Con la sentenza n. 2061 del 28 gennaio 2021, le SS.UU. (Pres. Curzio, Rel. Vincenti) sono intervenute a chiarire la portata non retroattiva della L 124/2017, art 1 commi 136 – 140, recante la disciplina del leasing finanziario nel caso di contratti risolti in data anteriore all’entrata in vigore della legge, trovando, in merito,  applicazione, per effetto di interpretazione analogica, il solo art 1526 c.c., anche per il caso di fallimento del soggetto utilizzatore.

La Corte ha, in particolare,  escluso l’applicazione analogica dell’art 72 quater L.F. (che, come è noto consente al curatore, in caso di fallimento dell’utilizzatore,  l’applicazione dell’art. 72 L.F, e quindi la sospensione del  contratto non ancora ineseguito o non compiutamente eseguito fino a quando,
con l’autorizzazione del comitato dei creditori, non intervenga una dichiarazione di subentro nel contratto in luogo del fallito, assumendo tutti i relativi obblighi, ovvero di scioglimento dal medesimo, salvo che, nei contratti ad effetti reali, sia già avvenuto il trasferimento del diritto).

Per il caso di fallimento dell’utilizzatore, il soggetto concedente, che intenda insinuarsi al passivo al fine di far valere il credito che gli deriverebbe in virtù di una clausola penale eventualmente stipulata in suo favore, deve formularne domanda ex art 93 l.f., indicando con esattezza la somma ricavata dalla diversa collocazione del bene in questione ovvero, se ciò non dovesse essere avvenuto, depositando in uno alla suddetta (domanda di insinuazione al passivo) una relazione di stima dalla quale si evinca in maniera attendibile il valore di mercato del bene oggetto di leasing.

Con la pronuncia in commento, le SS. UU. della Suprema Corte sono intervenute a risolvere una questione di massima di particolare importanza e, dirimendo un contrasto interpretativo sorto in seno alla sezioni semplici, hanno enunciato i seguenti principi di diritto:

A) La legge n. 124 del 2017 ( art 1, commi 136 – 140) non ha effetti retroattivi e trova, quindi, applicazione per i contratti di leasing finanziario i cui presupposti della risoluzione per l’inadempimento dell’utilizzatore ( previsti dal comma 137) non si siano ancora verificati al momento della sua entrata in vigore; sicché, per i contratti risolti in precedenza e rispetto ai quali sia intervenuto il fallimento dell’utilizzatore soltanto successivamente alla risoluzione contrattuale, rimane valida la distinzione tra leasing di godimento e leasing traslativo, dovendo per  quest’ultimo tipo negoziale applicarsi, in via analogica, la disciplina di cui all’art 1526 c.c. e non quella dettata dall’art 72 – quater l.f., rispetto alla quale non possono ravvisarsi, nella specie, le condizioni per il ricorso alla analogia legis, né essendo altrimenti consentito giungere in via interpretativa ad una applicazione retroattiva della legge n. 124 del 2017.

  1. B) In base alla disciplina dettata dall’art 1526 c.c., in caso di fallimento dell’utilizzatore, il concedente che aspiri a diventare creditore concorrente ha l’onere di formulare una completa domanda di insinuazione al passivo, ex art 93 l.f., in seno alla quale, invocando ai fini del risarcimento del danno l’applicazione dell’eventuale clausola penale stipulata in suo favore, dovrà offrire al giudice delegato la possibilità di apprezzare se detta penale sia equa ovvero manifestamente eccessiva, a tal riguardo avendo l’onere di indicare la somma esattamente ricavata dalla diversa allocazione del bene oggetto di leasing, ovvero, in mancanza, di allegare alla sua domanda una stima attendibile del valore di mercato del bene medesimo al momento del deposito della stessa”.

 

La questione trae origine dalla avvenuta concessione nell’anno 2002, da parte della società ricorrente, di un capannone industriale in locazione finanziaria a favore di una s.r.l.

Il contratto di leasing era venuto a scadere agli inizi del mese di maggio del 2014 e la società utilizzatrice non aveva esercitato il diritto di opzione, né tantomeno corrisposto le ultime rate di leasing dovute alla concedente in virtù di un apposito programma convenuto tra le parti; come tale, la società concedente aveva chiesto, in virtù di apposita clausola contrattuale risolutiva, la corresponsione dell’insoluto  ottenendo l’irrogazione di un decreto ingiuntivo per gli importi corrispondenti.

Nel maggio 2016, la società utilizzatrice veniva dichiarata fallita, con la conseguenza che la concedente domandava, oltre alla restituzione del bene concesso in leasing, di insinuarsi al passivo fallimentare per i canoni scaduti non pagati, oltre che per gli interessi moratori.

Tale istanza di ammissione del credito veniva rigettata dal giudice delegato, nella misura in cui il rapporto si era risolto prima della dichiarazione di fallimento, con la conseguente applicazione del regime di cui all’art 1526 c.c., in forza del quale al concedente era dovuto soltanto un equo compenso per l’uso della cosa – nella specie non ritualmente domandato, dal momento che l’utilizzatore aveva versato al concedente un ammontare ben superiore a quello corrispondente all’equo compenso calcolato, con obbligo formale per esso concedente di restituzione della differenza alla curatela fallimentare.

Avverso tale provvedimento del giudice delegato al fallimento veniva dalla concedente proposta, ex art 98 l.f., opposizione allo stato passivo come reso esecutivo con decreto del novembre 2016; detta opposizione veniva respinta dal Tribunale di Macerata, con decreto del dicembre 2017, sulla scorta delle motivazioni così di seguito sintetizzate:

  1. a) con una missiva del 2014, dunque ben prima che l’utilizzatrice fosse dichiarata fallita, la concedente aveva manifestato la volontà di avvalersi della clausola risolutiva espressa relativa al contratto di locazione finanziaria intercorrente tra le parti;
  2. b) il contratto era dunque risolto ope legis ex art 1456, comma 2, c.c;
  3. c) gli effetti della intervenuta risoluzione del contratto, qualificabile come leasing c.d. traslativo, dovevano essere disciplinati dall’art 1526 c.c.;
  4. d) non poteva, quindi, trovare accoglimento la domanda di insinuazione al passivo del credito per i canoni rimasti insoluti né tantomeno quella, poiché tardivamente proposta, concernente la corresponsione dell’equo compenso.

 

Contro  tale decreto ha proposto ricorso  per cassazione la società concedente, affidando l’impugnazione a tre motivi:

a)violazione/falsa applicazione, ex art 360, co.1, n.3, c.p.c., degli artt 1362, 1363, 1366 e 1456 c.c. poiché il Tribunale, equivocando sulla portata della clausola del contratto di leasing relativa alla risoluzione anticipata dello stesso e dei relativi effetti, avrebbe erroneamente inteso la portata della missiva del luglio 2014 con cui essa concedente intimava alla utilizzatrice la restituzione dell’immobile, in uno al pagamento dello scaduto ed insoluto, giungendo alla inammissibile conclusione che un contratto giunto alla propria scadenza naturale potesse risolversi di diritto ex art 1456 c.c., all’uopo ostandovi proprio la maturazione del termine di scadenza del contratto;

  1. b) violazione/falsa applicazione, ex art 360, co.1, n.3, c.p.c., degli artt 1526 e 72 quater l.f., avendo il Tribunale ritenuto erroneamente applicabile nel caso de quo l’art 1526 c.c., non venendo in rilievo lo scioglimento del contratto, quanto piuttosto la cessazione dei suoi effetti per essere addivenuto a naturale scadenza, con conseguente impossibilità di applicare il principio di cui alla citata disposizione della legge fallimentare, che presuppone l’efficacia del contratto alla data di dichiarazione del fallimento;
  2. c) violazione/falsa applicazione, ex art 360, co. 1, n. 3, c.p.c., dell’art 1, commi 136 – 140, della L 124/2017, nella parte in cui, per effetto della tipizzazione normativa del contratto di leasing operata dalla medesima, sarebbe venuta meno la distinzione tra leasing traslativo e di godimento, con la conseguenza che, a differenza di quanto previsto dall’art 1526 c.c., al concedente spetterebbe non più un equo compenso ma la facoltà di trattenere i canoni pagati dall’utilizzatore e di pretendere il pagamento di quelli scaduti e non pagati oltre che esigere quelli ancora a scadere, più il prezzo di opzione; infatti, il superamento della distinzione tra leasing traslativo e di godimento, non può che condurre all’applicazione analogica, quanto agli effetti risolutori di un contratto non assoggettabile alla disciplina ex L 124/2017, dell’art 72 quater l.f., in luogo del non più applicabile art 1526 c.c.

 

La III sez. civile della S.C., con ordinanza n. 5022 del 25.2.2020, ha segnalato l’esigenza di risolvere due questioni di massima di particolare importanza, entrambe concernenti la perdurante applicabilità dell’art 1526 c.c. ai contratti di leasing risolti prima della entrata in vigore della riforma del 2017.

Più nello specifico, sono stati rimessi alle SS.UU. i seguenti quesiti:

“a)se l’interpretazione dell’art 1, commi 136 – 140, della legge 4.8.2017 n.124, secondo cui tale norma imporrebbe di abbandonare ( anche per i fatti avvenuti prima della sua entrata in vigore) il tradizionale orientamento che applica alla risoluzione del leasing traslativo l’art 1526 c.c., sia coerente con i principi comunitari di certezza del diritto e tutela dell’affidamento;

  1. b) se possa applicarsi in via analogica, anche solo per analogia iuris, una norma inesistente al momento in cui venne ad esistenza la fattispecie concreta non prevista dall’ordinamento; ed in caso affermativo se, con riferimento al caso di specie, tale norma da applicarsi in via analogica possa ravvisarsi nell’art 72 quater l.fall.”.

 

In buona sostanza, i quesiti formulati dalla rimettente sono riassumibili nella possibilità o meno di applicazione analogica di una norma sopravvenuta rispetto alla fattispecie concreta che dovrebbe disciplinare.

Vale la pena ricordare che dalla applicazione analogica, riferita al caso di specie, dell’art 1526 c.c. ovvero dell’art 72 quater l.f. muta in sostanza il quantum della pretesa esigibile dal soggetto concedente nei confronti dell’utilizzatore:

– l’art 1526 c.c. prevede, per il caso della risoluzione del contratto di compravendita per l’inadempimento del compratore, l’obbligo del venditore di restituire le rate riscosse, salvo il diritto ad un equo compenso per l’uso della cosa, così come il risarcimento del danno. Parimenti, se le parti hanno stabilito la salvezza delle rate pagate al venditore a titolo di indennità, il giudice può operarne una riduzione se ve ne ricorrono le circostanze;

– l’art 72 quater l.f., invece, per il caso di scioglimento del contratto di leasing, ha diritto alla restituzione del bene ed è tenuto a versare alla curatela l’eventuale differenza tra la maggiore somma ricavata dalla vendita ovvero altra collocazione del bene, con riferimento ai valori di mercato, rispetto al residuo in linea capitale e con diritto di insinuarsi nello stato passivo per la differenza tra il credito vantato alla data del fallimento e quanto ricavato dalla nuova allocazione del bene, con salvezza dei canoni già riscossi  in quanto costituiscono pagamenti di beni e servizi effettuati nell’esercizio dell’attività d’impresa nei termini d’uso, di cui all’art 67 comma 3 lett. a) l.f., espressamente richiamato dalla disposizione in parola.

 

Sul punto, le SS.UU., prima di venire al proprium della questione rimessale dalla sezione III, nel decidere in ordine ai primi due motivi di ricorso – ritenendo rispettivamente in parte inammissibile ed in parte infondato il primo, inammissibile il secondo – fornisce anzitutto interessanti postulati, in tema di ricorribilità per cassazione avverso l’interpretazione del contratto fatta dai giudici di merito.

Le SS.UU. ricordano, i precedenti della S.C. a mente dei quali il sindacato di legittimità non possa vertere sul risultato interpretativo in sé – che attiene alle competenze riservate al giudice di merito – ma afferisce piuttosto alla verifica del rispetto dei canoni interpretativi, non dunque alla critica mossa alla ricostruzione della volontà negoziale fatta dal giudice di merito che conduca alla diversa valutazione degli elementi di fatto già esaminati.

Come tale, la denuncia della violazione di un errore di diritto nella interpretazione del contratto non può prescindere dallo specifico richiamo dei canoni che si assumono violati, così come del punto e del modo in cui il giudice di merito se ne sia discostato, non potendosi le doglianze risolvere nella contrapposizione mera tra interpretazione del ricorrente e quella giudizialmente accolta: con la conseguenza che, quando di una disposizione contrattuale sono possibili più opzioni ermeneutiche, non è dato dolersi in sede di legittimità del fatto che il giudice di merito abbia disatteso l’interpretazione proposta dalla parte.

 

Ciò posto, le SS.UU. intervengono anche a chiarire – come peraltro sostenuto a più riprese dalle sezioni semplici in tema di mandato, locazione ed appalto – che, contrariamente a quanto sostenuto dalla ricorrente, ben può un contratto di leasing risolversi per inadempimento, in forza di clausola risolutiva espressa, sebbene lo stesso sia venuto a scadenza del termine di durata previsto.

Del resto, che lo spirare del termine di durata del contratto non precluda l’esperibilità dei rimedi risolutori, azionabili per il caso di inadempimento verificatosi prima della scadenza del contratto medesimo, è  cosa acclarata non solo perché gli effetti della risoluzione sono diversi e precedenti rispetto ad altra causa di scioglimento del contratto, ma  anche perché, il contraente  non inadempiente ha la scelta tra quei rimedi alternativi ( adempimento o risoluzione) previsti ex art 1453 c.c.: detto in altri termini, la cessazione fisiologica del termine di durata del contratto non può privare il contraente non inadempiente di far valere l’altrui inadempimento.

Tanto, però, prosegue la S.C., a condizione che sussista il perdurante interesse alla risoluzione per inadempimento di un contratto di durata.

 

Venendo al proprium della questione sottoposta dalla rimettente, le SS.UU. rammentano che costituisce dato acquisito – ormai da un trentennio a questa parte ed avendo peraltro cura di richiamare numerosi precedenti, anche delle SS.UU. medesime – quello per il quale, nella vigenza della tradizionale distinzione tra leasing traslativo e di godimento, ante riforma del 2017, data la diversità delle regole applicabili alle due fattispecie, gli effetti della risoluzione della prima tipologia di locazione finanziaria fossero quelli regolati per analogia dall’art 1526 c.c.

Tale orientamento non è mutato nemmeno per effetto della riforma del 2006, introduttiva dell’art 72 quater l.f., relativo allo scioglimento del contratto di leasing quale conseguenza del fallimento dell’utilizzatore.

Siffatto diritto vivente è stato contrastato da diverse pronunce della S.C., in primis la n. 8980 del 29 marzo 2019, inclini a valorizzare la novella legislativa del 2017 in via interpretativa, concludendo per la non applicazione dell’art 1526 c.c. per il caso di risoluzione per inadempimento del contratto di leasing, traslativo o di godimento che sia; secondo questa impostazione gli effetti della novella del 2017 si riverberano anche sui contratti che, in quanto ad essa precedenti, non ricadrebbero nel relativo ambito di applicazione: ciò non tanto per effetto di una applicazione retroattiva, all’uopo non consentita, quanto piuttosto alla luce di una interpretazione storico – evolutiva, in virtù della quale una data fattispecie negoziale deve essere valutata sulla base dell’ordinamento vigente, atteso che l’attività di interpretazione deve cogliersi nella sua attualità; tanto in virtù dell’assunto per cui sino a che la sentenza non sia passata in giudicato gli effetti di una data fattispecie negoziale non sono ancora esauriti.

Da ciò deriva che le conseguenze della risoluzione del contratto di leasing, antecedente al fallimento dell’utilizzatore e sottratti ratione temporis all’efficacia diretta della legge 124/2017, debbano essere disciplinate in via analogica dall’art 72 quater l.f., che prevede la stessa regolamentazione fatta successivamente propria dalla novella del 2017.

Tale assunto ha invero preoccupato non poco la sezione rimettente, nella misura in cui, l’applicazione di norme ( art 1, commi 136 – 140, L 124/2017) entrate in vigore molto tempo dopo la risoluzione del contratto di leasing oggetto di causa – e per la quale il diritto allora vivente prevedeva pacificamente l’applicazione dell’art 1526 c.c. – potrebbe confliggere con i principi, sanciti anche a livello sovranazionale, di irretroattività delle norme, con particolare riguardo alla tutela del legittimo affidamento e salvaguardia dei diritti quesiti.

Del resto, la stessa sezione rimettente ha richiamato la giurisprudenza, anche a sezioni unite, per la quale il mutamento di un orientamento consolidato su una certa interpretazione normativa trova giustificazione solo quando quella interpretazione appaia manifestamente pretestuosa ed arbitraria, atteso che l’affidabilità, prevedibilità ed uniformità dell’interpretazione delle norme di diritto costituiscono imprescindibile presupposto di democrazia, uguaglianza e giustizia sostanziale ( cfr, SS.UU. 23675/2014).

 

Le SS.UU. ritengono all’uopo di non poter condividere l’indirizzo interpretativo inaugurato dalla sentenza 8980/2019, con conseguente necessità di assicurare continuità all’applicazione analogica dell’art 1526 c.c. per il caso di risoluzione dei contratti di leasing traslativo antecedenti alla riforma del 2017, anche con riferimento al caso di fallimento del soggetto utilizzatore inadempiente ( e dunque deponendo nel senso della infondatezza del terzo motivo di ricorso dedotto dalla concedente).

Alla base di tale decisione vi è la convinzione della S.C. che l’interpretazione delle norme non possa superare quei limiti che si impongono nel suo svolgimento e che denotano la distinzione tra l’attività:

– del giudice, che è quella di applicare al caso concreto la legge intesa secondo le comuni regole dell’ermeneutica, chiarendone il significato in base al momento storico ed al contesto socio-culturale;

– del legislatore, che introduce nell’o.g. una norma che impone a tutti di tenere un dato comportamento o di osservare un dato precetto.

Con la conseguenza che la funzione assolta dalla giurisprudenza è dichiarativa della effettiva portata di una norma giuridica e, dunque, non direttamente creativa di norme giuridiche.

Ciò consente di affermare che per poter colmare una lacuna dell’o.g. il procedimento analogico esige che la disposizione di legge ovvero il principio generale dell’ordinamento – a seconda che si ricorra alla analogia legis ovvero alla analogia iuris – devono essere già esistenti nell’o.g. quando il giudice si trova a doverli applicare, altrimenti farebbe opera creativa di diritto, interferendo con le prerogative del legislatore.

 

Parimenti, ricordano ancora le SS.UU., che a norma dell’art 11 delle disposizioni sulla legge in generale, la legge dispone solo per il futuro e che solo il legislatore può stabilire l’efficacia retroattiva di una norma di legge (non penale), non essendo ciò possibile invece al giudice, nemmeno facendo ricorso all’interpretazione analogica: non solo, in quanto l’efficacia retroattiva di una norma è un attributo eccezionale della stessa, anche il legislatore, nel disporre l’applicazione ex tunc di una norma è tenuto al rispetto di quei principi che, come quelli di ragionevolezza, sono posti a tutela dell’affidamento legittimo e certezza del diritto, sì da  rappresentare valori fondamentali di civilità giuridica.

Secondo le SS.UU., l’assunto relativo alla applicabilità analogica al caso di specie dell’art 72 quater l.f., relativo allo scioglimento del contratto di leasing ad opera del curatore fallimentare, poiché costituisce ius receptum che la disposizione in parola costituisca una norma eccezionale in quanto inerente ad una specifica procedura concorsuale che presuppone lo scioglimento, per volontà del curatore e quale conseguenza del fallimento, del contratto ancora pendente a quel momento; tale eccezionalità non consente un’ultrattività  nel caso in cui il contratto di leasing si era già risolto, mercé la clausola risolutiva espressa, ben prima del fallimento del soggetto utilizzatore.

Per questa via, chiarisce la Corte, la richiamata norma della legge fallimentare risulta irrimediabilmente insuscettibile di applicazione analogica.

 

Rileva ancora la S.C. che l’equo compenso di cui all’art 1526 c.c. comprende, si, la remunerazione del godimento del bene, il deprezzamento conseguente alla sua incommerciabilità come nuovo ed il logoramento connesso all’uso dello stesso, ma senza comprendere però anche il risarcimento del danno spettante ad esso concedente che deve comunque trovare una specifica considerazione al fine di porre lo stesso nella situazione in cui si sarebbe trovato se l’utilizzatore avesse adempiuto esattamente la propria prestazione.

Sul punto, ad avviso delle SS.UU.  il risarcimento del danno del concedente può essere oggetto di determinazione anticipata, mercé l’apposizione nel contratto di una clausola penale ex art 1382 c.c.: del resto, ricorda la Corte, l’autonomia privata si è orientata proprio in tal senso ai fini della costruzione del leasing quale tipo sociale, in base a modelli standardizzati, come peraltro risulta da una ampia casistica.

Facendo dunque applicazione dell’art 1526, comma 2, c.c. e del correlato principio in tema di riduzione della clausola penale manifestamente eccessiva ex art 1384 c.c., può dunque riequilibrarsi la posizione di ambedue le parti, non senza, comunque, avere riguardo all’interesse che il creditore aveva all’adempimento integrale.

Ne deriva che grava in capo al concedente che intenda diventare creditore concorrente e far valere la clausola penale stipulata in suo favore l’onere di formulare specifica domanda di insinuazione al passivo ex art 93 l.f., affinché il giudice delegato possa dunque valutare se detta penale sia equa ovvero manifestamente eccessiva: affinché tale valutazione venga correttamente espletata, detto istante deve indicare la somma esattamente ricavata dalla diversa allocazione del bene oggetto di locazione finanziaria ovvero, in mancanza, allegare alla domanda una stima attendibile del valore di mercato del bene stesso al momento del deposito della stessa.