Rapporti fra le fonti di diritto amministrativo comunitario e di diritto interno

di Agnese Telmon

Le fonti del diritto amministrativo interno sono: la Costituzione, le leggi dello Stato, le leggi delle Regioni, i regolamenti, le norme interne e le circolari. Queste fonti si pongono tra loro in rapporto di gerarchia o in rapporto di riparto di competenze.

La Costituzione è la Carta Fondamentale dell’ordinamento giuridico interno; essa si pone in posizione di supremazia rispetto alle fonti di rango inferiore, cioè tutte le altre. A presidio della Costituzione è posto un organo giurisdizionale ad hoc, la Corte Costituzionale, che è la sola deputata a sindacare la legittimità costituzionale delle leggi e degli atti aventi forza di legge (decreti legge e decreti legislativi) dello Stato e delle Regioni (art. 134, primo periodo Cost.). Nel nostro ordinamento esiste, dunque, un sindacato accentrato, con la conseguenza che il giudice a quo che ravvisi un possibile contrasto tra la norma da applicare alla fattispecie sottoposta al suo giudizio e una norma costituzionale non può far altro che sospendere il processo in corso e sollevare questione di legittimità costituzionale innanzi alla Consulta. Altri ordinamenti giuridici, invece, adottano il meccanismo del sindacato diffuso, che attribuisce a ciascun giudice di merito il compito di valutare la compatibilità della norma di diritto interno da applicare e le norme della Carta Fondamentale.

Quanto ai rapporti tra leggi statali e leggi regionali, invece,  l’art. 117 Cost. stabilisce un riparto di competenze ratione materiae. Si instaura così un rapporto non di gerarchia, ma di attribuzione, le cui violazioni sono soggette anch’esse al sindacato della Corte Costituzionale ex art. 134, secondo periodo Cost.

Sussiste invece rapporto di gerarchia verso il basso tra Costituzione, fonti di rango primario (leggi, decreti legge e decreti legislativi) e fonti di rango secondario (regolamenti), con la conseguenza che la fonte subordinata che si ponga in contrasto con quella sovraordinata deve essere abrogata .

Se in passato poteva affermarsi che l’ordinamento giuridico nazionale non interferisse sostanzialmente con gli altri ordinamenti (sebbene non possa dimenticarsi che già Santi Romano aveva sviluppato la teoria della pluralità degli ordinamenti giuridici), attualmente si registra una decisa inversione di tendenza, in cui le interferenze tra ordinamenti sono molteplici e riguardano tutti i settori dell’ordinamento. Il diritto amministrativo è stato forse l’ultimo in cui si è registrata tale interferenza tra ordinamenti, in quanto si sosteneva in passato che il potere pubblico con cui si esprime la potestà autoritativa della PA discendesse direttamente dalla potestà statuale e non potesse subire influenze da altri ordinamenti. Questo orientamento è stato, seppur lentamente, superato dalla nascita della Comunità Europea (oggi Unione Europea), cui hanno fatto seguito una serie di pronunce della Corte Costituzionale e della Corte di Giustizia dell’Unione Europea che hanno cercato di definire i rapporti tra ordinamento nazionale e ordinamento sovranazionale.

Queste le principali tappe di tale evoluzione. Il punto di partenza è costituito dal riconoscimento della circostanza che il rapporto di interferenza tra i due ordinamenti è caratterizzato da circolarità, e non da unilateralità. In altri termini, l’ordinamento nazionale influenza quello comunitario nella misura in cui il diritto amministrativo sovranazionale si è formato sulla scorta dei diritti amministrativi nazionali, recependone i principi e armonizzandoli a livello europeo. Le “tradizioni costituzionali comuni degli stati membri” di cui all’art. 288 TFUE hanno permesso di raggiungere tale risultato di armonizzazione europea dei principi nazionali. D’altro canto, l’ordinamento eurounitario influenza quello nazionale sia in via diretta, attraverso la sostituzione di proprie regole e istituti a quelli del diritto interno, sia in via indiretta, favorendo la convergenza tra i diritti amministrativi nazionali.

In un primo momento, la Corte Costituzionale affermò il principio di equiordinazione tra diritto comunitario e diritto interno, sostenendo quindi la separazione tra i due ordinamenti giuridici e stabilendo, come criterio risolutore delle antinomie eventualmente createsi, quello cronologico, in virtù del quale lex posterior derogat priori.

Successivamente, la Corte, valorizzando il tenore letterale dell’art. 11 della Costituzione, e la conseguente limitazione di sovranità cui l’Italia acconsentiva aderendo all’Unione, giunse ad affermare che le norme interne contrastanti con il diritto dell’Unione dovessero essere dichiarate incostituzionali. Tale orientamento suscitò le critiche della Corte di Giustizia, la quale riteneva che – in virtù del principio del primato del diritto comunitario – l’ordinamento giuridico sovranazionale dovesse automaticamente prevalere su quello nazionale con esso contrastante, senza poter attendere una futura (ed eventuale) pronuncia di incostituzionalità.

Recependo le critiche mosse dalla Corte di Giustizia, la Consulta affermò dunque che la norma interna contrastante con quella dell’Unione non dovesse essere dichiarata costituzionalmente illegittima, ma dovesse essere direttamente disapplicata. Ne consegue che, qualora l’illegittimità della norma nazionale sopravvenga, in seguito all’entrata in vigore di una norma dell’Unione contrastante, la norma nazionale deve intendersi automaticamente caducata. Laddove, invece, la norma europea preesista, l’avvento di una norma nazionale con essa incompatibile attribuisce al giudice nazionale un potere di disapplicazione. In tal modo, si evitano gli inconvenienti del sindacato accentrato della Corte Costituzionale e si consente un sindacato diffuso in capo ad ogni giudice. La disapplicazione, tuttavia, non determina caducazione della norma nazionale, ma sua semplice ritrazione nella fattispecie concreta.

Nonostante la Consulta avesse recepito le critiche della Corte di Giustizia, permaneva tuttavia una divergenza di opinioni tra i due giudici in ordine al rapporto esistente tra ordinamento dell’Unione e ordinamento nazionale. Secondo la Corte Costituzionale, il rapporto era dualistico, nel senso che i due ordinamenti, pur se coordinati, rimanevano autonomi. La Corte di Giustizia, invece, sosteneva la teoria monistica, a norma della quale i due ordinamenti si ponevano in rapporto di integrazione.

La teoria monistica è stata infine recepita da parte della Corte Costituzionale solo in tempi relativamente recenti, e sembra essere stata avallata anche dal legislatore costituzionale con la riforma del Titolo V. Il nuovo art. 117, infatti, ha costituzionalizzato l’obbligo per lo Stato e per le Regioni di esercitare la potestà legislativa nel rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario.

In conclusione, l’approdo ultimo sul quale sembra essersi assestata la giurisprudenza è quello secondo il quale sussiste tra i due ordinamenti un rapporto di integrazione, e, in virtù dei principi di primazia del diritto comunitario, dell’efficacia diretta e dell’effetto utile, in caso di contrasto la norma nazionale deve essere immediatamente disapplicata da parte del giudice a quo.

Si tratta dunque di applicare il principio di primazia del diritto comunitario alle singole fonti del diritto, così da comprendere in che modo concretamente operi tale prevalenza.

I Trattati sono la fonte primaria del diritto eurounitario e prevalgono sulle norme interne, anche costituzionali, in forza del richiamo di cui all’articolo 117 della Costituzione, che impone allo Stato e alle Regioni di esercitare la potestà legislativa nelle materie di loro competenza nel rispetto dei vincoli sovranazionali, sia comunitari che internazionali.

I regolamenti dell’Unione sono fonti cosiddette ad efficacia diretta, in quanto esplicano direttamente i loro effetti nei singoli ordinamenti nazionali senza bisogno di una legge di recepimento. Il giudice di merito deve conoscere i regolamenti europei e applicarli, operando anche in relazione ad essi il principio iura novit curia, in base al quale il giudice conosce la legge e la applica, mentre le parti hanno l’onere di allegare e provare soltanto i fatti. I regolamenti dell’Unione hanno tre caratteristiche fondamentali: hanno portata generale, in quanto sono applicabili a una pluralità di destinatari, indeterminabili a priori; hanno portata obbligatoria in tutti i loro elementi, non essendo possibile un’applicazione parziale; sono direttamente applicabili negli Stati membri, senza bisogno di alcuna legge di recepimento, potendo dunque essere invocati dal singolo e applicati dal giudice.

Le direttive sono invece una fonte a efficacia indiretta, fissando esse soltanto gli obiettivi da raggiungere e lasciando lo Stato libero di scegliere forme e mezzi della loro attuazione. Esse quindi necessitano di una legge interna di recepimento, e non possono essere invocate direttamente dal singolo. Le direttive pongono dunque a carico dello Stato un obbligo di recepimento, dal quale discende il problema della responsabilità dello Stato per omessa o tardiva trasposizione delle direttive nell’ordinamento interno, non potendo esse accordare tutela in via immediata al singolo.

Sono comunemente considerate fonti del diritto dell’Unione anche le sentenze della Corte di Giustizia, nei casi in cui la stessa si pronuncia a seguito di rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE. A differenza delle pronunce dei giudici nazionali, anche di legittimità, che sono inidonee a costituire fonti del diritto in quanto non innovative dell’ordinamento giuridico, le sentenze della CGUE, riferendosi ad una pluralità di ordinamenti, sono delle vere e proprie fonti del diritto, vincolanti per il giudice che ha effettuato il rinvio pregiudiziale nel caso di specie nonché per tutti i giudici che si troveranno a decidere casi analoghi.

In conclusione, il rapporto di interferenza tra normativa eurounitaria e normativa nazionale è risolto nel senso della prevalenza del diritto comunitario su quello domestico, anche se tale primato si atteggia in modo diverso a seconda della fonte che viene in considerazione.