Il principio, di origine comunitaria, “chi inquina paga” è un metodo di allocazione delle conseguenze economiche di un danno ambientale.

Infatti, le attività inquinanti emettono nell’ambiente sostanze di scarto, compromettendone la salubrità. La dottrina economica degli ultimi cento anni ha considerato tali sostanze come dei costi dell’attività, che non vengono sopportati da chi la esercita, ma dall’ambiente e da chi vi sta intorno (c.d. esternalità negativa). In altri termini, se dalla ciminiera di una fabbrica esce del fumo, chi patisce la compromissione della qualità dell’aria non è l’imprenditore, ma le persone che abitano vicino alla fabbrica stessa. Dunque, essa si è preoccupata di ritrasferire tali costi nella sfera economica di chi esercita l’attività. A tale scopo, parte della dottrina economica ha ideato la c.d. “imposta pigouviana”, ossia un’imposta pari ai costi rappresentati dall’inquinamento, gravante su chi emette le sostanze nocive. Nelle intenzioni dei suoi sostenitori, tale imposta avrebbe dovuto scoraggiare gli operatori economici dall’intraprendere attività inquinanti, ma essa si è, alla prova dei fatti, dimostrata inefficace, nella misura in cui non è in grado di dissuadere dal compiere un’attività inquinante che produca un guadagno maggiore del costo ambientale con essa internalizzato. In altri termini, se un’attività produce un utile pari a 100 e l’imposta pigouviana è pari a 20, tale attività sarà comunque intrapresa, perché in ogni caso conveniente per 80. Per questi motivi, oggi la prevenzione di fenomeni generalizzati di inquinamento è piuttosto affidata a limiti e divieti di emissioni, sottoposti al controllo e al potere sanzionatorio della p.a. e dell’autorità giudiziaria.

Decisamente maggior successo è stato invece riscosso da una diversa applicazione del principio “chi inquina paga”, volta non tanto alla prevenzione di fenomeni generalizzati di inquinamento, quanto alla prevenzione e al ripristino di specifici danni ambientali, intesi come “qualsiasi deterioramento significativo e misurabile, diretto o indiretto, di una risorsa naturale o dell’utilità assicurata da quest’ultima” (art. 300 T.U. ambientale). In altri termini, la disciplina del danno ambientale non è tanto volta a prevenire l’inquinamento delle città o il riscaldamento globale, per i quali sono pensati divieti di circolazione, obbligo di manutenzione delle caldaie et cetera, quanto a prevenire e ripristinare specifici episodi di danno a determinate risorse naturali e specifici habitat: il legislatore ha dunque in mente l’ILVA di Taranto, l’Eternit di Casale Monferrato, il disastro del Seveso, episodi tutti di compromissione grave di determinate risorse naturali.

La disciplina del danno ambientale, così come dettata dalla parte VI del T.U., fa applicazione del principio “chi inquina paga”, nella misura in cui trasferisce le conseguenze economiche dell’attività inquinante, ossia le spese di prevenzione e ripristino dai danni, sull’”operatore”, ossia sulla persona, fisica o giuridica, che esercita attività di rilevanza ambientale. Prima di passare ad una più analitica disamina della disciplina del danno ambientale, occorre preliminarmente ricordare che la competenza in materia è esclusiva del Ministro dell’Ambiente, come statuito dall’art. 299 T.U., a mente del quale “il Ministro dell’Ambiente e della tutela del territorio e del mare esercita le funzioni e i compiti spettanti allo Stato in materia di tutela, prevenzione e riparazione dei danni all’ambiente”. Tale disposizione trova copertura costituzionale nell’art. 117 co. 2 lett. s) Cost., che demanda alla competenza esclusiva dello Stato la “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali”. La Corte Costituzionale ha, anche recentemente, ritenuto che ciò sia giustificato per il fatto che l’ambiente è un sistema complesso, che deve essere tutelato in modo olistico e non parcellizzato, richiedendosi dunque una regia a livello nazionale, e talvolta sovrannazionale, individuata, appunto, nel Ministro dell’Ambiente. Alle Regioni e agli enti locali è lasciato un mero potere d’impulso, consistente nella possibilità di presentare denunce e osservazioni (art. 309 T.U.), e di controllo, consistente nella possibilità di ricorrere per l’annullamento degli atti del Ministro illegittimi, nonché avverso il silenzio da questi serbato e per il risarcimento dei danni cagionati dal ritardo del Ministro nell’attivazione di misure di precauzione, prevenzione o contenimento del danno ambientale (art. 310 T.U.). Si noti che detti poteri sono affidati anche alle persone fisiche che sono o potrebbero essere colpite dal danno ambientale, nonché alle associazioni ambientaliste. Infatti, il diritto dell’ambiente è stato campo d’elezione del riconoscimento dei c.d. “interessi diffusi”, ossia di quegli interessi che non sono propri di una persona fisica determinata, ma di una moltitudine di soggetti uti universi considerati. Tradizionalmente, gli interessi diffusi non potevano essere azionati in giudizio in assenza di una persona fisica determinata dotata di legittimazione processuale ex art. 75 c.p.c. Recentemente, invece, si è affidata la tutela di tali interessi ad associazioni rappresentative: essi dunque non sono più “diffusi”, propri di una moltitudine indistinta, ma “collettivi”, in quanto propri di una pluralità organizzata di individui, riuniti in un’associazione rappresentativa dotata di legittimazione processuale. In quest’ottica, dapprima la L. 349/86, istitutiva del Ministero dell’Ambiente, ha riconosciuto legittimazione alle associazioni rappresentative di intervenire nei processi per il risarcimento del danno ambientale e di ricorrere per l’annullamento di atti illegittimi; successivamente, il T.U. ambientale, come visto, ha loro affidato tali poteri di impulso e controllo dell’operato del Ministro dell’Ambiente in tema di danno ambientale.

Tutto ciò premesso, è ora possibile analizzare la disciplina del danno ambientale e i relativi poteri del Ministro dell’Ambiente, con particolare riguardo al loro rapporto col principio “chi inquina paga”.

Un primo campo d’intervento è quello della prevenzione del danno ambientale, normata dall’art. 304 T.U. ambientale. Tale norma impone innanzitutto all’operatore l’obbligo di adottare le misure di prevenzione e messa in sicurezza “quando un danno ambientale non si è ancora verificato”, previa comunicazione al comune, alla provincia, alla regione e al Prefetto, che ne informa in Ministro dell’Ambiente. Questi ha comunque il potere di domandare all’operatore informazioni circa pericoli ambientali, di ordinare specifiche misure di prevenzione e di adottarle egli stesso. L’art. 304 citato fa evidente applicazione del principio “chi inquina paga” nella misura in cui addossa all’operatore i costi dell’intervento di prevenzione (“a proprie spese”); nel caso in cui questo sia stato invece svolto dal Ministro, lo stato ha diritto di rivalsa nei confronti di chi abbia causato o concorso a causare la spesa necessaria. Dunque, sia che l’intervento sia stato spontaneamente svolto dall’operatore, sia che esso sia stato in via sostitutiva attuato dal Ministro, i costi in ultima analisi ricadono sull’operatore.  Analogo meccanismo è adottato in materia di ripristino dopo che si è verificato un danno ambientale, ai sensi dell’art. 305 T.U.: l’intervento deve essere innanzitutto svolto dall’operatore a sue spese e, in caso di sua inerzia, è svolto dal Ministro, che però si rivarrà comunque sull’operatore per le spese sostenute.

L’art. 306-bis. T.U., poi, consente di addivenire ad una transazione fra il Ministro e l’operatore, che contenga anche “una liquidazione del danno mediante una valutazione economica”.   Il rapporto, dunque, fra azioni di prevenzione e ripristino e il principio “chi inquina paga” risulta evidente, nella misura in cui i costi sono sempre addossati su chi svolge l’attività inquinante, come anche compendiato dall’art. 308 T.U., il quale afferma che “l’operatore sostiene i costi delle iniziative statali di prevenzione e ripristino ambientale”. Tuttavia, in coerenza con tale principio, l’operatore è esonerato dal pagamento di tali opere allorquando dimostri che il danno è stato causato da un terzo o è conseguenza di un ordine, o quando l’intervento preventivo è stato causato da un’emissione o da un evento espressamente autorizzati o da un’attività che, secondo le conoscenze tecniche disponibili al momento dell’esercizio dell’attività, non era fonte di pericolo ambientale.

Posto dunque che sugli “operatori”, ossia a coloro che svolgono attività professionali di rilevanza ambientale, incombono obblighi di prevenzione e ripristino, un ultimo cenno è necessario al danno ambientale cagionato da “chiunque altro […] con dolo o colpa” ai sensi dell’art. 311 T.U. Anche sul quisque de populo incombono gli obblighi di ripristino, che possono essere imposti, previa istruttoria volta a determinare le responsabilità, con ordinanza del Ministro dell’Ambiente; anche in questo caso è possibile che gli interventi di ripristino siano esercitati direttamente dallo Stato, che ingiungerà al danneggiante il pagamento di una somma corrispondente ai costi di ripristino della risorsa naturale danneggiata (c.d. risarcimento per equivalente). In alternativa all’ordinanza-ingiunzione, il Ministro può agire a mezzo di domanda giudiziaria, anche esercitando l’azione civile nel processo penale.

Come reso evidente da questa breve ricostruzione, il principio “chi inquina paga” non ha una valenza punitiva, ma ha invece lo scopo di traslare su chi ha danneggiato l’ambiente i costi della prevenzione e del ripristino del danno, ossia di fargli internalizzare l’esternalità negativa della sua attività inquinante. Una simile ratio pare oggi ispirare gli artt. 318-bis­ ss. T.U., non a caso posti in seguito alla disciplina del danno ambientale, che consentono l’estinzione delle contravvenzioni in materia ambientale nei confronti di chi elimini le conseguenze dannose del reato ambientale.

Non si può però fare a meno di notare che la definizione di danno ambientale ex art. 300 T.U. appare oggi coincidente con quella di “inquinamento ambientale”, reato punito dall’art. 452-bis­ c.p. Pare dunque ipotizzabile che la logica riparatoria sottostante la normazione del danno si sovrapponga a quella punitiva della norma penale: tale sovrapposizione potrà estrinsecarsi in modo particolare attraverso l’esercizio dell’azione civile del Ministro nel processo penale, espressamente consentita all’art. 311 T.U.