Le cause di giustificazione o scriminanti, disciplinate dagli artt. 50 e ss. c.p., sono quelle situazioni che eliminano l’antigiuridicità del fatto e ostano all’applicabilità di qualsiasi tipo di sanzione. Tali esimenti hanno carattere oggettivo e si applicano a tutti i concorrenti della fattispecie criminosa, anche nell’ipotesi in cui l’agente non le conosca o le ritenga erroneamente inesistenti (art. 59 c.p.), purché la situazione scriminante sia tale da apparire “oggettivamente esistente” a un osservatore esterno, a prescindere dall’atteggiamento interiore dell’autore

Tuttavia, qualora l’agente ritenga per errore che esistano delle circostanze di esclusione della pena, queste sono valutate sempre a favore di lui (art. 59, co. 4 c.p.). Se tale errore poi è dovuto a colpa dell’agente o quest’ultimo ne ecceda colposamente i limiti fissati dalla legge o dall’ordine dell’autorità ovvero imposti dalla necessità, gli artt. 59 u.c. e 55 c.p. non escludono la punibilità, quando il fatto è previsto dalla legge come delitto colposo.

La dottrina prevalente distingue le esimenti dalle cause di esclusione della colpevolezza e dalle cause di esenzione della pena o cause di non punibilità. Le prime hanno carattere soggettivo e non fanno venir meno l’antigiuridicità, ma la sola colpevolezza; invece le cause di esenzione della pena o cause di non punibilità (ad. es. art. 649 c.p.), escludono l’applicazione di una pena per ragioni di politica criminale.

Secondo i sostenitori della teoria tripartita, le scriminanti, sia  generali che speciali ai sensi dell’art. 384 c.p., si atteggiano ad elementi positivi del reato, esterni ed ulteriori rispetto ad esso. Diversamente, i fautori della teoria bipartita considerano le scriminanti elementi negativi e interni ad esso, che escludono la tipicità di un fatto che sembrerebbe prima facie rientrare nella fattispecie astratta prevista dal legislatore.  Tale differente classificazione è sostanzialmente priva di rilevanza esterna dal momento che l’art. 530 c.p.p. impone al giudice di assolvere l’imputato in caso di dubbio (alla luce della locuzione “al di là di ogni ragionevole dubbio) in merito all’esistenza di una causa di giustificazione, a prescindere dalla mancata prova del fatto di reato (elemento negativo del fatto) o della scriminante (elemento positivo del fatto).

Discussa appare la questione inerente la configurabilità di  scriminanti tacite o non codificate,  in relazione alle quali parte della dottrina, seguita dalla giurisprudenza, ammette soltanto le scriminanti codificate, alla luce dei principi di legalità e tipicità, che impongono l’eccezionalità di tali  disposizioni,  non potendosi ritenere  lecito ciò che normalmente sarebbe illecito. All’opposto, taluni autori ritengono che le scriminanti tacite siano ammesse nel nostro ordinamento, anche se questo è caratterizzato dal principio di legalità formale. Tale tesi fa ricorso all’analogia in bonam partem e al principio di non contraddizione, in base al quale le norme che autorizzano o vietano determinate attività costituiscono espressione di principi generali dell’ordinamento. In ogni caso sono considerate scriminanti tacite le cosiddette informazioni commerciali, l’attività medica e le attività sportive.

La scriminante della legittima difesa  è disciplinata dall’art. 52 c.p che, come è noto, esclude la punibilità di chi  commette il fatto – reato  per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio od altrui contro il pericolo attuale  di un’offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa. Tale causa di giustificazione si sostanzierebbe, secondo alcuni,  nell’esercizio   di un potere di autotutela  autorizzato dallo stato;  tale  tesi  trascura, tuttavia,  il fatto che lo stato non ha il potere di uccidere, né può trasferire al delegato un potere maggiore di quello di cui è titolare. Secondo una diversa teoria, verrebbe meno l’interesse dello stato a reprimere l’offesa subita dall’aggressore, in quanto questa, risultando necessitata, non desta  più  allarme sociale. La tesi maggioritaria individua nella  legittima difesa  la compresenza di due interessi in contrapposizione tra di loro, quello dell’aggressore e quello dell’aggredito, nel conflitto dei quali lo stato sceglierebbe di dare la prevalenza a quest’ultimo.

I requisiti dell’aggressione, dell’offesa ingiusta e dell’attualità del pericolo (anche perdurante secondo un orientamento ermeneutico) richiesti dalla disposizione di cui all’art. 52 c.p. vanno indagati partitamente.

Con riguardo al primo requisito,  la norma contiene un generico riferimento alla necessità di difendere un diritto proprio o altrui (anche di un passante sconosciuto). Secondo una tesi restrittiva,  il diritto passibile di difesa riguarderebbe i soli  diritti personali, mentre, in base ad un’interpretazione estensiva,  la scriminante coprirebbe anche i diritti patrimoniali, gli interessi legittimi e le aspettative,  così ponendosi in maniera più garantista rispetto al privato.

Per quanto attiene l’offesa ingiusta, questa ricomprende qualsiasi condotta umana, commissiva o omissiva, nonché un comportamento passivo o una condotta di per sé non violenta, purché non imposta dallo stato, o comunque tollerata. Viene considerata ingiusta anche l’offesa commessa ai danni di soggetti che godono di immunità.

La citata norma poi richiede il requisito dell’attualità del pericolo, cioè una situazione potenzialmente lesiva che può provenire da un uomo, un animale o una cosa, purché in entrambi i casi ci sia una condotta umana (in assenza di questa viene applicata lo stato di necessità).

A differenza della disposizione che disciplina lo stato di necessità, l’art. 52 c.p. non contiene alcun riferimento alla causazione involontaria della situazione di pericolo. Tuttavia, la giurisprudenza ritiene che debba sussistere tale requisito, ai fini dell’applicabilità della legittima difesa. Ne deriva, a titolo di esemplificativo che, se un soggetto partecipa ad una rissa o accetta una sfida o un duello,  così aderendo ad un fatto non necessitato, non può invocare, a propria discolpa,  l’art. 52 c.p.

Un diverso orientamento ermeneutico richiede la sola sussistenza dell’ingiustizia dell’offesa, indipendentemente dal contesto in cui sorge la situazione di pericolo e dall’intento dell’aggredito, purché non vi sia stata una reazione assolutamente imprevedibile e sproporzionata.

Ed invero, la reazione di chi invoca la legittima difesa deve essere difensiva, non aggressiva, ossia deve trattarsi di un’azione uguale e contraria, o analoga, ad un’altra e rappresentare l’extrema ratio, non  potendo,  il soggetto, esercitare  altri mezzi alternativi alla difesa.  In particolare, per quanto attiene alla possibilità di fuga,  si ritiene che l’aggredito non  sia tenuto a fuggire  sia se questa risulti poco efficace  sia nell’ipotesi in cui questa esponga sé o altri ad un probabile danno uguale o superiore a quello che cagionerebbe all’aggressore difendendosi.

Inoltre, la reazione deve essere proporzionata all’offesa, ossia il male inflitto all’aggressore deve essere proporzionato a quello che si era in procinto di subire. Alcuni autori si sono chiesti se la proporzione, requisito su cui si erge l’intero e imperituro dibattito sulla legittima difesa, debba riguardare i mali inflitti, i mezzi usati o i beni sacrificati. La giurisprudenza dominante, ritenendo prive di pregio tali dispute, è ferma nel ritenere che tali mezzi siano equivalenti e che la valutazione di proporzionalità vada effettuata dal giudice, tenendo conto di tutte le circostanze del caso concreto e degli interessi in gioco, alla stregua della formulazione letterale della predetta disposizione che riconosce al giudicante un’ampia discrezionalità.

La legittima difesa domiciliare attiene all’ipotesi in cui il soggetto agente reagisca  all’aggressione all’interno della proprietà privata e degli altri luoghi in cui venga esercitata un’attività commerciale, professionale o imprenditoriale.  L’ipotesi,  contemplata ai commi 2 e 3 dell’art. 52 c.p.,  è stata fatta oggetto di approvazione da parte del legislatore  nel  2006 a seguito di un travagliato iter  parlamentare, al fine di colmare le lacune presenti nella formulazione originaria della citata norma e di placare il dibattito sorto in merito a casi eclatanti di cronaca nera, a seguito dei quali erano stati sottoposti a processo  penale  privati che avevano compiuto fatti omicidiari nei luoghi di privata dimora o di esercizio della propria attività commerciale per reagire ad una grave aggressione fisica.

La norma prevede che nell’ipotesi in cui la reazione sia avvenuta durante la commissione dei delitti di violazione di domicilio ex art. 614 c.p. (condotte che devono essere necessariamente commesse dall’aggressore) ed in presenza di un pericolo di aggressione fisica, sussiste  la  presunzione assoluta di proporzione tra i due requisiti dell’offesa e della difesa.

Tuttavia, il privato, titolare dello ius excludendi alios o legittimamente presente nel luogo violato, deve possedere o usare legittimamente un’arma o un altro strumento di coercizione, requisito, quest’ultimo,  che, al fine di evitare esiti paradossali, va interpretato in modo corretto e sulla base della voluntas legis: il legislatore, infatti, ha inteso escludere dall’applicabilità del citato comma coloro che, detenendo un’arma abusiva, si qualificherebbero come meno idonei e meno capaci (anzi più propensi all’utilizzo smodato delle stesse), ad invocare la legittima difesa domiciliare.

Secondo la giurisprudenza di legittimità e parte della dottrina, tale novella, avvertita come risposta all’emergenza criminalità, non  ha introdotto nel nostro ordinamento alcuna “licenza di uccidere”, in quanto il predetto comma 2 si occupa solo di delineare in modo nitido i confini della legittima difesa all’interno del domicilio o di luoghi di privata dimora,  ricomprendendo fra di essi  anche gli spazi condominiali, e, comunque,  qualsiasi luogo in cui l’aggredito compia atti della sua vita privata, anche in via provvisoria e non stabilmente.

Ed invero, i giudici hanno ritenuto che, con riguardo alla necessità della difesa, la reazione  deve apprezzata ex ante e alla luce di tutte le circostanze del caso, e deve rappresentare la sola alternativa possibile, non sostituibile con altra meno dannosa e, al contempo, idonea a tutelare il diritto compromesso.

La citata novella alle lettere a) e b) del comma 2, consentiva  all’aggredito di invocare la legittima difesa domiciliare solo al fine di difendere la propria o altrui incolumità  oppure beni propri o altrui, purché in quest’ultima ipotesi non vi  fosse stata desistenza né pericolo di aggressione. La  non desistenza  si poneva  in un’ottica progressiva del reato (da violazione di domicilio a furto fino alla rapina) e comportava la necessità di operare un’indagine complessa  volta alla verifica della condotta dell’aggressore, il cui onere probatorio incombeva sulla persona offesa e che ricomprendeva anche la necessità di accertare l’esistenza del pericolo  di un’aggressione  personale e l’eliminazione di ogni possibile fraintendimento circa l’inevitabile fatalità dell’utilizzo dell’arma da parte dell’aggredito. Anche, con riguardo  alla disamina dell’operatività della presunzione di proporzionalità e ai rapporti tra questa e gli ulteriori elementi contenuti nel primo comma dell’art. 52 c.p., la giurisprudenza si era attestata per ritenere che  la discrezionalità del giudice nel ravvisare la sussistenza della scriminante fosse vincolata solo con riguardo  al requisito  della proporzionalità stante la locuzione “sussiste il rapporto di proporzione di cui al primo comma del presente articolo” contenuta nel citato comma. Andavano pertanto valutati e verificati tutti gli elementi  richiesti dal primo comma dell’art. 52 c.p. e segnatamente la  necessità di difesa  di  un diritto proprio od altrui, la sussistenza  del pericolo, l’ingiustizia dell’offesa.

Peraltro, la stessa natura della  presunzione di proporzionalità era discussa, essendo oggetto  di ampio e approfondito dibattito se la stessa fosse da intendersi relativa o assoluta (iuris et de iure),  questione, quest’ultima, non di poco rilievo  avuto riguardo agli istituti dell’eccesso di difesa (art. 55 c.p.) e della legittima difesa putativa (art. 59 c.p.). Nella prima ipotesi, l’agente eccede i limiti imposti dalla legge (eccesso intensivo o sproporzione ed eccesso estensivo o inattualità dell’offesa). Invece, nella seconda, l’autore ritiene sussistenti tutti i presupposti richiesti dall’art. 52 c.p., sulla base di un errore scusabile determinato da una situazione obiettiva (non già di un mero timore soggettivo o stato d’animo), idonea ad ingenerare in un soggetto di media avvedutezza la convinzione di trovarsi in una condizione analoga alla citata norma. Se, infatti si ritenesse la presunzione in oggetto assoluta, non sarebbe  possibile effettuare alcuna valutazione con riguardo ai requisiti richiesti dall’art. 52 c.p. e non sarebbero pertanto ravvisabili  gli estremi dell’eccesso di difesa ex art. 55 c.p., situazione , questa, che imporrebbe sempre e comunque al giudice l’obbligo di assoluzione   con  formula piena. Nel caso in cui si considerasse la  predetta presunzione semplice e quindi suscettibile di prova contraria, il giudicante risulterebbe legittimato a effettuare una ponderazione dei requisiti fissati dalla norma in esame e, di conseguenza, potrebbe applicare gli artt. 55 e 59 alle fattispecie sottoposte al suo vaglio.

Si tratta di un’interpretazione costituzionalmente orientata (ai sensi dell’art. 2 Cost., che tutela il bene-vita) e comunque rispondente alla giurisprudenza della Cedu, che attribuisce al giudice il potere di effettuare un bilanciamento tra valori e interessi che vengono in rilievo in tali delicate fattispecie, valutando caso per caso tutte le circostanze e collocando sullo stesso piano coloro che invocano la legittima difesa di cui all’art. 52, co.1 e quella domiciliare (ai sensi dell’art. 3 Cost.)

Tuttavia, sebbene la necessità di un’attenta disamina del requisito  della proporzionalità fra offesa e difesa  sia richiamata in molte legislazione europee (Francia e Svizzera), di recente il nostro legislatore ha scelto di seguire un approccio securitario e particolarmente garantista nei confronti del cittadino, non considerando più eccezionale l’uso della forza da parte di quest’ultimo, così alimentando serie  critiche da parte  di tutti gli operatori di diritto, ivi compresi i sindacati di polizia che non hanno mancato di rilevare l’insorgere di serie problematiche  circa  un incremento dell’uso legittimo delle armi.

Ed invero, il legislatore, con legge recante “Misure urgenti per la massima tutela del domicilio e per la difesa legittima” del 2019, approvata anch’essa a seguito di un iter travagliato e dopo diverse istanze di tutela, ha scelto di non aderire ai sopra esposti orientamenti interpretativi e a quella tesi della giurisprudenza di legittimità che, con riguardo ai rapporti tra eccesso di difesa e legittima difesa putativa, trascurava (come constatato) il versante psicologico dell’aggredito, spesso in una situazione di panico, incentrando l’attenzione sul bilanciamento tra il valore dei beni in conflitto.

La recentissima novella (che ha altresì inasprito alcune pene previste per alcuni reati contro il patrimonio) ha apportato delle modifiche ai commi 2 e 3 della norma in esame, aggiungendovi un quarto comma che recita testualmente:  “Nei casi di cui al secondo e al terzo comma agisce sempre in stato di legittima difesa colui che compie un atto per respingere l’intrusione posta in essere, con violenza o minaccia di uso di armi o di altri mezzi di coazione fisica, da parte di una o più persone». Inoltre,  dopo  il primo comma dell’articolo 55 del codice penale è stato  aggiunto il seguente: «Nei casi di cui ai commi secondo, terzo e quarto dell’articolo 52, la punibilità è esclusa se chi ha commesso il fatto per la salvaguardia della propria o altrui incolumità ha agito nelle condizioni di cui all’articolo 61, primo comma, numero 5), ovvero in stato di grave turbamento, derivante dalla situazione di pericolo in atto».

In questa maniera è stata innanzitutto preclusa al giudice la possibilità di effettuare il giudizio di proporzionalità fra offesa e difesa  presupponendo la sussistenza della scriminante  sempre e in ogni caso allorche si tratti di respingere un’intrusione nella propria sfera privata attuata a mezzo di armi o di altri mezzi di coazione fisica. In questa maniera si è allargato l’ambito di applicazione dell’istituto in esame e si è previsto che nelle ipotesi di cui all’art. 614, co. 1 e 2 c.p., il rapporto di proporzionalità tra offesa e difesa sussiste in ogni caso (anche nei luoghi di lavoro ai sensi del riformulato comma 3 dell’art. 52 c.p.). Infatti, l’uso dell’avverbio “sempre” deve far ritenere che  la presunzione  sulla sussistenza della proporzionalità fra offesa e difesa sia da intendersi  assoluta e che  nei casi indicati dalla norma non sia possibile ravvisare  l’ipotesi di eccesso colposo. Da notare, inoltre, come  la  scriminante  debba intendersi sussistente  anche se la  difesa sia  diretta  verso un’aggressione non armata effettuata  con altri mezzi di coazione fisica e come non venga più richiamato il concetto di aggressione ma quello di intrusione,  così differenziando fortemente l’ipotesi della legittima difesa domiciliare rispetto a quella ordinaria prevista dal primo comma di cui all’art. 52 c.p.. Si tratta di modifiche importanti dettate nell’univoca direzione di  approntare la massima tutela ai privati, destinate a sollevare non pochi problemi  in sede di  applicazioni giurisprudenziali

Inoltre,  la novella, nel modificare l’art. 55,   ha escluso la punibilità del soggetto nel caso in cui  questi abbia agito in condizioni di minorata difesa o “in stato di grave turbamento, derivante dalla situazione di pericolo in atto”. Quest’ultima ipotesi introduce, forse  per la prima volta nel nostro ordinamento, una causa di non punibilità legata agli stati emozionali del soggetto agente che  non incidono, di norma,  come è noto sull’imputabilità  ai sensi dell’art. 90 c.p.. Arduo  compito dell’interprete sarà quindi quello di accertare, con il dovuto rigore,  l’esistenza in concreto del “grave turbamento” e la sussistenza di uno stretto nesso di causalità fra questa situazione  (da valutarsi in termini oggettivi) ed il pericolo attuale,  così come richiesto testualmente dalla nuova formulazione dell’art. 55 c.p..

Da ultimo, la riforma ha inciso sull’art. 2044 c.c., disposizione che disciplina la legittima difesa in ambito civilistico, escludendo ogni responsabilità per l’autore del fatto assolto in sede penale, peraltro titolare del diritto al gratuito patrocinio; nonché riconoscendo all’aggressore un’indennità nelle ipotesi di eccesso colposo ex art. 55, co. 2. Si tratta di una norma, che come la novella in esame, è stata sottoposta a critiche, in quanto ha sovrapposto la nozione civilistica di legittima difesa a quella penalistica, senza tener conto delle differenze ontologiche in concreto esistenti fra la responsabilità per  fatto illecito in ambito civile e per quella penale.