Il patteggiamento (rectius applicazione della pena su richiesta delle parti) è un istituto, introdotto per la prima volta nell’ordinamento italiano dal Codice Pisapia-Vassalli, avente la precipua caratteristica di definire il procedimento penale prima della celebrazione del dibattimento mediante il raggiungimento di un accordo tra l’indagato/imputato e il pubblico ministero sulla specie e sulla misura della pena.
Tale istituto trova una puntuale disciplina negli artt. 444-448 del Codice di procedura penale, che ne mettono in luce la natura deflattiva e premiale.
Presupposto del patteggiamento è infatti la rinuncia, da parte della persona indagata e/o imputata, ad ogni ulteriore contestazione del reato ascrittogli dalla pubblica accusa, premiata dal legislatore con la riduzione fino ad un terzo della pena irrogabile in concreto per lo stesso.
In forza di questi elementi, il patteggiamento è stato equiparato dall’art. 445, co. 1-bis c.p.p. ad una pronuncia di condanna, seppur priva di efficacia nei giudizi civili o amministrativi.
In campo amministrativo, la sentenza di patteggiamento ha assunto indubbia rilevanza nel settore della contrattualistica pubblica, tanto da essere esplicitamente richiamata nell’art. 80, co. 1 del d.lgs. 50/2016 quale motivo di esclusione di un operatore economico dalla gara ove concernente i gravi delitti ivi richiamati alle lettere a), b), c), d), e), f), g) incidenti sulla moralità professionale dell’operatore.
Inoltre, la sentenza di patteggiamento ha avuto un ruolo significativo anche in altri procedimenti amministrativi, quali, l’adozione di un’informativa antimafia (art. 67, co. 8 del d.lgs. 159/2011) o di diniego al rilascio del porto d’armi (art. 43 T.u.l.p.s.).
Parimenti, si è consolidato in giurisprudenza l’orientamento per cui quando una norma presuppone l’esistenza di una condanna penale per l’adozione di un provvedimento amministrativo, ovvero per la preclusione all’esercizio di determinate facoltà o diritti, la sentenza di patteggiamento è da considerarsi avere uguale rilievo a quello delle sentenze dibattimentali.
A far vacillare la stabilità di quest’interpretazione è intervenuta la c.d. riforma Cartabia (d.lgs. 150/2022) che ha emendato profondamente il contenuto dell’art. 445, co. 1-bis c.p.p., prevendo segnatamente che: “La sentenza prevista dall’articolo 444, comma 2, anche quando è pronunciata dopo la chiusura del dibattimento, non ha efficacia e non può essere utilizzata a fini di prova nei giudizi civili, disciplinari, tributari o amministrativi, compreso il giudizio per l’accertamento della responsabilità contabile”, per poi aggiungere che: “Se non sono applicate pene accessorie, non producono effetti le disposizioni di leggi diverse da quelle penali che equiparano la sentenza prevista dall’articolo 444, comma 2, alla sentenza di condanna” e concludere infine: “salvo quanto previsto dal primo e dal secondo periodo o da diverse disposizioni di legge, la sentenza è equiparata a una pronuncia di condanna”.
La principale e non trascurabile differenza rispetto alla disciplina previgente concerne il fatto che, ad eccezione dell’ipotesi in cui siano state applicate delle pene accessorie, la sentenza di patteggiamento non possa in alcun modo essere equiparata a quella di condanna pronunciata all’esito del dibattimento o di altri riti speciali.
Una seconda e altrettanto significante peculiarità della novellata disposizione dell’art. 445, co. 1-bis c.p.p. riguarda il fatto che essa non indichi alcun regime intertemporale, trovando così applicazione indipendentemente dalla data in cui è stata pubblicata la sentenza di patteggiamento.
Tuttavia, rimane inteso che la portata della disposizione andrà comunque contemperata col principio del tempus regit actum, con la conseguenza che per i provvedimenti amministrativi emanati prima dell’entrata in vigore della novella (29.12.2022) continuerà ad essere valida la piena equiparazione del patteggiamento alle sentenze di condanna.
Venendo ad esaminare la normativa di dettaglio in tema di contrattualistica pubblica, di informativa antimafia e di diniego del rilascio del porto d’armi, occorre aggiungere quanto segue.Il nuovo Codice degli appalti (d.lgs. 36/2023), emanato nelle more della riforma Cartabia, ha formulato una disciplina delle cause di esclusione coerente con il nuovo ruolo della sentenza di patteggiamento, eliminando ogni riferimento ad essa nelle disposizioni relative alle cause di esclusione automatica, che nominano ora le sole sentenze definitive o i decreti penali di condanna divenuti irrevocabili (cfr. art. 94, co. 1 del d.lgs. 36/2023).
Ciononostante, la sentenza “non irrevocabile” di patteggiamento è utilizzabile, in forza del combinato disposto dall’art. 95, co. 1, lett. e) e dall’art. 98, co. 3, lett. g) e co. 6, lett. g) del d.lgs. 36/2023, quale mezzo di prova adeguato a dimostrare l’esistenza di un grave illecito professionale.
Quanto alla rilevanza della sentenza di patteggiamento “irrevocabile” il Codice degli appalti vigente è rimasto silente, non avendola contemplata né tra le cause di esclusione automatica né tra quelle non automatiche. Seppur essa non sia riportata nel testo dell’art. 98, co. 6, lett. g), il T.A.R. Lombardia – Brescia ha equiparato, in una recente pronuncia, quest’ultima alla sentenza di patteggiamento “revocabile”, dando un’interpretazione teleologica degli artt. 94 e 95 del d.lgs. 36/2023, sulla base della considerazione che la commissione del reato “patteggiato” non venga, in questo specifico caso, accertata con una sentenza avente efficacia di giudicato, ma resti meramente “contestata”, potendo così essere discrezionalmente apprezzata dalla stazione appaltante quale grave illecito professionale (cfr. T.A.R. Lombardia – Brescia, Sez. I, 3 marzo 2025, n. 166).
Con riferimento all’informativa antimafia, la giurisprudenza più recente ha affermato che, successivamente alla modifica dell’art. 445, co. 1-bis c.p.p., l’informazione interdittiva antimafia non può essere più ritenuta adeguatamente motivata con il mero richiamo della sentenza di patteggiamento, in quanto l’Amministrazione deve procedere ad un’autonoma valutazione dei comportamenti posti a base della vicenda penale ed indicativi di una possibile infiltrazione della criminalità organizzata.
Perché il provvedimento interdittivo sia legittimo occorrerà ora che l’Amministrazione compia una ricostruzione autonoma dei comportamenti posti a base della vicenda penale oggetto del patteggiamento, argomentando su come la stessa possa tradursi in una possibile attività d’infiltrazione da parte della criminalità organizzata, dal momento che la sentenza di patteggiamento, come si è detto, esaurisce ora i suoi effetti in ambito penalistico (cfr. T.A.R. Toscana – Firenze, Sez. IV, 23 dicembre 2024, n. 1538).
Da ultimo, con riferimento al diniego al rilascio del porto d’armi, l’art. 43 del T.u.l.p.s. stabilisce che non possa essere concessa la licenza di portare armi a chi abbia riportato “condanna” alla reclusione per delitti non colposi contro le persone commessi con violenza, ovvero per furto, rapina, estorsione, sequestro di persona a scopo di rapina o di estorsione, nonché “condanna” a pena restrittiva della libertà personale per violenza o resistenza all’autorità o per delitti contro la personalità dello Stato o contro l’ordine pubblico. Sino alla riforma dell’art. 445, co. 1-bis c.p.p. era pacifico che per “condanna” dovesse intendersi anche il patteggiamento. La giurisprudenza più recente ha invece assegnato un’interpretazione più coerente ed attuale del combinato disposto dagli artt. 43 T.u.l.p.s. e 445, co. 1-bis c.p.p., affermando che la valutazione della P.A. preliminare al rilascio del porto d’armi debba contenere una valutazione sulla personalità dell’interessato idonea a giustificare l’esigenza di prevenire abusi nell’uso delle armi a tutela della privata e pubblica incolumità e non possa più fondarsi sulla mera condanna tramite patteggiamento ad uno dei delitti ivi elencati. Ne deriva che, preso isolatamente, il patteggiamento non costituirà più un ostacolo al rilascio del porto d’armi, anche se rivolto ai reati menzionati dall’art. 43 T.u.l.p.s. (cfr. T.A.R. Toscana – Firenze, Sez. IV, 24 febbraio 2025, n. 295).
In conclusione, la sentenza di patteggiamento che non sia munita di pene accessorie resta priva di ogni autonoma rilevanza nell’ampio spettro del procedimento amministrativo, con l’effetto che la vicenda che ne costituisce l’oggetto necessiterà di un’integrale e ponderata valutazione da parte dell’Amministrazione che voglia utilizzare la medesima a supporto della motivazione del suo provvedimento.
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