La divisione ereditaria costituisce una fase eventuale del fenomeno successorio.

Apertasi la successione ed intervenute le singole chiamate ereditarie secondo le forme della successione legittima o testamentaria, può accadere che l’intero patrimonio ereditario venga attribuito ad un unico soggetto e, pertanto, che non intervenga la fase divisoria. Diversamente, qualora l’asse ereditario venga ripartito a più soggetti secondo quote ideali di appartenenza, allora, la vicenda successoria dovrà inevitabilmente conoscere lo strumento della divisione ereditaria. Dal punto di vista teorico-concettuale, quest’ultima  è un atto giuridico e, più precisamente, un negozio con il quale i beni giuridici precedentemente riconducibili al de cuius entrano a far parte in maniera definitiva della sfera giuridica dei successori.  Di norma, ma non sempre, quindi, la divisione segna il momento finale della successione mortis causa ma sono i suoi effetti costitutivi a segnare il vero punto nevralgico dell’istituto.

Prima di analizzare la questione c’è da dire, però, che il trasferimento dei beni dell’asse ereditario ai successori è spesso soltanto formale nel senso che questi ultimi possono legittimamente decidere di venderli in modo da ripartirne il ricavato ovvero utilizzare dei conguagli nell’ipotesi in cui i beni siano indivisibili o le quote disomogenee.

Da questo punto di vista, allora, può dirsi che la divisione è anche un istituto attraverso il quale la quota ideale di proprietà sul medesimo bene (o insieme di beni) si traduce nell’incremento patrimoniale concreto del successore.

In relazione alla natura giuridica, poi, dottrina e giurisprudenza hanno mostrato orientamenti piuttosto discordanti. Secondo l’impostazione prevalente la divisione muterebbe la propria natura giuridica in relazione alle concrete modalità di esecuzione potendo, ad esempio, anche essere disposta in vita dal testatore. La teorizzazione più risalente la considera alla stregua di un mero atto giuridico di esecuzione della volontà testamentaria; tale visione, prevalentemente improntata alla concezione soggettiva della vicenda successoria, è stata superata da una nuova teorizzazione che ritiene di doverla ricondurre alla materia del contratto. La natura contrattuale viene financo attribuita alla divisione giudiziale effettuata in regime di volontaria giurisdizione che non presuppone una lite ma viene fatta dal giudice senza che le parti si facciano delle reciproche concessioni.

Ciò detto, in considerazione del fatto che la divisione potrebbe comportare un significativo squilibrio delle attribuzioni patrimoniali dei coeredi, il legislatore ha tipizzato un articolato sistema di impugnazioni in modo da tutelare i singoli coeredi dai casi di violazione della propria quota in sede divisoria.

Il primo rimedio è quello previsto dall’articolo 735 c.c. che si riferisce all’ipotesi in cui uno dei legittimari sia stato pretermesso in toto dalla divisione fatta in vita dal testatore ovvero abbia subìto una lesione della propria quota indisponibile. In questo caso, l’erede legittimario pretermesso potrà farne valere la nullità o esercitare l’azione di riduzione contro gli altri coeredi.

Gli altri due strumenti espressamente tipizzati sono quelli previsti dagli articoli 761 e 763 c.c. ovvero, rispettivamente, quello dell’annullamento per violenza o dolo e quello della rescissione per lesione. A detta della posizione maggioritaria entrambi costituiscono l’appiglio concettuale della teoria negoziale sulla divisione e ricalcano gli istituti dell’annullamento derivante da un vizio del consenso contrattuale e quello della lesione ultradimidium di cui al 1448 c.c.

Passando adesso alla disciplina generale della rescissione per lesione è preliminarmente necessario fare una precisazione. Nell’ambito della materia contrattuale il Legislatore, come è noto,  non impone una condizione di equità o equilibrio tra le contrapposte posizioni contrattuali essendo rimesso esclusivamente all’autonomia negoziale delle parti ogni valutazione in ordine alla convenienza dell’affare. Se ciò è vero, non può negarsi, però, che la legge civile tutela la figura della parte contraente che sia stata lesa dalla stipula del regolamento contrattuale nel caso in cui si sia a ciò determinata a causa di uno stato di necessità. Detto altrimenti, la rescissione contrattuale opera solo ed esclusivamente di costanza di uno stato di bisogno della parte e costituisce, dunque, una norma di salvaguardia del soggetto “debole” del contratto.

La rescissione della divisione, invece, si fonda su dei presupposti diversi dalla figura poc’anzi esaminata perché prescinde totalmente dalla situazione soggettiva in cui versa la parte lesa fondandosi esclusivamente sulla sussistenza di una lesione della quota ereditaria. Da questo primo rilievo emerge nettamente la peculiarità dell’istituto che mira esclusivamente a tutelare l’erede da eventuali errori nella procedura divisoria o da violazioni della propria quota di eredità.

Il regime giuridico della rescissione divisoria è profondamente diverso da quello previsto per la rescissione del contratto di compravendita. Come già accennato, infatti, il primo elemento di diversificazione è dato dal presupposto. Mentre la variante contrattuale si fonda sullo stato di bisogno e sul contestuale approfittamento della controparte (es. venditore che aliena il bene ad un prezzo spropositatamente basso per far fronte a delle contingenti esigenze di liquidità); quella divisoria ne prescinde in quanto può essere esperita anche in caso di buona fede del soggetto che ha proceduto alla divisione.

Sotto altro profilo, poi, è diverso il quantum di sproporzione (rectius, lesione) tra le due figure che viene indicato in oltre un quarto nel caso di cui al 763 c.c. e in oltre un mezzo nel caso del 1448 c.c. Altrettanto differenziato è, inoltre, il regime degli effetti conseguenti alle due azioni; nel primo caso l’esercizio vittorioso dell’azione porta al ripristino dello status quo ante ed impone la riformulazione della divisione, nel secondo, invece, la rescissione del contratto. Ancora, mentre l’azione di rescissione contrattuale si prescrive in un anno dal momento della conclusione del contratto, quella divisoria è soggetta al più ampio termine prescrizionale di due anni.

Le suesposte differenze permettono di comprendere che le due figure, seppure in parte astrattamente sovrapponibili, differiscono profondamente; in ordine alla ratio di una siffatta disciplina la dottrina si è lungamente interrogata ponendo sopratutto l’attenzione sul rapporto intercorrente tra esse.

Oggi si ritiene che la chiave di lettura dell’apparente rapporto di interferenza sia da rinvenire nel dettato dispositivo di cui all’articolo 1448, ultimo comma c.c. in forza del quale “sono salve le disposizioni relative alla rescissione della divisione”. Il tenore letterale della disposizione richiamata porta ad escludere che la rescissione contrattuale (quale è quella in materia di vendita) possa interferire con quella divisoria; la richiamata clausola di salvezza, infatti, va letta in relazione alle profonde differenze in termini di funzione cui accedono le figure in discussione.

La rescissione della divisione opera in maniera funzionale alla successione; è, cioè, un istituto strumentale all’effettività dell’acquisto a causa di morte e non può trovare sovrapposizioni pratiche alla variante contrattuale. Quest’ultima, dal canto suo, si riferisce alle sole vicende negoziali inter vivos e con i limiti di cui si è detto.

In considerazione di quanto esposto è possibile trarre una importante conclusione; nonostante la tesi prevalente propenda per la natura negoziale dell’atto di divisione la disciplina rescissoria ad essa relativa non coincide con quella contrattuale in ragione dei differenti interessi perseguiti.

Di una simile ricostruzione vi è traccia nel dettato normativo in quanto il legislatore sembrerebbe aver delineato un chiaro rapporto di specialità tra la rescissione ex art. 1448 e quella ex art. 763 c.c.