Il contratto sociale fa parte della categoria dei contratti plurilaterali con comunione di scopo; ai sensi dell’art. 2247 c.c., è un contratto con cui due o più persone conferiscono beni o servizi per l’esercizio in comune di un’attività economica allo scopo di dividerne gli utili.

Ciò implica che le parti non sono tenute all’adempimento di una prestazione a fronte di una controprestazione, sostanziandosi il loro accordo nel raggiungimento di uno scopo comune rappresentato dalla produzione e dalla divisione di utili.

Dalla qualificazione del contratto sociale come contratto plurilaterale, discende l’applicabilità dell’art. 1420 c.c. in base al quale, nei contratti in cui le prestazioni sono dirette al conseguimento di uno scopo comune, la nullità che colpisce il vincolo di una sola delle parti non importa nullità dell’intero contratto, a meno che tale partecipazione non debba considerarsi essenziale. Pertanto, nei contratti con comunione di scopo, viene prevista la possibilità di sciogliere il legame negoziale relativamente ad un solo soggetto senza far venir meno l’intero contratto con la conseguenza che la partecipazione di una qualsiasi delle parti non deve ritenersi essenziale.

Il contratto sociale èinquadrabile nella categoria dei contratti associativi nei quali le parti, associandosi tra loro in modo stabile, danno origine ad un nuovo soggetto di diritto. L’interesse dei soci, infatti, non è soddisfatto con l’esecuzione dei conferimenti, ma con l’esercizio non occasionale di un’attività economica che permetta la distribuzione di utili. Da ciò deriva la costituzione di un’organizzazione che regoli i rapporti tra soci e tra questi e i terzi che entrano con loro in contatto.

Per quanto riguarda le professioni intellettuali, in passato era ammesso solo il ricorso alla forma dello studio associato, essendo precluso un esercizio delle stesse in forma societaria. Ciò rispondeva al carattere rigorosamente personale della prestazione richiesto ai sensi dell’art. 2232 c.c., nonché tenuto conto della necessità che il compenso dovesse essere adeguato al decoro professionale del professionista. Anche se privo di personalità giuridica, tuttavia, lo studio associato veniva considerato quale fenomeno di aggregazione di interessi ai quali la legge attribuiva la capacità di porsi come centro autonomo di imputazione di rapporti giuridici.

Successivamente in attuazione della direttiva comunitaria 98/5/CE, è stato emanato il d.lgs. n. 96/2001 che, riferendosi espressamente alla professione forense, ha riconosciuto la possibilità che l’attività professionale fosse esercitata in forma comune esclusivamente secondo il tipo della società tra professionisti, denominata società tra avvocati (STA). In base a tale legge veniva ammessa la costituzione di STA purchè nella forma della società in nome collettivo e richiedendo quale requisito soggettivo il possesso del titolo.

La possibilità di costituire società professionali multidisciplinari – ovvero composte da soci professionisti e non – è stata, in seguito, prevista dalla legge n.183/2011 diretta a favorire la liberalizzazione del fenomeno delle Società tra professionisti (STP); in base all’art. 10 della predetta legge il legislatore aveva posto una clausola di salvaguardia facenti salvi i modelli societari già espressamente disciplinati fino a quel momento – tra cui quello forense di cui al d.lgs. n. 96/2001.

Si poneva perciò un problema di coordinamento delle due discipline: da un lato la l. 183/2011 che ammetteva la possibilità di costituire società tra professionisti in genere e soci non professionisti; dall’altro il d.lgs. 96/2001 che, fatto salvo dalla clausola di salvaguardia, riguardava esclusivamente la professione forense e ammetteva la costituzione di STA solo tra professionisti.

A completare il quadro normativo è poi intervenuta la legge sulla professione forense varata nel 2012 – quindi posteriore rispetto alla disciplina generale delle STP  del 2011 e a quella speciale delle STA  del 2001- con la quale è stato mantenuto fermo il divieto di partecipazione di soci di mero investimento o di soci non abilitati all’esercizio della professione forense.

In virtù del principio per cui lex posterior generalis non derogat priori speciali, si affermava, pertanto, il divieto di STP tra avvocati.

I termini della questione sono, tuttavia, mutati dopo l’introduzione nel 2017 dell’art. 4 bis nella legge professionale forense in base al quale si è consentita la partecipazione di soci non avvocati, seppur nella misura non superiore ad un terzo del capitale sociale.

Invero, la nuova disposizione prevede l’ammissibilità delle società di persone, di capitali o cooperative iscritte in un’apposita sezione speciale dell’albo e dispone che i soci, per almeno due terzi del capitale sociale e dei diritti di voto, devono essere avvocati iscritti all’albo.

Le STA nell’ottica della riforma non si pongono come un genere ad hoc rispetto alle tipologie di società disciplinate nel Codice civile, né si impone l’utilizzo della sola tipologia di società in nome collettivo come avvenuto con il D.lgs. n. 96/2001. Conseguentemente le società tra avvocati così costituite saranno soggette a tutte le disposizioni previste ex lege per il modello societario adottato, salvo quanto diversamente ed espressamente previsto dalla normativa speciale.

La norma, pertanto, mira a garantire maggiore concorrenzialità nella professione forense ed elimina, una volta per tutte, il divieto di esercizio multidisciplinare della professione in forma societaria.

Proseguendo nella disamina del regime giuridico delle STA post riforma, la maggioranza dei membri dell’organo di gestione deve essere composta da soci avvocati e i componenti dell’organo di gestione non possono essere estranei alla compagine sociale; grava, inoltre, sui soci l’obbligo di iscrivere la società nell’apposita sezione degli albi o dei registri conservati all’interno dell’Ordine degli Avvocati e, successivamente, comunicare al medesimo Ordine ogni vicenda modificativa.

Infine, il legislatore ha espressamente previsto l’impossibilità di partecipare alle STA mediante società fiduciarie, trust o per interposta persona.

Analizzando il regime di responsabilità applicabile rispetto alla prestazione professionale pattuita con i terzi si evidenzia come il legislatore ha voluto tener fermo il principio secondo cui il prestatore d’opera, cioè colui che esegue materialmente la prestazione, debba essere un soggetto abilitato a quella determinata professione.

Nonostante si sia ribadito il carattere necessariamente personale della prestazione da parte del professionista, occorre tuttavia evidenziarsi come il rapporto d’opera che s’instaura alla base riguardi la STA e il cliente.

In altri termini, l’accordo tra cliente e società fa nascere un’obbligazione di prestazione professionale a carico di quest’ultima, la quale potrà essere eseguita solamente da un socio avvocato.

Da ciò discende che qualora il professionista individuato ed incaricato della prestazione professionale si dimostri inadempiente o, diversamente, receda dalla partecipazione alla STA, sarà la società a risponderne, sulla base della disciplina legale afferente il modello societario scelto. Alla responsabilità della STA si aggiunge poi anche quella del professionista.

Occorre, infine, considerare come a seguito della riforma della legge sulla professione forense, che permette la partecipazione ad una STA anche da parte di professionisti non iscritti all’albo, si siano riscontrate criticità in merito alla distinzione tra STP e STA.

La questione è stata affrontata anche dalle Sezioni Unite le quali hanno affermato come la scelta circa la tipologia di società non è rimessa ad alcuna discrezionalià, perché la legge speciale e posteriore delle STA prevale su quella generale e precedente delle STP.

Ciò significa che ove il costituendo ente sia formato per almeno due terzi del capitale sociale e dei diritti di voto da soci avvocati iscritti all’albo e professionisti iscritti presso albi di altre professioni e il suo organo di gestione sia composto in maggioranza da avvocati, le parti dovranno optare per la STA.