Le Sezioni Unite della Cassazione con sentenza 16.7.2020 hanno risolto il contrasto interpretativo inerente il concetto di abuso di autorità contenuto nell’art. 609 bis c.p.. che, come è noto, punisce chi, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità, costringe taluno a compiere o a subire atti sessuali.

Il quesito posto alle S.U. è stato del seguente tenore:

Se, in tema di violenza sessuale, l’abuso di autorità cui all’art. 609, I comma c.p. presupponga nell’agente una posizione autoritativa di carattere formale o invece possa riferirsi a poteri di supremazia di natura privata di cui l’agente abusi per costringere il soggetto passivo a compier e/o subire atti sessuali.

La Corte, all’esito della decisione, ha sancito il seguente principio di diritto:

L’abuso di autorità cui si riferisce l’art. 609 bis, I comma c.p. presuppone una posizione di preminenza anche di fatto e di natura privata che l’agente strumentalizza per costringere il soggetto passivo a subire atti sessuali.

COMMENTO

Il caso sottoposto all’attenzione della Corte riguardava quello di un insegnante di inglese privato che aveva costretto due sue allieve, entrambe infraquattordicenni, a compiere o a subire atti sessuali approfittando della propria posizione di insegnante e comunque delle situazioni di tempo e di luogo che, in ragione della funzione espletata, gli consentivano l’intima frequenza con le ragazze.

Il principale argomento difensivo dell’imputato atteneva all’interpretazione della posizione autoritativa del soggetto, richiamata dalla norma penale, da intendersi, secondo l’imputato, in senso formale e pubblicistico, in mancanza della quale avrebbe dovuto trovare applicazione la diversa ipotesi residuale prevista dall’art. 609 quater c.p. Tale tesi aveva trovato affermazione in alcune Sezioni della Corte che si erano così poste in contrasto con altre che avevano, invece, sostenuto una differente linea interpretativa secondo le quali l’abuso di autorità, costituendo una modalità di consumazione del reato di cui all’art. 609 bis c.p., si riferisce ad ogni potere di supremazia anche di natura privata di cui il soggetto agente abusi per costringere il soggetto passivo a compiere o subire atti sessuali.

La Corte, nel richiamare i numerosi e contrastanti indirizzi in tema di violenza sessuale sul concetto di abuso di autorità, ha focalizzato la propria attenzione sul contenuto dell’aggravante di cui all’art. 61 n. 11 c.p. (la cui compatibilità con la violenza sessuale con abuso di autorità è stata peraltro ripetutamente riconosciuta) osservando che lo stesso si riferisce sia alle relazioni d’ufficio o di  prestazioni d’opera, tutte, situazioni che determinano una situazione di soggezione rispetto  a chi esercita l’autorità. Ha quindi concluso, prendendo spunto da quanto affermato nell’art. 608 c.p. che, laddove il legislatore abbia inteso indicare una posizione autoritativa formale, vi ha fatto esplicito riferimento.

La Corte ha poi osservato come le modalità della condotta criminosa specificate nel primo comma dell’art. 609 bis c.p. evidenziano, entrambe, l’esercizio di una “violenza costrittiva” attuata attraverso la sopraffazione della volontà della vittima. La posizione della persona offesa nei casi di abuso d’autorità è infatti una condizione di sudditanza materiale o psicologica. Ciò in quanto l’autorità si esplica attraverso un relazione caratterizzata dal fatto che colui che riconosce il potere dell’altro ne subisce, senza reagire, gli atti che ne derivano.

La Corte ha, comunque, rilevato che, ai fini della sussistenza della coartazione e quindi della violenza occorre dimostrare:

  1. La sussistenza oggettiva del rapporto autoritativo
  2. L’arbitraria utilizzazione di quel potere da parte del soggetto agente, dando anche conto dell’esistenza di una precisa correlazione tra l’abuso di autorità e la conseguente capacità di autodeterminazione della parte offesa.