Il principio di legalità costituisce un principio cardine del nostro sistema penale ed è quel principio per cui nessuno può essere punito per un fatto non previsto come reato dalla legge in vigore nel momento in cui lo ha commesso. A livello di normativa interna, tale principio si ritrova all’art. 25 co 2 Cost., agli artt. 1 e 199 c.p. con riferimento, rispettivamente, alle pene e alle misure di sicurezza, nonché all’art. 1 della legge n. 689/1981, per quanto riguarda le sanzioni amministrative. Giova evidenziare che a livello costituzionale non è espressamente riconosciuta la legalità della pena: l’art. 25 co 2 dispone che “nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso”; la clausola “e con la pena da essa prevista” è stata espunta dal testo definitivo per paura che potesse impedire l’applicazione retroattiva della lex mitior ex art. 2 co 2 c.p.. Nonostante la formulazione della disposizione costituzionale, deve intendersi implicitamente enunciato anche il principio della legalità della pena, non potendo, altrimenti, operare il fondamentale corollario consistente nella funzione rieducativa della stessa, ex art. 27 co 3 Cost.. A maggior ragione, si consideri che, se con riferimento al precetto si discute se si debba parlare di riserva di legge relativa, assoluta o tendenzialmente assoluta, con riferimento alla pena si tratta certamente di una riserva di legge assoluta. A livello europeo, il principio di legalità si ritrova all’art. 49 della Carta di Nizza del 2000 (C.D.F.U.E.)  e all’art. 7 della C.ED.U.. Il principio di cui in discorso può intendersi da un punto di vista formale o sostanziale e, a seconda dell’interpretazione scelta, deriverà una nozione formale o sostanziale del reato. In virtù della concezione formale, il reato è il comportamento descritto come tale dalla norma penale; il fondamento di tale indirizzo ha, comunque, natura materiale e consiste nel favor libertatis, ossia nella garanzia di non poter essere  giudicati per aver commesso un fatto che, seppure potenzialmente antigiuridico o antisociale, non era previsto come reato dalla legge vigente al tempo in cui lo ha commesso. Diversamente, ai sensi della concezione sostanziale, si considera reato quel comportamento avvertito come antigiuridico o antisociale in un determinato tempo e in un determinato luogo, a prescindere da una formale previsione normativa; secondo tale concezione, il giudice dovrebbe farsi interprete dell’interesse dello Stato. Tale modo di considerare il reato permetterebbe, certamente, di evitare che ci si possa giovare delle lacune del diritto penale, ritagliandosi spazi di impunità tali da consentire l’inquisizione per fatti che, nonostante siano ancora previsti dalla legge come reati, non siano più avvertiti come tali dalla coscienza sociale; tuttavia, la concezione sostanziale, attribuendo un’eccessiva discrezionalità all’interprete, si allontana dal parametro di certezza del diritto, che caratterizza il vigente ordimento penale, insieme al principio di legalità. Dalla lettura della Costituzione italiana emerge una nozione di legalità non pienamente formale ma mista; costituisce reato solo un fatto previsto come tale dal legislatore, ma il legislatore, a sua volta, incontra dei limiti, non potendo qualificare ogni condotta come reato. Infatti, se da un lato, costituisce reato solo ciò che è definito tale  per legge, quest’ultima non può far assurgere a  reati  fatti per i quali la collettività non  percepisca un concreto disvalore sociale; i limiti si ritrovano nello stesso testo costituzionale, e consistono nel principio di offensività, in quello di materialità, di personalità della responsabilità penale e della funzione rieducativa della pena.

Poste tali premesse circa la nozione generale del principio di legalità, possono citarsi, come corollari dello stesso, il principio di riserva di legge, il principio dell’irretroattività della legge penale sfavorevole e quello di determinatezza.

Con espresso riferimento al principio di determinatezza, ci si è domandati quale sia il grado di determinatezza della norma necessario per soddisfare il principio di legalità in modo da consentire all’interprete un’applicazione costituzionalmente orientata della legge penale. A tal proposito, si è ritenuto che una norma penale possa definirsi determinata nel momento in cui individua con chiarezza i limiti nei quali deve esplicarsi la discrezionalità tecnica dell’interprete. La norma deve essere espressa in modo da far comprendere, almeno in modo generale, al privato cittadino quelle che, in determinate circostanze concrete, saranno le conseguenze della sua condotta; infatti, ciò che è sufficiente è che in modo generale sia percepito il contenuto del precetto, potendo poi risultare utile l’intervento di un tecnico del diritto.

Come anticipato, il principio di determinatezza deve guidare anche l’operato del giudice penale; ponendogli limiti precisi nell’applicazione del divieto di analogia che, come è noto,  sussiste solo con riguardo alla materia penale, quale ricaduta concreta del principio di determinatezza L’analogia è l’istituto per cui, in mancanza di una sufficiente regolamentazione, si possono applicare ad una determinata fattispecie le disposizioni concernenti una fattispecie simile (analogia legis) o i principi generali caratterizzanti l’ordinamento (analogia iuris). All’art. 14 delle preleggi è dettato il divieto di analogia per le leggi penali e per le leggi speciali. Proprio tenendo in considerazione il principio di determinatezza del diritto penale, può comprendersi la ragione del detto divieto; infatti, se l’interpretazione estensiva del precetto (ammessa anche in materia penale) determina la ricerca di tutti i significati che possono derivare dal testo della norma, invece, l’interpretazione analogica comporta l’applicazione di norme che non potrebbero farsi derivare direttamente da testo normativo. A nulla varrebbe formulare le disposizioni in modo chiaro se poi, analogicamente ed in modo inaspettato, vi si potessero sovrapporre criteri interpretativi inerenti norme diverse. Tuttavia, in ossequio al favor rei e al principio dell’applicazione della norma più favorevole al reo, è possibile ammettere la possibilità di un’interpretazione analogica in bonam partem, seppure con specifiche limitazioni. Si è osservato, a tal proposito, che, in base a quanto disposto dall’art. 14 delle preleggi circa l’applicazione delle norme penali (così testualmente: “ le leggi penali e quelle che fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi non si applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati), per “leggi penali”,  potrebbero considerarsi solo le norme incriminatrici, ossia quelle su cui si fonda la previsione di un reato o di una sanzione e non, invece, le norme poste a favore dell’imputato. Non mancano, comunque, le opinioni di coloro che ritengono che anche con l’analogia in bonam partem si finirebbe per conferire un eccessivo potere discrezionale al giudice penale. In ogni caso, pur accogliendo la tesi favorevole all’analogia in bonam partem, si è osservato che questa deve operare nel rispetto dell’eadem ratio dell’incriminazione e del divieto di analogia riferito alle norme eccezionali dal medesimo art. 14 preleggi. Inoltre, non si può utilizzare il ragionamento analogico per colmare una lacuna volontariamente lasciata dal legislatore. Con riferimento al secondo limite di cui all’art. 14 delle preleggi, ossia quello concernente le leggi speciali, non è mancato chi, pur superando il divieto assoluto di analogia in materia penale, ha escluso l’applicazione analogica delle scriminanti (ex art. 59 c.p.), in considerazione del carattere eccezionale delle stesse. La tesi prevalente in dottrina è, comunque, quella per cui le scriminanti, lungi dal derogare alle norme penali, rappresentano principi generali che permeano l’ordinamento.  Un fatto antigiuridico in sé, perde le sue caratteristiche di liceità in presenza di una causa di giustificazione, ragione per cui la norma istitutiva della scriminante non può affatto considerarsi eccezionale o speciale, avendo, al contrario, portata generale in relazione a qualsivoglia fattispecie criminosa.

Gli esempi per cui la giurisprudenza è intervenuta sul tema dell’analogia sono molteplici: si pensi, a titolo esemplificativo, al problema dell’estensione dei reati di cui agli artt. 57-58-bis -concernenti il mancato controllo degli articoli pubblicati da parte del direttore del periodico- anche ai quotidiani on-line; tale estensione è stata esclusa dalla recente giurisprudenza in quanto si tratterebbe di un’estensione analogica in malam partem della disciplina penale.

Si è particolarmente contestata l’osservanza dei principi di legalità e di divieto di analogia con riferimento alla fattispecie di cui all’art. 612-bis c.p. (“Atti persecutori” o stalking), introdotta nel 2009 ed ulteriormente modificata negli anni successivi.  La fattispecie in esame costituisce un reato di durata (in particolare, abituale), a forma libera e ad evento naturalistico, caratterizzato dalla realizzazione in capo alla vittima di uno stato di ansia o di timore, tale da determinare il cambiamento delle sue abitudini di vita. Un primo punto di criticità è stato sollevato proprio dal carattere di reiterazione che deve caratterizzare le condotte di molestie e minacce menzionate all’art. 612-bis (si punisce “chiunque con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno (…)”); la reiterazione rappresenta un elemento costitutivo del delitto di atti persecutori, in quando le molestie e le minacce rilevano ex se anche se poste in essere singolarmente o, al più, legate da un nesso di continuazione; ciò che caratterizza, invece, la condotta di cui all’art. 612-bis è proprio la natura persecutoria, ossia reiterata della stessa. Si è osservato in giurisprudenza che per i reati abituali -tra cui lo stalking– la reiterazione non corrisponde del tutto alla ripetizione delle condotte, in quanto, le stesse, oltre ad avere una connotazione quantitativa, devono presentare anche un aspetto qualitativo: l’intento persecutorio deve costituire un quid pluris che conferisce ai reati abituali una maggiore offensività. Tuttavia, con riferimento allo stalking la giurisprudenza ha spesso considerato solo l’aspetto quantitativo della reiterazione, ritenendo così che, al fine di integrare il presupposto in questione, non sarebbe stata sufficiente un’esigua ripetizione delle condotte di minaccia o molestia. In particolare, al fine di accertare il requisito della reiterazione, si è suggerito il ricorso ad un’indagine ex ante -propria dei delitti tentati o dei reati di mera condotta-. La fattispecie di cui all’art. 612-bis c.p., pur costituendo un reato ad evento naturalistico, si sarebbe, mediante l’esposto modus operandi, convertito in un reato di mera condotta, per il tramite di un’interpretazione analogica, esclusa, per le dette ragioni, in materia penale. Il problema riveste non poco rilievo. Infatti, lo stato di ansia o di paura o il cambiamento delle abitudini di vita costituiscono eventi apprezzabili, nella maggior parte dei casi solo soggettivamente e  appaiono  all’interprete spesso penalmente irrilevanti, ragione per cui, in un’ottica garantistica, volta a limitare il sindacato discrezionale del giudice penale, il requisito dell’alta lesività della condotta criminosa (caratterizzata da un quid pluris rispetto al reato di continuato di molestie) permetterebbe l’applicazione di un’interpretazione analogica in bonam partem. Va però tenuto presente che una tale modalità interpretativa potrebbe portare a conseguenze estranee al dettato normativo dal momento che le condotte criminose potrebbero – se reiterate e caratterizzate da alta  capacità lesiva –  sembrare insufficienti ad integrare la fattispecie di cui all’art. 612-bis  anche nelle ipotesi in cui l’evento (o gli eventi) previsti dalla norma stessa si siano, invece, in concreto verificati. E’ parso, quindi, più appropriato svolgere un’indagine ex post con riferimento alle caratteristiche effettive della condotta, alla sua incisività e, in particolare, alla sua idoneità a raggiungere i risultati tipizzati all’art. 612-bis c.p.. Si è arrivati, in tal modo, a sostenere che, talvolta, anche solo due condotte possono integrare il presupposto della reiterazione degli atti; altre volte, invece, anche più condotte non integrerebbero tale requisito, mostrandosi, comunque, inidonee al raggiungimento degli eventi finali tipizzati.

Altra criticità deriva dalla natura di reato a forma libera propria della fattispecie di stalking, per cui si era sollevato il dubbio di violazione del principio di tassatività dell’art. 612-bis, in quanto la fattispecie avrebbe potuto essere integrata da numerose e differenti condotte. Tuttavia, grazie al  ragionamento di cui si è detto, la giurisprudenza più recente, ha colto una fondamentale distinzione tra lo stalking e le fattispecie di cui agli artt. 660 e 612 c.p. (molestie e minacce).  In un primo tempo, si era proposto di estendere gli approdi giurisprudenziali raggiunti con riferimento alle due ipotesi di reato menzionate anche allo stalking, a fine di determinare il contenuto delle condotte atte di integrare la fattispecie; ma si è evidenziato che le condotte di cui all’art. 612-bis, a differenza da quelle di cui agli artt. 612 e 660 c.p., si caratterizzano per essere ripetute in modo reiterato così da determinare uno dei risultati espressamente previsti. Da ciò deriva che non è sufficiente l’integrazione dei requisiti richiesti per le ipotesi di molestie e minacce al fine di poter identificare la fattispecie di stalking, occorrendo, come elemento ulteriore, il nesso teleologico tra condotta reiterata ed evento. Se non si considerasse l’evidenziato tratto distintivo dello stalking rispetto alle fattispecie richiamate dalla medesima disposizione, si giungerebbe all’iniqua conseguenza di punire con una pena eccessivamente elevata chi in realtà realizza più condotte di cui agli artt. 612 e 660 c.p., per le quali potrebbe, al più, riconoscersi un nesso di continuazione.  Dopo aver osservato come la giurisprudenza più attenta si sia adoperata per evitare la violazione del divieto di analogia in malam partem nei confronti di chi non pone in essere le condotte effettivamente descritte all’art. 612-bis c.p., sembra opportuno richiamare la decisione con cui la Corte Costituzionale, nel 2014, ha rigettato la questione di illegittimità costituzionale sollevata in riferimento all’art. 612-bis c.p., in merito alla violazione del principio di determinatezza.   Dopo aver osservato che, successivamente alla presentazione dell’ordinanza di rimessione, l’art. 612-bis c.p. era stato modificato dalla Legge n. 119/2013 e, dunque, gli atti sarebbero comunque stati da restituirsi al giudice rimettente, la Corte ha disposto, nel merito, che il richiamo operato dalla norma agli artt. 612 e 660 c.p.  consente di definire la fattispecie criminosa in esame come ipotesi di chiusura della sezione dei delitti contro la libertà morale. Giova evidenziare che tale ragionamento non implica un’assimilazione tra le condotte di cui agli artt. 612 e 660 c.p. e quella di cui all’art. 612-bis c.p. -assimilazione che, come sopra evidenziato, è stata esclusa in quanto contrastante con il divieto di interpretazione analogica- ma, soltanto, costituisce la premessa per escludere che la fattispecie in interesse sia ritenuta in contrasto con il principio di determinatezza. In tale occasione sono derivati dalla Consulta preziosi insegnamenti in merito alla redazione ed all’interpretazione delle norme penali: si è sostenuto che la tecnica di redazione sintetica e non analitica della norma penale non si pone necessariamente in contrasto con il principio di determinatezza quando sia possibile un’interpretazione in via integrativa-teleologica. Non si parla, evidentemente, in tal caso di interpretazione analogica. Unendo tale riflessione con quella svolta in precedenza con riferimento al significato di reiterazione, deriva che il giudice dovrà operare in via induttiva, facendo derivare dall’evento tipico la condotta e accertando, poi, il nesso causale. Il problema della determinatezza delle condotte è traslato con riferimento alla determinatezza degli eventi. Trattandosi, per lo più, di stati interiori della persona offesa (“grave stato di ansia o paura (…), timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto (…) costringere ad alterare le propria abitudini di vita”) il giudice godrebbe di un’ampia discrezionalità nell’interpretazione degli stessi come conseguenza della condotta posta in essere. Salvo per il caso di mutamento delle abitudini di vita, per cui si può cogliere un parametro oggettivo su cui fondare il giudizio, verrebbe meno ogni aspetto oggettivo cui ancorare la valutazione. Secondo una parte della giurisprudenza, per accertare gli stati di ansia e di timore si sarebbero dovuti prendere in considerazione solo gli stati patologici, ma ciò avrebbe comportato il rischio di una ripetizione della fattispecie di lesioni Si sarebbe, dunque, potuto applicare il più grave trattamento sanzionatorio previsto per lo stalking nel caso di integrazione della condotta di cui all’art. 582 c.p., violando in tal modo il divieto di interpretazione analogica in malam partem.  Allora, come riconosciuto anche dalla Consulta nel 2014, al fine di soddisfare il principio di determinatezza della norma anche in fase interpretativa,  il giudice dovrà analizzare di volta in volta gli eventi di cui si è detto, con riferimento alle circostanze del caso concreto. Il problema concernente l’individuazione degli eventi riguarda indirettamente anche l’accertamento dell’elemento soggettivo, in quanto, se per il reato di atti persecutori, è richiesto un dolo generico, questo comprende, comunque,  la rappresentazione, da parte dell’agente, delle conseguenze che dalla propria condotta potrebbero derivare a danno della persona offesa. Ciò potrebbe, da un lato, favorire una maggiore discrezionalità valutativa dell’interprete, in quanto non sarebbe agevole fornire una prova certa dell’intenzione del reo di cagionare un determinato stato psicologico della vittima; ma, a ben vedere, dall’altro lato, andrebbe a selezionare le azioni dolose rilevanti ex art. 612-bis, riducendone il novero a quelle caratterizzate da un intento persecutorio, in modo da evitare improprie interpretazioni analogiche.

Con le leggi n. 119 e 193/2013 il legislatore è tornato ad occuparsi dei reati contro il femminicidio, in particolare dei cd. reati spia, ovvero quelle condotte spesso prodromiche rispetto a vere e proprie aggressioni, tra cui lo stalking; sono stati, in tal modo, modificati alcuni punti della fattispecie di cui all’art. 612-bis, fomentando ulteriori incertezze in tema di determinatezza. Un tema di particolare rilievo è quello della procedibilità; nella versione originaria, si prevedeva per lo stalking una procedibilità a querela, salvo per i casi di concorso con un reato procedibile ad ufficio o del fatto commesso nei confronti di una persona minore o con disabilità.  Con il nuovo comma 6 dell’art. 612-bis, il legislatore ha voluto intervenire in ambito di remissione di querela, ponendovi delle precise limitazioni volte a la libertà di autodeterminazione della persona offesa a mantenere ferma la querela,  anche in presenza di  eventuali pressioni esercitate dall’offensore. Si è disposto che la remissione della querela può essere solo processuale e che la querela non può mai essere rimessa “se il fatto è stato commesso mediante minacce reiterate nei modi di cui all’articolo 612, secondo comma”. Secondo la tesi dominante, la rimessione processuale, può avvenire, oltre che dinnanzi all’Autorità giudiziaria, anche di fronte alla polizia o per messo di procuratore speciale; in tal modo, sarebbe frustrato l’interesse del legislatore a far sì che il giudice possa verificare l’effettiva genuinità della volontà di rimettere la querela da parte della persona offesa. Si ha, dunque, un esempio in cui la scarsa determinatezza della norma comporta un’interpretazione, da parte delle Autorità chiamate ad applicarla, difforme rispetto a quella che era stata pensata originariamente dal legislatore, anche non va dimenticato come, trattandosi dell’esistenza di una condizione di procedibilità dell’azione penale, la sua sussistenza deve essere  oggetto di valutazione nell’ambito del processo penale.

Ancora, un dubbio concernete la nuova formulazione della fattispecie in parola si è posto con riferimento al rinvio al co 2 dell’art. 612 c.p. per intendere i casi in cui è stato sancito il divieto di remissione della querela. Ci si è domandati se si debba fare riferimento sia alle minacce reiterate e gravi sia a quelle di cui all’art. 339 c.p. o solo a quelle di cui all’art. 339 c.p., opzione, quest’ultima, che è stata sostenuta maggioritaria , in considerazione dei termini utilizzati dalla norma. È bene, comunque, evidenziare che optare per un’interpretazione piuttosto che per un’altra produce effetti sull’ambito di estensione del divieto di rimessione della querela.

In definitiva, dopo aver analizzato le diverse problematiche concernenti la fattispecie di cui all’art. 612-bis c.p., è evidente come il principio di legalità contenga dei fondamentali principi, come quello di determinatezza, rivolti in primo luogo al legislatore e altri, tra cui il divieto di analogia, che si rivolgono in modo specifico all’interprete; ne deriva che, solo congiungendo l’attività di redazione e di interpretazione della norma penale potranno evitarsi iniquità ed oscurità in una materia  che mira alla tutela dell‘integrità fisica e morale della persona, Nei casi in cui, come per l’art. 612-bis c.p., il legislatore abbia adottato una tecnica di redazione sintetica e potenzialmente aperta a numerosi contenuti, ancora di più i giudici dovranno riprendere i citati principi elaborati in materia di tipicità e divieto di analogia, al fine di porre in essere un’interpretazione conservatrice e, insieme, conforme ai principi garantistici che debbono permeare il sistema penale in uno Stato democratico.