La persona offesa dal reato è il soggetto portatore del bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice.

Infatti, il principio di offensività, che informa di sé l’ordinamento penale, impone che sia punibile come reato solamente una condotta che leda beni giuridici altrui di rilevanza costituzionale. In altri termini, non può essere punita come reato una “mera disubbidienza”, ossia una violazione di una norma, se questa non si risolve nella lesione di un bene giuridico.

Il principio di offensività si rivolge, da una parte, al legislatore, cui è vietato incriminare condotte che non siano neppur astrattamente lesive, e, dall’altra, al Giudice, il quale deve punire solamente quei comportamenti che, sussumibili in una previsione astratta di reato, concretamente ledano il bene giuridico protetto. Sotto il primo aspetto, per esempio, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità della circostanza aggravante c.d. della clandestinità ex art. 61 n. 11-bis c.p., ritenendo che in nulla la permanenza irregolare sul territorio nazionale aggravi, neppur astrattamente, il reato commesso; dall’altra, la Consulta ha ritenuto che il possesso di chiavi alterate o grimaldelli possa essere punito come contravvenzione solamente ove sia commesso in circostanze di luogo e di tempo tali da far ritenere che il pregiudicato sia in procinto di commettere reati contro il patrimonio, altrimenti risolvendosi in una mera condotta inoffensiva.

Per vero, solo alcuni reati consentono una immediata identificazione della persona offesa: è il caso, per esempio, del reato di omicidio, in cui, evidentemente, la persona offesa è l’ucciso.

In altri reati, invece, la persona offesa è indeterminata, in quanto essi puniscono la creazione di un pericolo in incertam personam, di cui persona offesa può essere chiunque. È il caso, per esempio, della strage, che consiste nella produzione di un pericolo mortale verso una collettività di persone indeterminate; anzi, ciò che distingue la strage dal tentato omicidio è proprio l’individuazione della persona offesa, indeterminata nel primo caso, determinata nel secondo. Dunque, porre una bomba in un luogo affollato sarà strage, in quanto crea pericolo per tutte le persone che si trovino in quel luogo, mentre mettere una bomba in una automobile privata sarà tentato omicidio, in quanto crea pericolo solamente per il proprietario della vettura.

Infine, taluni reati puniscono la lesione di interessi rilevanti dello Stato, senza che sia individuabile una persona fisica lesa: è il caso, per esempio, dell’associazione per delinquere ex art. 416 c.p., che lede il bene “ordine pubblico”: persone fisiche determinate potranno, semmai, essere lese dai reati-scopo commessi dai membri dell’associazione, ma non dall’esistenza dell’associazione in sé considerata.

Fin dal Medioevo, e compiutamente con l’emersione dello Stato moderno, tuttavia, la pretesa punitiva del comportamento lesivo è stata sottratta alla persona offesa e attratta esclusivamente allo Stato. Sarà dunque questi, a mezzo del Pubblico Ministero, ad esercitare l’azione penale, essendo vietato alla persona offesa di farsi giustizia da sé, di vendicarsi privatamente del torto subito: l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni è anzi punito come reato dagli artt. 392 e 393 c.p.

Tuttavia, la persona offesa gode di taluni diritti e facoltà all’interno del processo penale, che, giusto l’art. 91 c.p.p., sono esercitati da enti o associazioni senza scopo di lucro ove il reato leda beni collettivi e non persone fisiche determinate.

In primo luogo, in taluni casi è rimessa alla volontà della persona offesa la procedibilità stessa del reato. Infatti, se la maggior parte dei reati è procedibile d’ufficio, ossia il P.M. ha l’obbligo di esercitare l’azione penale indipendentemente dalla volontà della persona offesa, altri reati sono perseguibili solamente ove questa manifesti, a mezzo di querela, la volontà che il colpevole sia punito. Si badi al proposito che non basta che la persona offesa faccia pervenire all’Autorità Giudiziaria la notizia del reato, ma questa deve essere corredata dalla espressa volontà che il reato sia perseguito. Il diritto di querela deve essere esercitato nel termine di tre mesi, elevato a sei per taluni reati, come quelli sessuali, ove la vittima sia particolarmente vulnerabile. Si precisa, in ogni caso, che l’azione penale è pur sempre esercitata dal Pubblico Ministero e la querela è una mera condizione di procedibilità.

La procedibilità a querela può essere giustificata per due diverse rationes. In primo luogo, talune ipotesi di reato sono perseguibili a querela in quanto consistono in una offesa lieve e bagatellare, tale da escludere l’interesse punitivo dello Stato se non vi è richiesta della persona offesa. Si pensi, per esempio, al reato di invasione di terreni ed edifici ex art. 633 c.p.: l’occupazione di un terreno in sé non è tale da giustificare l’azione penale, se non richiesta dalla persona offesa, ed è dunque procedibile a querela; diventa invece perseguibile d’ufficio, in quanto maggiormente offensiva, allorquando commessa con modalità tali da ledere lo stesso ordine pubblico, quali la riunione di più di dieci persone, o più di cinque se una è palesemente armata.

Il legislatore ha invece rimesso la perseguibilità di altri reati alla querela della persona offesa per evitare che la necessaria pubblicità del processo penale sia mezzo per rinnovare e aggravare l’offesa. Si pensi, per esempio, al delitto di diffamazione, rispetto al quale il processo potrebbe essere mezzo per ulteriormente diffondere l’espressione offensiva. Si pensi, ancora ai reati sessuali, rispetto ai quali lo strepitus fori non solo richiamerebbe nella mente della vittima il ricordo del reato, ma diffonderebbe nel pubblico una notizia inerente alla sfera intima. Tuttavia, in questi casi, la querela è talvolta irrevocabile, come per la violenza sessuale (art. 609-septies c.p.), talaltra revocabile in via giudiziale, ossia previo vaglio del Giudice circa la sua spontaneità, come nel caso degli atti persecutori (art. 612-bis c.p.).

Il codice di procedura penale prevede, poi, altri poteri d’impulso in capo alla persona offesa: nell’ambito delle indagini preliminari, essa può chiedere al Pubblico Ministero di promuovere un incidente probatorio (art. 394 c.p.p.), può opporsi alla richiesta di archiviazione (art. 410 c.p.p.), può sollecitare la Procura Generale ad avocare le indagini in caso di inerzia della Procura presso il Tribunale (art. 413 c.p.p.). In ogni stato e grado del procedimento, escluso il Giudizio di legittimità, la persona offesa può indicare elementi di prova (art. 90 c.p.p.); in caso di assoluzione dell’imputato, la persona offesa può presentare motivata richiesta al P.M. di impugnare la sentenza (art. 572 c.p.p.).

Al fine di poter esercitare i suoi diritti, la persona offesa è destinataria di diversi avvisi, come, per esempio, della richiesta di archiviazione, se ne ha fatto richiesta (art 408 c.p.p.), dell’espletamento di accertamenti irripetibili (art. 360 c.p.p.) o della richiesta di proroga del termine delle indagini preliminari (art. 406 c.p.p.).

L’art. 90-bis c.p.p., inoltre dispone che, fin dal primo contatto con l’autorità procedente, la persona offesa sia avvisata dei propri diritti, come, per esempio, della possibilità di avvalersi di un difensore, delle misure di protezione eventualmente previste, della possibilità di ottenere informazioni circo lo stato del procedimento.

Sempre al fine di consentire alla persona offesa di esercitare i suoi diritti, l’art. 101 c.p.p. le conferisce la facoltà di nominare un difensore, eventualmente a spese dello Stato (art. 98 c.p.p.).

Sulla spinta del diritto europeo, maggiore attenzione è prestata alla vittima vulnerabile, condizione da valutarsi “oltre che dall’età e dallo stato di infermità o deficienza psichica, dal tipo di reato, dalle modalità e circostanze del fatto per cui si procede” (art. 90-quater c.p.p.). Espressione della rinnovata attenzione alla vulnerabilità della vittima è la nuova previsione di cui all’art. 392 co. 1-bis c.p.p., che consente l’audizione in incidente probatorio della persona offesa minorenne o maggiorenne vulnerabile quando si proceda per determinati reati, lesivi della libertà personale o della sfera sessuale. L’incidente probatorio è istituto sorto per ovviare alla rigida separazione fra indagini preliminari e dibattimento propria del nuovo rito, onde consentire l’acquisizione al fascicolo del dibattimento di una prova costituenda, quando vi sia pericolo che essa non sia rinnovabile dinnanzi al Giudice del dibattimento. Oggi, però, detto istituto viene utilizzato anche con finalità diverse: si considera infatti che la testimonianza è lesiva per il recupero psicologico della vittima, che è chiamata a ricordare il reato subito: dunque, è preferibile che la persona offesa vulnerabile sia chiamata un’unica volta a deporre, conferendo efficacia probatoria alla sua testimonianza per tutto il corso del procedimento. Per fare ciò, la forma più adatta è quella dell’incidente probatorio, che, svolto in contraddittorio e alla presenza di un Giudice terzo (GIP), circonda la prova di (quasi) tutte le garanzie del dibattimento.

Anche il codice sostanziale è attento oggi alla vulnerabilità della persona offesa nel processo: si veda per esempio il nuovo art. 734-bis c.p., che punisce con l’arresto da tre a sei mesi chi diffonda le generalità o l’immagine di una vittima di reati sessuali.

La persona offesa può patire un danno dal reato subito. Infatti, qualunque reato è anche un fatto illecito civile ex art. 2043 c.c. e, anzi, l’art. 185 c.p. dispone che è dovuto il risarcimento dei danni non patrimoniali, integrando quindi la riserva di legge per questi prevista dall’art. 2059 c.c. Si ponga mente, per esempio, al reato di lesioni ex art. 582 c.p.: esso non solo consiste in una violazione pubblicistica, ma arreca anche un danno al ferito, consistente nelle spese sostenute per le cure, nelle occasioni di lucro mancate a causa della infermità, oltre alla sofferenza dovuta alla lesione del diritto alla salute e all’infermità fisica (danno biologico).

Tuttavia, persona offesa e danneggiato non necessariamente coincidono: se la persona offesa è il soggetto titolare del bene protetto, danneggiato è chiunque patisca una diminuzione patrimoniale eziologicamente riconducibile in via immediata e diretta al fatto illecito. Tipico esempio è l’omicidio: persona offesa è l’ucciso, che, però, stante l’irrisarcibilità del danno tanatologico, non subisce danno (diverso sarebbe a dirsi con riguardo al danno terminale e a quello catastrofale); danneggiati sono i parenti, che perdono il reddito del defunto e subiscono sofferenza risarcibile, ma non sono i soggetti lesi.

Di fronte a reati che ledono beni collettivi, la giurisprudenza sempre più considera soggetti danneggiati le associazioni che nel loro statuto abbiano la protezione del bene leso, ammettendo che esse esercitino l’azione civile di danno: per esempio, nei processi per il reato di cui all’art. 416-bis c.p., è ammessa la costituzione di parte civile delle associazioni antimafia, che vedrebbero leso dal reato il bene che statutariamente intendono perseguire.

Dunque, di fronte al reato si stagliano le prospettive dell’azione penale, per la punizione pubblicistica, e dell’azione civile, per il risarcimento privatistico. Nella storia, si sono presentati diversi modelli di interazione fra le due azioni. Un primo, tipicamente europeo, ritiene l’azione penale prevalente e dunque rimette la decisione sul risarcimento civile esclusivamente all’esito del processo penale. Un secondo, tipicamente americano, ritiene le due giurisdizioni del tutto separate, rimettendo la decisione sui capi penali e civili a due giudizi diversi, anche in potenziale contrasto fra loro: famoso è il caso di O.J. Simpson, assolto in sede penale e condannato in sede civile.

Il codice di rito del 1989 adotta un modello intermedio, che consente di tenere distinti i giudizi, o di esercitare l’azione civile all’interno del processo penale (c.d. costituzione di parte civile).

I rapporti fra le due azioni sono regolati dall’art. 75 c.p.p., che dispone che la domanda civile possa essere trasferita nel processo penale fino a quando non sia decisa con sentenza, anche non passata in giudicato, altrimenti prosegue in sede civile; se la domanda è proposta dopo la costituzione di parte civile, il processo civile resta sospeso fino al passaggio in giudicato della sentenza penale.

In seguito alla costituzione di parte civile, il giudice penale dovrà statuire dunque non solo sulla responsabilità penale dell’imputato, ma anche sulla domanda, spiccata nei suoi confronti, di risarcimento del danno. Per vero, ove le leggi civili statuiscono che il risarcimento è dovuto da soggetto diverso dall’autore dell’illecito, anche questo “responsabile civile” dovrà essere citato nel processo penale. È questo il caso del reato commesso da un dipendente nell’esercizio della sua attività lavorativa: stante la personalità della responsabilità penale la punizione dovrà essere irrogata esclusivamente nei suoi confronti, mentre responsabile per il risarcimento civile sarà il “padrone o committente” ai sensi e per gli effetti dell’art. 2049 c.c.

Non è tuttavia ammessa costituzione di parte civile in un processo per responsabilità dell’ente ex d.lgs. 231/01, divieto giudicato non incompatibile con le normative europee sul risarcimento dei danni da reato, atteso che la responsabilità dell’ente ha natura amministrativa ed è sufficiente il risarcimento dovuto dalla persona fisica responsabile del reato.

Il Giudice penale, dunque, deve statuire, unitamente ai capi penali, anche sul risarcimento del danno. Eccezione a ciò è costituita dall’art. 578 c.p.p., a mente del quale il Giudice dell’appello, ove dichiari il reato estinto per amnistia o intervenuta prescrizione, deve comunque giudicare l’impugnazione ai soli effetti civili: dunque, vi può essere un procedimento penale volto esclusivamente a decidere il risarcimento civile. Questa norma è stata ritenuta eccezionale e di stretta interpretazione. Recentemente, infatti, si è posto il problema delle sorti del giudizio penale in seguito alla trasformazione di taluni reati in illeciti civili ex d.lgs. 7/2016. Infatti, il decreto nulla statuiva sulla sorte dei giudizi penali già incardinati, se essi dovessero proseguire per la statuizione sui soli capi civili o dovessero estinguersi per abolitio criminis: le Sezioni Unite hanno ritenuto che l’art. 578 c.p.p. è, appunto, eccezionale, e rappresenta l’unico caso in cui un processo penale può proseguire ai soli fini civili: dunque, giusto il silenzio del decreto sul punto, non è applicabile analogicamente l’art. 578 c.p.p. e, quindi, le domande avanzata per i reati poi depenalizzati ex d.lgs. 7/2016 devono essere trasferite in sede civile.

Nel caso in cui i processi penale e civile siano rimasti separati, si pone il problema dell’efficacia in sede civile del giudicato penale. L’art. 651 c.p.p. a tal proposito statuisce che la sentenza penale fa stato nel giudizio civile quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso. Dunque, la sentenza di condanna fa stato nel processo civile.

Diverso a dirsi per la sentenza di assoluzione. Essa non fa stato nel giudizio civile, in quanto i presupposti della condanna penale e di quella civile sono diversi e, dunque, l’insussistenza del reato non necessariamente implica assenza di responsabilità civile.

Innanzitutto, diverso è l’elemento psicologico richiesto: l’illecito civile è colposo e, talvolta, oggettivo, mentre l’illecito penale, salve ipotesi eccezionali e tassative, è necessariamente doloso. Così, per esempio, chi per sbaglio all’aeroporto prenda una valigia altrui sarà tenuto a restituirla al proprietario e a risarcirgli il danno, mentre verrà assolto dall’ipotesi di furto per mancanza di dolo.

Inoltre, diverso è l’onere probatorio richiesto, in modo particolare in punto nesso eziologico. L’art. 533 c.p.p., infatti, impone che la condanna segua all’accertamento della responsabilità penale “oltre ogni ragionevole dubbio” e, dunque, il nesso di causalità sia provato secondo regole statistiche certe o, in caso di leggi meramente probabilistiche, secondo “un elevato grado di credibilità razionale” (sentenza Franzese). Per converso, nel civile è richiesta la sola prova che “è più probabile” che il danno sia stato cagionato dal convenuto rispetto a che non sia stato da questi arrecato. Infatti, il processo civile non si occupa di libertà personale, ma di allocazione economica delle conseguenze dell’illecito e, dunque, impone il risarcimento, ossia il rischio, a chi è più probabile che abbia arrecato il danno. Anzi, imporre al danneggiato attore una prova oltre ogni ragionevole dubbio vorrebbe dire allocare le conseguenze economiche su di lui fino a quando egli non riesca a soddisfare tale difficilissimo onere.

In sintesi, dunque, di fronte a un reato ricorre necessariamente un illecito civile e dunque il giudice civile è legato, nella statuizione sul risarcimento, alla declaratoria di responsabilità penale. Al contrario, l’insussistenza del reato ancora non vuol dire necessariamente che non vi sia responsabilità civile e, dunque, il Giudice, non obbligato a dar seguito al pronunciamento di assoluzione, ben potrà e dovrà autonomamente valutare la ricorrenza della responsabilità civile.