.c. va liquidata nei limiti della diminuzione patrimoniale subita dal privato depauperato, esecutore di una prestazione resa a una P.A. in virtù di un contratto invalido, con esclusione di quanto lo stesso avrebbe percepito a titolo di lucro cessante se il rapporto negoziale fosse stato valido ed efficace;
  • è ammissibile la domanda di arricchimento proposta, in via subordinata, con la prima memoria ex art. 183, co. 6, c.p.c., nel corso del processo introdotto con domanda di adempimento contrattuale, qualora si riferisca alla medesima vicenda sostanziale dedotta in giudizio, trattandosi di domanda comunque connessa a quella inizialmente formulata

In conclusione, dall’esame dell’evoluzione giurisprudenziale e dei più recenti arresti delle sezioni unite della Corte di Cassazione, sembra potersi evincere che l’azione di arricchimento è soggetta alla medesima disciplina codicistica a prescindere dalla natura soggettiva dell’arricchito, sia esso un privato o una P.A.;  ciò in quanto è da tempo sorta la  necessità  di escludere la sussistenza di ulteriori requisiti individuati a livello interpretativo ma non previsti normativamente, peraltro  neanche  necessari neppure a tutelare l’interesse pubblico, essendo sufficienti allo scopo i mezzi ordinari già predisposti dal legislatore. Cionondimeno, non si può sottacere come nel caso in cui rimanga arricchita una PA si pongano  delle questioni giuridiche peculiari: si pensi, come sopra illustrato, al tema dell’individuazione del giudice – ordinario o amministrativo – presso cui esperire l’azione o a quello del carattere residuale dell’azione de qua che si manifesta in modo pregante laddove l’arricchito sia un ente locale ma il depauperato debba rivalersi sul funzionario che non abbia seguito correttamente le procedure amministrative del caso. Tuttavia, tenendo bene a mente l’attenta opera ermeneutica della Corte di Cassazione (e, su certe questioni, anche quella del Consiglio di Stato), si confida che sarà possibile per il privato depauperato ottenere adeguata tutela senza bisogno di interventi chiarificatori del legislatore.