La responsabilità medica si configura come un ambito del diritto assai ricco di nodi interpretativi e difficoltà applicative, sia in ambito penalistico che in ambito civilistico, anche alla luce delle recenti Riforme legislative succedutesi rispettivamente negli anni 2012 (c.d. Legge Balduzzi) e 2017 (c.d. Legge Gelli-Bianco).  Il campo dell’attività sanitaria si caratterizza per essere un settore del diritto particolarmente delicato, in quanto la professione medica si relaziona con il valore assoluto e incomprimibile previsto dall’art. 32 della Costituzione, ossia il diritto alla salute. In questo settore, infatti, vi è una generale difficoltà che attiene al bilanciamento, da un lato, della necessità di evitare la costituzione di aree di ingiustificato privilegio per coloro che esercitano tale professione, dall’altro, di impedire la diffusione del fenomeno della c.d. medicina difensiva,  che, come è noto, si sostanzia nell’agire, da parte del sanitario, non per conseguire il migliore risultato per la salute del paziente, bensì per evitare un’esposizione personale a qualunque responsabilità.

In particolare, quanto al versante penalistico, pare opportuno soffermarsi, dopo aver accennato alla problematicità della verifica del rapporto causale in ambito medico-chirurgico ed alla categoria della colpa c.d. professionale, sull’evoluzione della relativa disciplina anche a seguito degli interventi normativi e giurisprudenziali principiati con l’introduzione dell’art. 3 D.L. 158/2012 e culminati con la più recente L. 24/2017.

Quanto, invece, al versante civilistico, si darà conto della differente accezione della causalità e ci si soffermerà, altresì, sul mutamento di regime di responsabilità avutosi con l’avvento delle Riforme citate.

In ambito penale, occorre innanzitutto partire dalla nozione di causalità: nel nostro ordinamento giuridico, infatti, la fattispecie di un reato commissivo di evento ricomprende, tra i suoi elementi costitutivi, il nesso di causalità che lega l’azione all’evento medesimo. E’ quanto espressamente richiesto dall’art. 40 c.p., il quale sancisce che, per dirsi integrata una fattispecie di reato, occorre verificare la presenza nel fatto storico di un rapporto causale; tale rapporto causale (detto anche nesso eziologico) può dirsi integrato – sia nell’ipotesi commissiva che in quella omissiva, secondo il testuale disposto della norma che equipara le due condotte sotto il profilo strettamente eziologico – quando sussista, per l’appunto, un nesso che leghi la condotta all’evento.  La norma esaminata non fornisce, tuttavia, ulteriori indicazioni idonee a far comprendere il significato di causalità, né ad individuare il criterio di accertamento della stessa.

Tra le varie teorie dottrinali che si sono sviluppate nel corso del tempo e che hanno tentato di dare contenuto alla norma espressa dall’art. 40 c.p., si ricordano dapprima le teorie c.d. naturalistiche, fra le quali vi è  certamente quella c.d. condizionalistica o della condicio sine qua non o della equivalenza delle cause; secondo tale teoria, una condotta è causa di un evento se eliminando mentalmente la condotta viene meno anche l’evento (c.d. giudizio controfattuale). Le principali obiezioni a tale teoria – tra cui si ricorda altresì l’argomento del regresso all’infinito – facevano leva sul fatto che la teoria della condicio sine qua non consisterebbe solamente in un procedimento logico e, per funzionare, richiederebbe che si conoscesse la legge scientifica in base alla quale una determinata condotta provoca un determinato evento.

Tali teorie furono seguite da quelle che attribuivano, invece, un ruolo centrale all’intuito del giudice procedente (quella c.d. individualizzante, poi temperata dalla teoria della c.d. generalizzazione del senso comune), fino ad arrivare all’affermazione della necessità di avere leggi scientifiche di copertura.  Infine, si è avuta l’elaborazione della teoria poi accolta dalla celebre sentenza delle Sezioni Unite Franzese (2002) che – rifiutando ogni automatismo tra livello di probabilità statistica, anche altissima, e quanto accertato in via giudiziale – ha affermato la necessità di verificare, nel caso concreto hic et nunc, la validità della legge scientifica ritenuta applicabile al caso di specie.

Ferma la breve ricostruzione appena offerta, occorre tenere presente che, con l’evoluzione tecnologica e scientifica, l’indagine relativa alla sussistenza del nesso di causalità ha acquisito con il tempo caratteristiche diverse e presenta, oggi, le più evidenti problematiche proprio nel settore medico chirurgo. Molto spesso, infatti, risulta assai complesso ricostruire se un determinato evento, come per esempio una patologia o una infermità, si sia verificato come conseguenza dell’una o dell’altra causa, ovvero di entrambe.  In particolare, quando si accerta che un determinato fatto è conseguenza diretta di due o più cause, ovvero che ad una causa principale ne precede, segue o se ne affianca, una o più di una si parla tecnicamente di “concause”. L’individuazione di un criterio univoco di accertamento del rapporto causale, anche in presenza di concause, pone dei problemi applicativi anche con riguardo al successivo art. 41 c.p. che, se ai commi 1 e 3 sembra confermare la vigenza, nel nostro ordinamento della teoria condizionalistica, al comma 2 afferma che le concause sopravvenute ad una precedente azione, che siano da sole sufficienti a cagionare l’evento, sono idonee a interrompere il nesso causale e ad essere considerate loro stesse causa dell’evento in questione. Sul punto, superata la teoria della c.d. serie causale del tutto autonoma, la dottrina anche internazionale, con lo scopo di evitare che eventi eccezionali venissero considerati cause dell’evento, ha elaborato le note teorie della “causalità adeguata” e della “causalità umana”, le quali, tuttavia, non sono risultate prive di obiezioni.

In tema di concause, infatti, la giurisprudenza più recente – proprio in tema di responsabilità medico-chirurgica – ha elaborato la teoria c.d. dell’”imputazione obiettiva dell’evento e dell’aumento del rischio”, in base alla quale un evento può essere considerato il risultato di una condotta attiva od omissiva di un soggetto per il solo fatto che la condotta abbia creato ovvero aumentato un pericolo giuridicamente non consentito. Accogliendo tale teoria,  a titolo di mera esemplificazione,  risulterà ascrivibile al soggetto agente che ha commesso il delitto di lesioni anche la morte della persona offesa a seguito di setticemia, quale conseguenza tipica derivante dalle lesioni personali; ma non anche la morte del medesimo soggetto in conseguenza di un incendio sviluppatosi nel reparto, in quanto realizzazione di un rischio diverso da quello collegato all’evento oggetto di causazione  iniziale (es. ferita).

Ebbene, oltre alla particolare difficoltà riscontrata nell’accertamento del nesso eziologico, un altro fattore peculiare della responsabilità del sanitario attiene all’atteggiarsi dell’elemento psicologico della colpa. Va, innanzitutto, riconosciuta la sussistenza della “colpa comune” in tutte le ipotesi in cui è individuabile in capo all’agente uno specifico dovere di comportamento.  Vi sono, però, altre situazioni – tra cui rientra certamente l’esercizio della professione medica – in cui il soggetto pone in essere un’attività utile sul piano sociale e, pertanto, consentita dall’ordinamento giuridico, malgrado la sua pericolosità; in tali ultime situazioni, si può configurare la c.d. colpa professionale. La “colpa professionale” consiste, dunque, nel superamento del rischio ammesso dalla collettività all’esito di un bilanciamento di costi e benefici dell’attività professionale e purché non vengano violate regole cautelari.

Ricostruite le modalità di accertamento del nesso causale nonché la nozione della c.d. colpa professionale, i problemi più spinosi attengono, tuttavia, alla qualificazione della responsabilità attribuibile all’attività professionale del medico. L’orientamento più risalente, nell’individuare le regole sottese all’accertamento della responsabilità medica, ha preso le mosse dalle norme civilistiche in tema di professioni intellettuali (art. 1176, c. 2, c.c.), nonché in tema di responsabilità del prestatore d’opera per la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà (art. 2236 c.c.), limitando la responsabilità penale del professionista sanitario ai casi di grossolana violazione delle più elementari regole cautelari, ovvero in presenza di errore inescusabile.  L’intervento della Corte Costituzionale con la sentenza 166/1973 che ha confermato l’applicabilità dell’art. 2236 c.c., circoscrivendo l’ambito all’errore tipicamente professionale, scaturito da un difetto di perizia e non di prudenza ovvero diligenza.

Più di recente, la dottrina e la giurisprudenza hanno aderito alla tesi secondo la quale la responsabilità del sanitario deve prescindere dalla nozione civilistica di inadempimento nell’esecuzione del rapporto contrattuale e hanno affermato la necessità di far discendere tale responsabilità dai criteri propri del diritto penale.

Orbene, in tale contesto, si sono innestate le due riforme legislative succitate.

Segnatamente, l’art. 3 del D.L. 158/2012 convertito nella L. 189/2012 (c.d. decreto Balduzzi) è intervenuto prevedendo che il sanitario, quando nello svolgimento dell’attività medica si attiene alle linee guida e buone pratiche accreditate nella comunità scientifica, non risponde penalmente per colpa lieve. Si è ritenuto, pertanto, che il decreto Balduzzi abbia dato luogo ad una abolitio criminis parziale degli artt. 589 e 590 c.p., avendo ristretto l’area dei fatti penalmente rilevanti alle sole ipotesi di colpa grave individuabili nel caso di violazione delle buone pratiche mediche   Ulteriore questione riguardava l’ambito applicativo della previsione ricordata: secondo un primo orientamento giurisprudenziale, infatti, la limitazione di responsabilità prevista dal decreto Balduzzi avrebbe operato soltanto per le condotte professionali conformi alle linee guida contenenti regole di perizia e non estendendosi anche ad errori connotati da negligenza ovvero imprudenza. Per la maggior parte della dottrina, invece, l’applicazione della legge Balduzzi doveva estendersi altresì ai casi di condotta del medico denotate da colpa lieve derivante da imprudenza e negligenza.

Ebbene, con il decreto Balduzzi le linee guida e le buone pratiche mediche – a condizione che fossero risultate accreditate nella comunità scientifica – assurgevano a parametro per il giudice per verificare l’eventuale sussistenza di colpa grave, essendo divenute penalmente irrilevanti le condotte caratterizzate da colpa solo lieve; con la conseguenza che, avendo la nuova normativa parzialmente decriminalizzato le fattispecie colpose descritte nel caso di colpa lieve, essa retroagiva favorevolmente e, secondo il tenore letterale della norma prevista dall’art. 2, c. 2, c.p., se vi fosse stata condanna, ne sarebbero cessati l’esecuzione e gli effetti penali.

Senonchè, il legislatore è nuovamente intervenuto ridisegnando l’area penalmente rilevante per gli operatori sanitari con la L. 24/2017, c.d. legge Gelli-Bianco. In via di prima approssimazione, si può affermare come la novella, da un lato, ha rafforzato ulteriormente il ruolo assegnato alle linee-guida, superando, dall’altro lato,  la distinzione tra colpa grave e colpa lieve mediante l’abrogazione dell’art. 3 del Decreto Balduzzi.

Segnatamente, l’art. 6 della legge citata ha inserito nel codice penale l’art. 590 sexies, rubricato “Responsabilità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario” che prevede che, se i fatti di lesioni od omicidio colposi sono commessi nell’esercizio dell’attività sanitaria, si applicano le pene previste, rispettivamente, dagli artt. 590 e 589 c.p., tranne che nel caso di cui al successivo comma 2.  Il comma 2, infatti, esclude la responsabilità del sanitario nel caso in cui l’evento si sia verificato per imperizia e siano state, tuttavia, rispettate le linee guida, da ritenersi adeguate alla specificità del caso concreto.

Risulta evidente, pertanto, che, rispetto al decreto Balduzzi, se da un lato non vi è più riferimento alla gradazione della colpa, dall’altro il fatto risulterà scusato in un più ristretto elenco di casi, ossia solo nei casi di imperizia e purchè siano state rispettate linee guida coerenti e adeguate al caso concreto.  Il dato normativo ha dato luogo ad interpretazioni contrastanti; una delle principali criticità è stata, infatti, quella relativa alla questione dell’imperizia. Parte della giurisprudenza ha infatti sottolineato profili di incompatibilità logica tra il fatto  connotato da imperizia  ed il fatto di aver comunque rispettato delle linee guida adeguate al caso di specie. Sul punto sono intervenute recentemente le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, le quali hanno chiarito la natura di causa di non punibilità del comma 2 dell’art. 590 sexies c.p., sottolineandone i confini applicativi: la Corte ha infatti chiarito che il presupposto dell’operatività della norma risiede nell’accertamento di un comportamento gravemente  imperito del sanitario, pur se rispettoso di linee guida adeguate.

Orbene, così chiarito l’ambito applicativo del neo introdotto art. 590 sexies c.p., è possibile coglierne i rapporti, in punto di successione di leggi nel tempo, con l’abrogato art. 3 del Decreto Balduzzi. Se, infatti, la legge previgente risultava più favorevole con riguardo ai casi di negligenza ed imprudenza lievi ed ai casi di imperizia lieve anche nella fase di scelta delle linee guida – così dovendo applicarsi ultrattivamente ai fatti commessi anteriormente all’entrata in vigore della Legge Gelli-Bianco – in ordine alle situazioni caratterizzate da imperizia lieve nella fase di attuazione delle linee-guida adeguate al caso di specie si apprezza una sostanziale continuità normativa, posto che in tale ultimo caso anche la legge Gelli esclude la punibilità del sanitario.

Infine, passando al versante civilistico, occorre ricordare, in primo luogo, come l’accertamento del nesso di causalità, soprattutto con riferimento all’attività medico-chirurgica, risulta  fortemente problematico  nel campo ora considerato. Nei giudizi civili, infatti, aventi ad oggetto il risarcimento del danno conseguente alla condotta colposa del sanitario, l’attore deve provare un duplice collegamento eziologico: tra condotta ed evento lesivo, c.d. danno-evento o causalità materiale (art. 2043 c.c.) e tra evento e conseguenze dannose, c.d. danno-conseguenza o causalità giuridica (art. 2056 c.c.).

Per l’accertamento del nesso di causalità giuridica non si sono registrati particolari problemi, essendo accolta uniformemente in dottrina la tesi secondo la quale l’art. 1223 c.c. si riferisce al criterio della c.d. regolarità causale o criterio dell’id quod plerumeque accidit. Più problematico è l’accertamento della c.d. causalità materiale, a fronte dell’assenza di specifiche disposizioni codicistiche. Sul punto sono intervenute le Sezioni Unite che hanno posto fine ad un ampio dibattito sorto in dottrina e giurisprudenza sulla necessità di utilizzare o meno, in ambito civilistico, i criteri penalistici per l’accertamento della causalità di cui alla sentenza Franzese. La richiamata pronuncia ha specificato che la prova della  causalità civile deve attestarsi su una soglia di probabilità meno elevata rispetto a quella penale, risultando sufficiente la verifica del “più probabile che non”.  Ancora, sul versante civilistico, con l’avvento nel nostro ordinamento della Legge Gelli-Bianco, è radicalmente mutata la qualificazione della natura della responsabilità del medico: ai sensi dell’art. 7 della L. 24/2017, infatti, la responsabilità del sanitario è di tipo extracontrattuale  mentre quella della  struttura di cura in cui avviene l’evento è di tipo contrattuale in base al  alla teoria del contatto sociale,  ragione per cui nel caso  di responsabilità solidale,  non potranno che essere diversificati gli oneri probatori incombenti sulle parti del giudizio.