Tra le posizioni soggettive garantite dal nostro ordinamento, un ruolo peculiare è ricoperto dall’ambiente. Esso, sino alla legge n. 349/1986 istitutiva del Ministero dell’Ambiente (oggi MiTE), era stato tradizionalmente considerato dalla giurisprudenza quale una species del diritto alla salute. Tale classificazione aveva, come conseguenza, di ancorarlo, sotto il profilo tuzioristico, ad una dimensione prettamente privatistica, di modo che solo il singolo cittadino leso dalla contaminazione ambientale nel proprio diritto alla salute poteva essere ritenuto legittimato ad agire in giudizio. Una simile ricostruzione è stata superata dalla già citata legge n. 349/1986, che, attribuendo al MiTE il potere di agire per il risarcimento del danno ambientale, si è allontanata dall’interpretazione allora dominante, riconoscendogli una natura prettamente pubblicistica. L’ambiente è un bene giuridico non rivale né escludibile, adespota, non ascrivibile unicamente a determinati individui e corrisponde alla categoria degli interessi diffusi. Non si può ritenere sussistente il requisito, tipico degli interessi legittimi, della differenziazione (da intendersi come la diversità della posizione giuridica del soggetto privato dinanzi alla P.A., rispetto a quella degli altri consociati), giacché la tutela dell’ambiente, non presentando i caratteri della rivalità e dell’escludibilità, è preminentemente attribuita al MiTE. La stessa legge n. 349/1986 (artt. 13 e 18, co. 5) ha attribuito la legittimazione a ricorrere anche alle associazioni preposte alla tutela dell’ambiente e riconosciute con decreto del MiTE. Il quadro normativo non determina, in alcun modo, che la tutela dell’ambiente si trasformi in un interesse legittimo delle suddette associazioni, ma si limita a porre una speciale condizione per l’azione in giudizio, data la precipua natura pubblicistica dell’ambiente. Esse sono pertanto legittimate ad agire per l’annullamento di provvedimenti lesivi dell’ambiente, nonché per il risarcimento dei danni cagionati allo stesso. Sono espressamente attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (art. 133, co. 1, lett. s c.p.a. e art. 310, co. 1, D. Lgs. 152/2006) le controversie relative i) ad atti e provvedimenti adottati in violazione delle disposizioni in materia di danno all’ambiente, ii) avverso il silenzio inadempimento del MiTE e per il risarcimento del danno subito a causa del ritardo nell’attivazione, da parte del Ministro, delle misure di precauzione, di prevenzione o di contenimento del danno ambientale, iii) nonché quelle inerenti alle ordinanze ministeriali di ripristino ambientale ed il risarcimento del danno ambientale. Spetta invece alla giurisdizione ordinaria la cognizione delle cause in cui è stata esperita l’azione risarcitoria. Quest’ultimo tipo di tutela, disciplinato dall’art. 311 del T.U. Amb., è stato oggetto di un notevole contrasto col diritto comunitario, tale da aver fatto attivare alla Commissione UE due procedure d’infrazione nei confronti dell’Italia, con l’accusa di non aver recepito correttamente la DIR. 2004/35/CE. Il legislatore europeo non ha infatti posto alcuna distinzione tra il risarcimento del danno ambientale in forma specifica e per equivalente, sancendo, a contrario, una netta prevalenza del primo nei confronti del secondo, che non viene nemmeno menzionato nel testo della direttiva. Ciononostante la formulazione originaria dell’art. 311, co. 2 stabiliva che, in caso d’impossibilità del risarcimento in forma specifica (ossia del ripristino dello status quo ante al danno ambientale) il responsabile fosse tenuto a pagare allo Stato l’equivalente patrimoniale. In seguito all’avvio di una prima procedura d’infrazione, il legislatore italiano, nel 2009, ha optato per una modifica del testo dell’art. 311, co. 2, che, seppur introduceva i riferimenti alle misure di riparazione, manteneva inalterata la dicotomia tra le due tipologie risarcitorie. Instaurata una nuova procedura d’infrazione, il legislatore italiano ha modificato il testo in modo che fosse finalmente compatibile con quanto richiesto a livello comunitario, dando una nuova e più pertinente veste al risarcimento per equivalente, che non consiste più nella mera quantificazione del costo del danno ambientale in sé, bensì delle omesse o incomplete misure riparatorie. Il risarcimento per equivalente non ha infatti lo scopo di compensare il danno ambientale, ma, all’opposto, di rifondere il danno causato dall’omessa o incompleta riparazione del medesimo. Ne risulta che l’ambiente riceva, sia dall’ordinamento interno sia da quello comunitario, una tutela rafforzata dal momento che esso viene protetto unicamente attraverso misure riparative primarie (qualsiasi misura di riparazione che riporti le risorse e/o i servizi naturali danneggiati alle o verso le condizioni originarie), complementari (qualsiasi misura di riparazione intrapresa in relazione a risorse e/o servizi naturali per compensare il mancato ripristino completo delle risorse e/o dei servizi naturali danneggiati) e compensative (qualsiasi azione intrapresa per compensare la perdita temporanea di risorse e/o servizi naturali dalla data del verificarsi del danno fino a quando la riparazione primaria non abbia prodotto un effetto completo) , lasciando al risarcimento per equivalente il residuale spazio di ristorare i danni cagionati dall’intempestiva, carente o incompleta adozione delle operazioni di ripristino da parte del responsabile.

 

CONCLUSIONI:

 

L’ambiente, quale bene pubblico, ha una tutela rafforzata sia nell’ordinamento interno sia in quello comunitario, la quale si esplica nel procedimento amministrativo con la partecipazione delle associazioni preposte alla sua protezione, riconosciute con decreto MiTE e, dal punto di vista riparatorio, mediante una netta preponderanza del risarcimento in forma specifica, facendo salvo quello patrimoniale solo nei casi di insufficienza o incompletezza del primo.