CORTE COSTITUZIONALE (Presidente Lattanzi, redattore Modugno) – ORDINANZA N. 2017 del 24 OTTOBRE 2018 (depositata 16/11/2018) – Norme impugnate: Art. 580 del codice penale – ISTIGAZIONE AL SUICIDIO – BILANCIAMENTO DEI VALORI COINVOLTI – SCELTA DI COMPETENZA DEL LEGISLATORE – RINVIO DELLA DECISIONE

Con ordinanza del 14 febbraio 2018, la Corte d’assise di Milano ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 580 del codice penale nell’ambito della  vicenda del suicidio assistito del DJ Fabo, per il quale è stato imputato Marco Cappato. Lo stesso, destinatario di una richiesta di archiviazione da parte della Procura della repubblica di Milano era stato rinviato a giudizio dal GIP di Milano dopo il rigetto della richiesta di archiviazione e l’ordine di formulare l’imputazione. Il Gip aveva infatti osservato da un punto di vista oggettivo che la norma incriminatrice doveva intendersi come sanzionatrice di ogni condotta che “(avesse) dato un apporto causalmente apprezzabile ai fini della realizzazione del proposito suicidario”. Inoltre, la concreta assistenza resa da Cappato al suicidio del DJ Fabo doveva essere ritenuta come chiaramente rafforzativa dell’intento suicidario. Quanto alla possibile e dedotta questione della illegittimità della norma incriminatrice, il giudice, pur valorizzando il diritto del paziente a rinunciare a cure palliative e ad opporsi all’accanimento terapeutico, ha tuttavia escluso che l’attuale quadro normativo italiano garantisse allo stato il “diritto ad una morte dignitosa”, ma che anzi l’esistenza di un tale diritto fosse certamente da escludersi.

Il processo penale, svoltosi innanzi alla Corte di Assise di Milano, è stato sospeso con rimessione degli atti alla Corte Costituzionale investita della questione di legittimità costituzionale della norma incriminatrice. In particolare, la Corte d’Assise  ha sostenuto che l’incriminazione delle condotte di aiuto al suicidio, ove non integrino un rafforzamento del proposito della vittima, sia in contrasto con i principi sanciti dagli articoli 2 e 13 della Costituzione, dai quali discenderebbe la libertà della persona di scegliere quando e come porre termine alla propria vita.

Secondo la Corte Costituzionale, l’incriminazione dell’aiuto al suicidio non può essere ritenuta incompatibile con la Costituzione dal momento che la ratio legis del divieto trova  la sua ragion d’essere nell’esigenza di tutelare le persone vulnerabili che potrebbero essere facilmente indotte a concludere prematuramente la loro vita nelle ipotesi in cui il soggetto agevolato al suicidio sia persona affetta da patologia irreversibile e la prospettiva della morte  si appalesi come fonte di sofferenze fisiche o psicologiche assolutamente intollerabili. La Corte ha però osservato che il caso posto alla sua attenzione ha messo in evidenza situazioni inimmaginabili all’epoca in cui la norma incriminatrice è stata introdotta, in particolare, situazioni di pazienti sopravvissuti grazie allo sviluppo e al progresso della scienza medica e della tecnologia in condizioni patologiche fortemente compromesse. La legge n. 219 del 2017, sul fine vita, recependo le conclusioni della giurisprudenza, riconosce ad ogni persona «capace di agire» il diritto di rifiutare o interrompere qualsiasi trattamento sanitario. In questi casi, «il divieto assoluto di aiuto al suicidio finisce per limitare la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie. Nelle particolari situazioni sopra indicate, «vengono messe in discussione le esigenze di tutela che negli altri casi giustificano la repressione penale dell’aiuto al suicidio».

La Corte non ha però ritenuto di poter porre rimedio a questo vulnus con una semplice cancellazione del reato di aiuto al suicidio di chi dovesse trovarsi  in una situazione del genere. Ha quindi rinviato la decisione ad una data fissa invitando il legislatore ad intervenire medio tempore adottando una disciplina  che regoli la materia in conformità alle segnalate esigenze di tutela».

Questa la conclusione: quando «la soluzione del quesito di legittimità costituzionale coinvolga l’incrocio di valori di primario rilievo, il cui compiuto bilanciamento presuppone, in via diretta ed immediata, scelte che anzitutto il legislatore è abilitato a compiere», la Corte reputa «doveroso» consentire al Parlamento ogni opportuna riflessione e iniziativa, «in uno spirito di leale e dialettica collaborazione istituzionale». Ciò al fine di «evitare, per un verso, che, nei termini innanzi illustrati, una disposizione continui a produrre effetti reputati costituzionalmente non compatibili, ma al tempo stesso scongiurare possibili vuoti di tutela di valori, anch’essi pienamente rilevanti sul piano costituzionale ”.

CORTE COSTITUZIONALE (Presidente Lattanzi, redattore Viganò) – SENTENZA N. 197 del 4 LUGLIO 2018 (depositata 12/11/2018) – Norme impugnate: Art. 12, comma 5° del decreto legislativo 23/02/2006, n. 109 – ILLECITO DISCIPLINARE DI MAGISTRATO – SANZIONE DELL’AUTOMATICA RIMOZIONE – E’ LEGITTIMA.

Non è contraria alla Costituzione l’automatica rimozione del magistrato responsabile di aver ottenuto prestiti o agevolazioni da soggetti che egli sa essere parti o indagati in procedimenti penali pendenti presso il proprio ufficio giudiziario o comunque nell’ambito del proprio distretto. La Corte costituzionale ha giudicato non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla Sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura nell’ambito di due procedimenti concernenti magistrati incolpati di avere ricevuto benefici di varia natura da imputati in procedimenti penali pendenti presso le rispettive sedi giudiziarie.

Secondo la Corte, la norma che prevede la sanzione disciplinare della rimozione non lede il principio di eguaglianza sancito dall’articolo 3 della Costituzione, poiché non determina alcuna irragionevole discriminazione in danno del magistrato rispetto a chi abbia commesso altri illeciti disciplinari per i quali non è prevista la sanzione dell’automatica rimozione. La Corte ha sottolineato, in proposito, che ai magistrati è “affidata in ultima istanza la tutela dei diritti di ogni consociato” e che proprio per tale ragione essi “sono tenuti – più di ogni altra categoria di funzionari pubblici – non solo a conformare oggettivamente la propria condotta ai più rigorosi standard di imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo ed equilibrio nell’esercizio delle funzioni […], ma anche ad apparire indipendenti e imparziali agli occhi della collettività, evitando di esporsi a qualsiasi sospetto di perseguire interessi di parte nell’adempimento delle proprie funzioni. E ciò per evitare di minare, con la propria condotta, la fiducia dei consociati nel sistema giudiziario, che è valore essenziale per il funzionamento dello Stato di diritto”.  Né la norma può ritenersi intrinsecamente irragionevole per via  dell’automatismo nell’irrogazione della massima sanzione disciplinare prevista dall’ordinamento per i magistrati.

CORTE COSTITUZIONALE (Presidente Lattanzi, redattore Amoroso) – SENTENZA N. 180 del 10 LUGLIO 2018 (depositata 27/7/2018) – Norme impugnate: Art. 2 bis della legge 13/06/1990, n. 146 (norme sull’esercizio del diritto di sciopero) – SCIOPERO DEGLI AVVOCATI PENALISTI – LIMITI – IMPUTATO DETENUTO

È incostituzionale la norma di legge che, rinviando al codice di autoregolamentazione, consentiva agli avvocati l’astensione dalle udienze nei processi con imputati detenuti. In base all’articolo 13 della Costituzione, infatti, soltanto il legislatore può intervenire in una materia che incide sulla libertà personale e stabilire la durata della custodia cautelare. La Corte costituzionale ha dichiarato incostituzionale l’art. 2 bis della legge 13 giugno 1990 n. 146, là dove consente che il codice di autoregolamentazione delle astensioni dalle udienze degli avvocati – adottato il 4 aprile 2007 dall’Organismo Unitario dell’Avvocatura e da altre associazioni (UCPI, ANF, AIGA, UNCC) e considerato idoneo dalla Commissione di garanzia sugli scioperi – nel regolare l’astensione interferisca con la disciplina della libertà personale.

La questione era stata sollevata dal Tribunale di Reggio Emilia nel cosiddetto maxiprocesso Aemilia con riferimento all’articolo 2 bis della legge 146/1990, che riconosce il diritto dei difensori all’“astensione collettiva dalle prestazioni, a fini di protesta o di rivendicazione di categoria”, fermo restando il necessario “contemperamento con i diritti della persona costituzionalmente tutelati”, e, al contempo, affida alle associazioni o agli organismi di rappresentanza delle categorie interessate l’adozione di “codici di autoregolamentazione”.  Ebbene, secondo l’articolo 4, comma 1, lettera b) del codice di autoregolamentazione, il processo non può fermarsi se, malgrado l’astensione dell’avvocato, l’imputato in custodia cautelare chiede espressamente che si proceda. In sostanza, il giudice può respingere la richiesta di rinvio del difensore e andare avanti solo con il consenso espresso degli imputati detenuti. Se invece l’imputato non si oppone all’astensione, il processo è rinviato e i termini di custodia cautelare vengono sospesi, con il conseguente allungamento del periodo di restrizione della libertà personale, sia pure entro i limiti di durata complessiva prevista dalla legge. In tal modo, secondo il Tribunale l’imputato subisce restrizioni della libertà personale per motivi diversi da quelli espressamente considerati dalla legge. La Corte costituzionale, dopo aver richiamato la riserva di legge stabilita dall’articolo 13 della Costituzione in materia di libertà personale, ha preso atto che l’articolo 2 bis della legge 146/90 rimanda a una regola del codice di autoregolamentazione che produce effetti diretti sui termini di custodia cautelare, in violazione della riserva di legge.