Con pronuncia del 17 marzo 2021, n. 10381, le Sezioni Unite penali della Suprema Corte di Cassazione, intervenendo a risolvere una questione di massima di particolare importanza, hanno affermato il seguente principio di diritto “l’art 384 c.p., primo comma, cod. pen., in quanto causa di esclusione della colpevolezza, è applicabile analogamente anche a chi ha commesso uno dei reati ivi indicati per esservi stato costretto dalla necessità di salvare il convivente more uxorio da un grave e inevitabile nocumento nella libertà o nell’onore”.

 

E’ noto come l’art 384 c.p. – inerente al Titolo III del c.p. relativo ai delitti contro l’amministrazione della giustizia – preveda la non punibilità per chi abbia commesso uno dei delitti ivi contemplati, a fronte della necessità di salvaguardare dal pregiudizio, grave e non evitabile, alla libertà o all’onore di sé stesso ovvero di prossimi congiunti, come specificamente individuati ex art 307 c.p.

La ratio della norma, così come costantemente predicato dalla dottrina e dalla giurisprudenza, è duplice e deve essere rinvenuta “nella garanzia prestata avverso la autoincriminazione e nella forza incoercibile dei sentimenti familiari”.

Giova sin da subito evidenziare come con la pronuncia in commento le SS.UU. abbiano determinato un autentico révirement in ordine alla qualificazione giuridica della norma in questione, la quale è stata pressoché costantemente ricondotta da dottrina e giurisprudenza nell’alveo delle c.d. cause di esclusione della punibilità in senso stretto e, come tale, insuscettibile di applicazione analogica c.d. in bonam partem, dunque a favore dell’imputato/indagato, secondo quanto disposto dall’art 14 delle preleggi.

Invero, ad avviso delle Supremo Consesso l’art 384 c.p. rappresenterebbe piuttosto una causa di esclusione della colpevolezza, o scusante/ esimente, attesa la inesigibilità, per quanto sopra detto, di una condotta  autoincriminatrice ovvero volta all’ accusa di un prossimo congiunto.

 

La vicenda trae origine  dalla condanna della imputata per il delitto di favoreggiamento personale ex art 378 c.p. poiché aveva falsamente dichiarato alle Forze dell’ordine, in occasione di un sinistro stradale cagionato dal di lei convivente more uxorio, quest’ultimo peraltro allontanatosi senza prestare assistenza alle persone coinvolte nell’incidente provocato, di essere stata alla guida dell’auto sulla quale viaggiava invece come terzo trasportato .

La Corte di appello confermava la sentenza del giudice di primo grado, di condanna della odierna imputata per il delitto di favoreggiamento, che vedeva come reato presupposto il delitto di cui all’art 189 comma 6 dlgs 285/92 ( Codice della Strada), escludendo peraltro l’applicabilità al caso di specie della causa di non punibilità ex art 384 c.p., invocata dalla imputata in quanto convivente con l’autore del suddetto reato presupposto.

Avverso la decisione della Corte di appello di Cagliari proponeva dunque ricorso per cassazione.

 

Il ricorso, affidato alla VI Sezione,  ha correttamente osservato come sul punto  sia in atto un evidente contrasto giurisprudenziale, tale da ritenere di dover rimettere  alle Sezioni Unite la questione “se l’ipotesi di cui all’art 384, primo comma, cod. pen., sia applicabile al convivente more uxorio”.

Più nello specifico, la sezione rimettente ha rilevato l’esistenza di due orientamenti:

– quello allo stato prevalente, che esclude l’applicabilità dei casi di non punibilità previsti dalla norma in questione ai casi di convivenza more uxorio sulla base di tre ordini di ragioni:

  1. a) il convivente more uxorio non rientra nella categoria dei prossimi congiunti di cui all’art 307 c.p.;
  2. b) l’art 384 c.p. ha più volte superato indenne gli incidenti di incostituzionalità sollevati nella parte in cui non prevede l’assimilabilità del rapporto di fatto al vincolo di coniugio, atteso che, secondo il Giudice delle Leggi, mentre quest’ultimo rapporto sarebbe caratterizzato da immancabili connotati di stabilità e reciprocità di diritti e doveri, il rapporto di fatto si fonderebbe piuttosto su di una mera affectio revocabile in qualsiasi momento ( cfr Corte Cost. n. 8/96 e 121/2004);

 

  1. c) la natura giuridica della norma ex art 384 c.p. è quella di causa di esclusione della punibilità in senso stretto e dunque eccezionale e non suscettibile di applicazione analogica in bonam partem poiché, in base al principio ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit, la mancata inclusione del convivente more uxorio nel novero dei prossimi congiunti obbedisce ad una precisa scelta di politica criminale: di tanto se ne trarrebbe conferma dal fatto che la stessa Legge Cirinnà 76 del 2016, relativa alle unioni civili tra persone dello stesso sesso ed ai rapporti di convivenza, abbia riformato l’art 307 c.p. estendendo il novero dei prossimi congiunti con riferimento alle sole unioni civili e non anche ai rapporti di convivenza.

 

– L’orientamento favorevole alla applicabilità dell’art 384 c.p. anche al convivente di fatto, invero minoritario:

  1. a) pur non contestando la natura giuridica di causa di non punibilità in senso stretto della norma in questione e, quindi, la non applicazione analogica della stessa, ritiene che si debba procedere ad una interpretazione estensiva ( che, come noto, è operazione ermeneutica diversa dal ricorso alla analogia e ben può investire anche norme penali eccezionali poiché mira ad estendere la portata del precetto al fine di ricomprendere all’interno della previsione normativa tutti i possibili significati a questa riferibili) dei concetti di famiglia e di coniugio atteso che “la stabilità del rapporto, con il venire meno della indissolubilità del matrimonio, non costituisce più una caratteristica assoluta e inderogabile ed anzi caratterizza maggiormente unioni non fondate sul matrimonio”( in tal senso Cass., Sez II, n. 34147 del 30/04/2015, Agostino);

 

  1. b) evidenzia come il rapporto di convivenza sia stato dalla stessa S.C. considerato in più occasioni, ad es. ai fini della determinazione del reddito familiare per l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, così come ai fini della configurabilità del delitto di maltrattamenti in famiglia ex art 572 c.p., ovvero ancora dell’applicazione della causa di non punibilità di cui all’art 649 c.p., per il che non sarebbe chiaro perché escludere l’applicazione dell’art 384 c.p. ai casi di convivenza more uxorio;

 

  1. c) rileva come sia ormai da decenni costante l’orientamento della Corte EDU, la quale fa rientrare nel concetto di famiglia, ai fini dell’art 8 della CEDU, anche i rapporti di stabile convivenza;

 

  1. d) la mancata estensione, da parte della Legge Cirinnà, della non punibilità ex art 384 c.p. al convivente di fatto non costituirebbe comunque “…un insormontabile impedimento per estendere a ogni forma di convivenza la disciplina che si ricava, in tema di equivalenza della figura del convivente a quella del coniuge, dal complesso quadro storico – evolutivo della materia “ ( in tal senso Cass., Sez. VI, n. 11476 del 19/09/2018, Cavassa).

 

Ciò posto, le SS.UU., nel dare risposta affermativa al quesito sottoposto dalla VI Sezione, che pur prospettava la tesi negativa, prendono atto del contrasto giurisprudenziale allo stato esistente in ordine alla mancata equiparazione, nell’o.g. italiano, della convivenza more uxorio al rapporto coniugale.

Parimenti, i Giudici di Legittimità rilevano come le decisioni della S.C. favorevoli alla applicazione estensiva dell’art 384 c.p. abbiano spesso richiamato la giurisprudenza della Corte di Strasburgo, che come detto riconduce nel concetto di famiglia tanto i  apporti di coniugio quanto quelli di convivenza; ciò nonostante, ad avviso delle SS.UU. una tale prospettiva non presenterebbe, con riferimento alla questione per cui è causa “… sostanziali punti di divergenza rispetto alle linee  direttrici del modello normativo disegnato nella Costituzione italiana ( ex artt 2 e 29 Cost.), poiché sia nel sistema convenzionale che in quello interno sono riconosciuti, e costituiscono oggetto di tutela, i diritti dei singoli che nascono, si esprimono e si sviluppano all’interno di un nucleo familiare, fatta salva la possibilità di un trattamento non omogeneo correlato alla diversità dei modelli di relazioni familiari, alla luce di un giusto bilanciamento operato, a livello nazionale, fra le legittime istanze di interessi generali ( as es., sicurezza nazionale, protezione della salute o della morale, difesa dell’ordine e prevenzione dei reati, ecc.) e le singole esigenze di protezione dei diritti fondamentali della persona…”.

In buona sostanza, tanto il sistema convenzionale che quello interno ritengono che la diversità delle tipologie di unioni familiari giustificherebbe la diversificazione dei modelli di tutela.

Una significativa evoluzione si è avuta invece nel diritto comunitario, laddove l’art 9 della Carta di Nizza del 2000 è comunemente interpretata nel senso che attribuisce pari dignità e tutela ad ogni forma di convivenza cui una legislazione nazionale intenda fare riferimento: tanto sulla base della ontologica distinzione tra diritto di sposarsi e diritto di avere una famiglia, quest’ultimo prescindendo dalla presenza di vincoli formali nei rapporti familiari.

 

Ciò posto, le SS.UU., aderendo sostanzialmente alla tesi minoritaria, affermano che la circostanza che la Legge 76/2016 non estenda l’applicazione dell’art 384 c.p. al convivente di fatto non può comportare che il legislatore abbia inteso negare alcuna equiparazione, essendosi semplicemente occupato di disciplinare le sole situazioni relative alle unioni civili tra persone dello stesso sesso, senza occuparsi del rapporto di convivenza sul punto.

Del resto, le stesse SS.UU. ricordano che il fenomeno della convivenza more uxorio è stato a più riprese oggetto di tutela per effetto tanto di interventi normativi quanto di pronunce della giurisprudenza di legittimità ( sul punto, per brevità si rinvia alle pagg. 17 – 20 della sentenza in commento) tale che può ben affermarsi come debbano essere considerate persone della famiglia”… anche i componenti della famiglia di fatto, fondata sulla reciproca volontà di vivere insieme, di generare figli, di avere beni in comune e di dare vita ad un nucleo stabile e duraturo”.

 

Quanto alla natura giuridica della causa di esclusione della punibilità di cui all’art 384 c.p., le SS.UU. rilevano come entrambi gli orientamenti formatisi sul punto abbiano errato nel ritenere che si tratti di una causa di esclusione della punibilità in senso stretto, dovendosi piuttosto qualificare la stessa in termini di scusante/esimente e tanto sulla base di una interpretazione costituzionalmente orientata che valorizzi l’elemento della colpevolezza.

Le SS.UU. ricordano anche che proprio una tale errata ricostruzione della natura giuridica della norma in questione ha rappresentato l’ostacolo principale che ha indotto la Consulta ( sentenza n. 140 del 2009) a negarne l’applicazione alle coppie di fatto.

Infatti, ad avviso delle SS.UU., che all’uopo ricordano un proprio noto precedente ( SS.UU. n. 7208 del 29/11/2007, Genovese), la circostanza che l’ordinamento scelga di non punire i reati elencati nella citata disposizione codicistica non risiede già in mere considerazioni di opportunità ma piuttosto “…tipizza una situazione oggettiva in cui il procedimento motivazionale del soggetto risulta “alterato”, tanto da poter escludere la colpevolezza attraverso la valorizzazione del coinvolgimento psichico”, con la conseguenza che la pretesa punitiva dello Stato non possa spingersi al punto da esigere che un soggetto incolpi (sé stesso ovvero) il di lui prossimo congiunto, in spregio dei legami affettivi e della solidarietà familiare che il legislatore stesso, ex art 384 c.p.,  intende invece salvaguardare.

Se così non fosse, del resto, non si comprenderebbe nemmeno quale ratio possa essere ascritta alla citata disposizione codicistica.

Una volta affermata la natura di causa escludente della colpevolezza della norma di cui all’art 384 c.p., viene meno il divieto di applicazione analogica delle norme eccezionali ex art 14 delle preleggi, viceversa dovendosi ammettere una tale operazione interpretativa che, in quanto qui operante in bonam partem ( ossia in senso favorevole al reo) è pacificamente ammessa nel diritto penale ( cfr. ex multis Cass., V, n. 10054 del 22/05/1980, Taormina).