Home Forum V e VI settimana di diritto civile Mandato e gestione di affari altrui

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  • Maria R. Sodano
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    GIURISPRUDENZA

    Cass Sez. 2 – , Sentenza n. 482 del 10/01/2019 (Rv. 652053 – 01)

    Presidente: MATERA LINA.  Estensore: LUIGI ABETE.  Relatore: LUIGI ABETE.  P.M. PATRONE IGNAZIO. (Diff.)

    1. (BISOGNI GIOVANNI BATTISTA) contro C. (GAMBINO AGOSTINO)

    Rigetta, CORTE D’APPELLO ROMA, 05/08/2013

    105 MANDATO  –  001 IN GENERE (NOZIONE, CARATTERI, DISTINZIONE E DIFFERENZE TRA MANDATARIO E NUNZIO)

    MANDATO – IN GENERE (NOZIONE, CARATTERI, DISTINZIONE E DIFFERENZE TRA MANDATARIO E NUNZIO) – Conferimento di incarico unilaterale – Mediazione – Configurabilità – Esclusione – Mandato – Sussistenza – Conseguenze – Fattispecie.

    106 MEDIAZIONE  –  001 IN GENERE (NOZIONI, CARATTERI, DISTINZIONI)

    MEDIAZIONE – IN GENERE (NOZIONI, CARATTERI, DISTINZIONI) In genere.

    Il conferimento di un incarico per la ricerca di una persona interessata alla conclusione di un affare a determinate condizioni prestabilite dà luogo a un mandato e non a una c.d. mediazione atipica unilaterale (riguardante una soltanto della parti interessate) o a una mediazione creditizia, allorché il pagamento della provvigione sia svincolato dall’esito dell’operazione, l’attività demandata abbia natura giuridica e sia insussistente il connotato dell’imparzialità. In tal caso, l’incaricato ha l’obbligo e non la facoltà di attivarsi per la conclusione dell’affare e può pretendere il pagamento della provvigione dalla sola parte che gli ha attribuito l’incarico, senza necessità della sua iscrizione all’albo ex art. 2 l. n. 39 del 1989, restando indifferente l’effettiva conclusione dell’affare. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto che rientrasse nello schema del contratto di mandato, l’incarico unilaterale conferito dalla ricorrente, nel suo esclusivo interesse, per la vendita di alcune azioni societarie, comprensivo dell’assistenza in sede di redazione dei relativi contratti e per la ricerca di banche e intermediari disponibili all’erogazione dei necessari finanziamenti, valorizzando l’inscindibilità del rapporto in quanto proteso alla realizzazione di un risultato unitario).

    Sez. U – , Sentenza n. 19161 del 02/08/2017 (Rv. 645138 – 01)  Relazioni Collegate

    Presidente: CANZIO GIOVANNI.  Estensore: STEFANO PETITTI.  Relatore: STEFANO PETITTI.  P.M. CICCOLO PASQUALE PAOLO MARIA. (Diff.)

    1. (BRUNO PIERFRANCESCO) contro C. (MASSANO MARIO)

    Rigetta, CORTE D’APPELLO VENEZIA, 16/05/2013

    106 MEDIAZIONE  –  010 PROVVIGIONE

    MEDIAZIONE – PROVVIGIONE Mediazione cd. atipica – Caratteristiche – Art. 2 della l. n. 39 del 1989 – Applicabilità – Condizioni – Attività svolta da persona non iscritta al ruolo dei mediatori – Diritto alla provvigione – Esclusione.

    È configurabile, accanto alla mediazione ordinaria, una mediazione negoziale cd. atipica, fondata su contratto a prestazioni corrispettive, con riguardo anche ad una soltanto delle parti interessate (cd. mediazione unilaterale), qualora una parte, volendo concludere un singolo affare, incarichi altri di svolgere un?attività volta alla ricerca di una persona interessata alla sua conclusione a determinate e prestabilite condizioni. L’esercizio dell’attività di mediazione atipica, quando l’affare abbia ad oggetto beni immobili o aziende, ovvero, se riguardante altre tipologie di beni, sia svolta in modo professionale e continuativo, resta soggetta all’obbligo di iscrizione all’albo previsto dall’art. 2 della l. n. 39 del 1989, ragion per cui, il suo svolgimento in difetto di tale condizione esclude, ai sensi dell’art. 6 della medesima legge, il diritto alla provvigione.

    Sez. 5 – , Sentenza n. 29287 del 14/11/2018 (Rv. 651545 – 01)

    Presidente: VIRGILIO BIAGIO.  Estensore: MARIA GIULIA PUTATURO DONATI VISCIDO DI NOCERA.  Relatore: MARIA GIULIA PUTATURO DONATI VISCIDO DI NOCERA.  P.M. ZENO IMMACOLATA. (Diff.)

    1. (PONTECORVO LEONE) contro A.

    Cassa con rinvio, COMM.TRIB.REG. MILANO, 15/11/2010

    106 MEDIAZIONE  –  001 IN GENERE (NOZIONI, CARATTERI, DISTINZIONI)

    MEDIAZIONE – IN GENERE (NOZIONI, CARATTERI, DISTINZIONI) Mediazione negoziale cd. atipica – Incarico unilaterale – Configurabilità – Caratteristiche.

    È configurabile la cd. mediazione unilaterale, che si realizza ove, a fronte dell’attività di mediazione svolta senza vincoli di collaborazione, dipendenza o rappresentanza di una sola delle parti, sussista un rapporto di mandato ovvero il conferimento dell’incarico al mediatore ad opera di una parte di ricercare una persona interessata allo stesso affare a determinate e prestabilite condizioni.

    Cass. Sez. 2, Sentenza n. 12488 del 28/05/2007 (Rv. 597372 – 01)

    Presidente: Elefante A.  Estensore: Malpica E.  Relatore: Malpica E.  P.M. Maccarone V. (Conf.)

    Calmarini ed altro (Trudi ed altri) contro Edison Spa (D’Ercole ed altro)

    (Rigetta, App. Milano, 8 Aprile 2003)

    058 CONTRATTI IN GENERE  –  122 PROCURA – IN GENERE (RAPPORTO COL MANDATO “AD NEGOTIA”)

    CONTRATTI IN GENERE – RAPPRESENTANZA – VOLONTARIA (PROCURA) – PROCURA – IN GENERE (RAPPORTO COL MANDATO “AD NEGOTIA”) – Conferimento della rappresentanza a vendere beni immobili – Natura recettizia della relativa procura – Conseguenze.

    Ai fini del conferimento della rappresentanza a vendere beni immobili è necessario che il rappresentato faccia pervenire volontariamente la procura alla persona nominata rappresentante, trattandosi di atto unilaterale recettizio, perché, ove il rappresentato abbia rilasciato la procura ma l’abbia trattenuta presso di sé o presso un fiduciario, non può ritenersi che sia stato conferito il relativo potere. Infatti, l’atto di attribuzione di detto potere di rappresentanza ad un terzo, allorché sia soggetto alle prescrizioni di forma in relazione al negozio da compiere, non può assumere efficacia in conseguenza della mera conoscenza dell’esistenza dell’atto stesso da parte del soggetto investito del potere, perché la sola predisposizione dell’atto medesimo non costituisce di per sé manifestazione della volontà di conferire il suddetto potere, ben potendo avvenire in una fase preparatoria in cui la volontà del rappresentato non si sia ancora definitivamente formata. Da ciò consegue che è soltanto con la volontaria consegna (da ricondursi, perciò, ad un comportamento consapevole) dell’atto in questione che il “dominus” manifesta l’intenzione di farsi effettivamente rappresentare, rendendone edotto il rappresentante.

    Approfondimenti teorici

    Contratti, 2016, 3, 267 (commento alla normativa)

    MANDATO E TRASFERIMENTO IMMOBILIARE

    a cura di Enzo Buda

    c.c. art. 1350

    c.c. art. 1392

    c.c. art. 1705

    c.c. art. 1706

    Il mandato con il quale un soggetto incarica un altro al fine di concludere con un terzo un negozio gestorio avente ad oggetto un bene immobile presenta diverse problematiche. Le questioni devono essere affrontate separatamente per il mandato corredato dal rilascio di una procura e per quello senza rappresentanza. Nell’ambito di quest’ultimo occorre anche distinguere tra mandato a vendere e mandato ad acquistare. Per ognuno di tali profili si analizzano i vari orientamenti giurisprudenziali e dottrinali in riferimento alla natura degli effetti e alla forma del mandato. Un’ulteriore riflessione viene dedicata all’atto di ritrasferimento e all’esecuzione in forma specifica del mandato ad acquistare senza rappresentanza. Trait d’union di tutte le tematiche scaturenti dal mandato si rivela la distinzione (più o meno marcata) tra rapporto interno (mandante-mandatario) e rapporto esterno (mandatario-terzo) e le conseguenti diverse tesi sull’unitarietà o la scindibilità degli effetti di tale contratto.

     

    Ambito di indagine

    Il presente lavoro si limiterà ad affrontare le problematiche relative al mandato avente ad oggetto il trasferimento di beni immobili, che è assoggettato ad una disciplina in tema di circolazione certamente più complessa e articolata rispetto a quella dei beni mobili. Basti pensare all’art. 1350 c.c., che prescrive la necessità della forma scritta ad substantiam solo per gli atti con i quali vengono trasferiti beni immobili, o al regime della pubblicità mediante trascrizione nei registri immobiliari. Tali differenze si riflettono nella stessa disciplina del mandato e, più precisamente, nell’art. 1706 c.c., che prevede, appunto, due modalità del tutto diverse per i beni mobili (comma 1) e per quelli immobili (comma 2) per far sì che il mandante acquisti la titolarità sui beni oggetto del negozio gestorio nelle ipotesi in cui il mandatario ha agito in nome proprio. Solo per il mandato immobiliare si pone il problema della forma (scritta o orale) e quello conseguente della validità dell’atto di ritrasferimento e dell’eseguibilità dell’obbligo del mandatario a riversare gli effetti del negozio gestorio sul mandante. Peraltro, viene risolta in modo del tutto diverso la questione dell’efficacia traslativa del mandato a seconda che quest’ultimo abbia ad oggetto beni mobili o immobili.

     

    Mandato con rappresentanza

    La prima ipotesi negoziale che si intende analizzare è quella del mandato con rappresentanza a comprare o a vendere beni immobili, ovverosia il caso in cui il mandatario agisca non solo per conto del mandante, ma anche in nome di quest’ultimo grazie ai poteri conferitigli da una procura. Nessun dubbio sussiste in tale circostanza circa l’efficacia traslativa diretta nella sfera giuridica del mandante del negozio gestorio concluso dal mandatario. Il rilascio della procura, infatti, permette che il mandatario agisca in rappresentanza del mandante e possa spendere il nome di questi, rendendo applicabile l’art. 1388 c.c.

    Parimenti, altro dato certo è la forma della procura, che, ai sensi dell’art. 1392 c.c., deve essere “conferita con le forme prescritte per il contratto che il rappresentante deve concludere” e, quindi, nel caso di beni immobili, “per atto pubblico o per scrittura privata” sulla base della prescrizione dettata dall’art. 1350 c.c. L’unico profilo problematico resta, allora, la forma del mandato. Risalente dottrina, partendo dall’art. 1704 c.c., riteneva doveroso applicare al mandato le disposizioni in tema di rappresentanza, in particolare l’art. 1392 c.c., concludendo che “il mandato con rappresentanza ad acquistare beni immobili o mobili registrati deve essere conferito per iscritto ad substantiam” (F. M. Dominedò, Mandato (Diritto civile), in Noviss. Dig. it., X, Torino, 1964, 122). La ragione veniva individuata nella solennità del negozio gestorio, che implicava un vincolo di forme, oltre che per la procura, anche per il mandato. Tale tesi veniva seguita anche da una parte della giurisprudenza, secondo cui “il mandato, con o senza rappresentanza, così ad acquistare come a vendere beni immobili richiede la forma scritta “ad substantiam” […], attesa la perfetta identità di effetti, giammai traslativi ma semplicemente attributivi del potere di compiere atti giuridici nell’interesse (nel caso di mandato senza rappresentanza) od in nome e per conto (nel caso di mandato con rappresentanza) del mandante, derivante dal conferimento del mandato a vendere o ad acquistare beni” (Cass. 24 gennaio 2003, n. 1137, in Danno e resp., 2003, 7, 728 e in Giur. it., 2003, 1864. Avevano affermato la tesi della necessità della forma scritta del mandato con rappresentanza anche Cass. 9 febbraio 1965, n. 211, e Cass. 19 novembre 1982, n. 6239, in Giur. it., 1983, 1, 903).

    Tuttavia sia in dottrina che nella giurisprudenza più recente appare dominante la tesi contraria. Il Giudice di legittimità, infatti, ha più volte ribadito che al mandato con rappresentanza va esclusa l’applicazione dell’art. 1392 c.c. in via diretta (per rinvio dell’art. 1704 c.c.) o analogica, giungendo ad affermare la necessità della forma scritta della procura, ma anche la libertà di forme per il mandato con rappresentanza. Tale interpretazione parte da una netta distinzione tra mandato e procura: solo il primo costituisce un contratto, con le relative obbligazioni in capo al mandante e al mandatario, mentre la procura è un atto con il quale il rappresentato attribuisce un potere al rappresentante senza che, tuttavia, debba forzatamente esservi un rapporto obbligatorio sottostante (la dottrina dominante afferma “la completa autonomia della fattispecie della rappresentanza nei confronti del rapporto di gestione (eventualmente) sottostante”: G. Minervini, Il mandato, la commissione, la spedizione, in F. Vassalli (a cura di), Trattato di diritto civile, Torino, 1952, VIII, 1, 12 ss.). La Corte di cassazione arriva, allora, a concludere che “la regolamentazione dei rapporti nascenti dal mandato non necessita di forma scritta, perché la base della disciplina della vicenda traslativa sta nella procura” (Cass. 10 novembre 2000, n. 14637, cit. Per la stessa interpretazione, si rimanda altresì a Cass. 30 maggio 2006, n. 12848, in Vita not., 2006, 3, 1, 1424, Impresa, 2006, 12, 1869, in questa Rivista, 2007, 2, 146, e a Cass. 24 gennaio 2012, n. 1007, ord.). Dunque, l’interpretazione giurisprudenziale fa leva sulla distinzione tra rapporto interno ed esterno del mandato, ossia tra gli effetti che tale negozio produce rispetto ai terzi e quelli sussistenti tra mandante e mandatario. In altre parole, nel mandato con rappresentanza il titolo degli effetti formali che si producono direttamente nella sfera giuridica del mandante-rappresentato è costituito dalla procura e non dal mandato (cfr. A. Luminoso, Mandato, commissione, spedizione, in Trattato di diritto civile e commerciale, a cura di A. Cicu – F. Messineo, Milano, 1984, XXXII, cit., 370. Offrono la stessa impostazione interpretativa anche G. Minervini, Il mandato, la commissione, la spedizione, cit., 36-37, G. Bavetta, Mandato, in Enciclopedia del diritto, Milano, 1975, XXV, 343 e C. Santagata, Art. 1703-1709. Mandato. Disposizioni generali, in Commentario civile, a cura di A. Scialoja – G. Branca, Zanichelli, Bologna-Roma, 1985, 193). Aderendo alla seconda tesi, sembra possibile affermare che, nel caso di mandato con rappresentanza, “è necessario, ma anche sufficiente, che l’esigenza della forma venga soddisfatta dalla procura e dal negozio rappresentativo, non anche dal mandato cui la prima si accompagni” (A. Luminoso, Mandato, commissione, spedizione, cit., 370).

    La questione (ir-)risolta dell’efficacia del mandato ad alienare senza rappresentanza

    Assai più problematica e complessa, tanto da essere connotata da decennali contrasti dottrinali e giurisprudenziali sia su profili di tipo teorico che di tipo pratico, si presenta la fattispecie in cui il mandante incarica il mandatario di vendere un bene immobile (del primo soggetto) senza munirlo dei poteri di rappresentanza. La questione fondamentale del mandato ad alienare può individuarsi nella distinzione soggettiva tra titolarità del diritto dominicale (in capo al mandante) e potere di disposizione (esercitato dal mandatario). Semplificando, si è sempre discusso se fosse possibile (e, in caso positivo, come inquadrare) teoricamente che un soggetto (mandatario) potesse trasferire in nome proprio ad un terzo un bene di un altro soggetto (mandante). Ebbene, tale problema è tanto rilevante in quanto coinvolge i principi generali del diritto civile e viene affrontato anche in altri istituti sui quali non si è mai smesso di dibattere quali la rappresentanza indiretta, il negozio fiduciario, il trust o l’autorizzazione con efficacia esterna (cfr. S. Pugliatti, Fiducia e rappresentanza indiretta, in Diritto civile. Metodo – Teoria – Pratica. Saggi, in Scritti giuridici, Milano, 2010, 317 ss.).

    Le soluzioni al problema sono state le più disparate. Non sono mancate affascinanti ricostruzioni dottrinarie basate sull’efficacia traslativa diretta tra mandante e terzo e, dunque, sulla dissociazione tra titolarità e potere di disporre, riecheggianti la dottrina durante la vigenza del codice civile del 1865 nonché istituti stranieri, come l’Ermächtigung prevista dal § 185 del B.G.B. (il comma 1 del § 185 del B.G.B. così stabilisce: “Eine Verfügung, die ein Nichtberechtigter über einen Gegenstand trifft, ist wirksam, wenn sie mit Einwilligung des Berechtigten erfolgt”. La traduzione di tale articolo potrebbe essere: “un atto di disposizione, compiuto su un bene da parte di chi non sia titolare del diritto, è efficace, se avviene con il consenso del titolare”), che, tuttavia, non hanno trovato ingresso nel nostro ordinamento (cfr. L. Mengoni, L’acquisto “a non domino”, Vita e pensiero, Milano, 1949. 38 ss. e G. Giordano, Tradizione e potere di disposizione nel contratto estimatorio, in Riv. dir. comm., 1949, I, 174 ss. Una recente decisione del giudice di legittimità sembrerebbe evocare l’efficacia traslativa diretta del mandato ad alienare, nonostante la scarsa chiarezza delle espressioni usate. In tale sentenza la S.C. sostiene che, al di là della soluzione dottrinaria che si accoglie in tema di mandato ad alienare senza rappresentanza, “rispetto alla vendita conclusa dal mandatario, il contratto di mandato assolve lo stesso ruolo della procura rispetto alla vendita conclusa dal rappresentante, assume il ruolo di manifestazione della volontà del proprietario di pervenire alla vendita del proprio bene e di fatto che radica l’operatività dei meccanismi giuridici capaci di realizzare l’effetto programmato, che il proprietario ha inteso raggiungere mediante la collaborazione di altri nell’attività giuridica necessaria ad entrare in contatto con il terzo ed a trasferirgli la proprietà del suo bene. Il diverso modo di prodursi dell’effetto non toglie che all’origine v’è lo stesso fenomeno di programmazione di quel medesimo effetto, che deve essere tradotta in atto scritto, perché l’effetto è rappresentato dal trasferimento della proprietà di un bene immobile”: Cass. 10 novembre 2000, n. 14637, cit.). I decisivi argomenti contrari ad un’efficacia traslativa diretta del mandato ad alienare sono, secondo la dottrina prevalente, la mancanza di dati normativi a cui far riferimento e l’impossibilità di adattare tale schema al sistema delle trascrizioni.

    In una posizione intermedia si sono poste le interpretazioni fondate su un’efficacia traslativa (automatica o meno, ma certamente) non diretta tra mandante e terzo, che, quindi, hanno ravvisato la necessità del passaggio della titolarità del diritto dominicale in capo al mandatario. Gli schemi negoziali ipotizzati per rispondere a tali esigenze sono stati molteplici, ma la tesi probabilmente più diffusa è stata quella del mandato ad alienare come negozio traslativo nel quale l’effetto reale si produrrebbe non immediatamente, ma al sopravvenire della sua esecuzione, ossia al momento del “verificarsi della (condicio iuris sospensiva rappresentata dalla) alienazione gestoria al terzo” (A. Luminoso, Il mandato, Torino, 2007, 111. L’eminente giurista al quale si rifanno tutti i successivi sostenitori di tale tesi è L. Carraro, Il mandato ad alienare, Padova, 1947, 9 ss. Tale Autore richiama, peraltro, F. Santoro Passarelli, Mandato, rappresentanza indiretta: limiti, in Riv. dir. civ., 1940, 478, il quale proponeva un acquisto del mandatario simultaneo a quello del terzo, ma sotto la vigenza del codice civile del 1865). L’interpretazione dottrinaria citata è stata espressamente fatta propria in una sentenza del giudice di legittimità, secondo cui si deve ritenere “in adesione ai risultati dei più recenti studi sull’argomento, che nel mandato ad alienare (e nella commissione, quando abbia ad oggetto questo tipo di mandato) sia ravvisabile un contratto nel quale l’effetto traslativo reale del bene, derivante dal consenso manifestato dalle parti (art. 1376 c.c.), non si verifica immediatamente ma è sospensivamente condizionato al compimento dell’alienazione gestoria del bene medesimo da parte del mandatario o commissionario” (Cass. 7 dicembre 1994, n. 10522, in Giust. civ., 1995, I, 2165, con nota di Battaglia, e in Riv. not., 1996, 596). In tale decisione, peraltro, sono stati evidenziati gli indubbi vantaggi pratici della soluzione prospettata (nell’arresto citato la S.C. ha giustificato tale interpretazione sostenendo che “se fosse sempre necessario – quanto meno nel mandato a vendere beni immobili o mobili registrati […] – un previo negozio formale di trasferimento dal mandante al mandatario per legittimare la successiva alienazione formale del bene da parte di quest’ultimo, il contratto di commissione e l’istituto del mandato a vendere perderebbero gran parte della loro funzione ed utilità. L’incondizionato trasferimento del bene al mandatario potrebbe, inoltre, esser causa di inconvenienti ed abusi da parte del medesimo, come la dottrina ha sottolineato”: Cass. 7 dicembre 1994, n. 10522, cit.).

    Il mandato a vendere, inteso come contratto con efficacia traslativa indiretta e sospesa, renderebbe comunque necessario che al mandatario venissero somministrati i mezzi necessari all’esecuzione dell’incarico, ossia che gli venisse previamente trasferito il bene dal mandante, seppure solo con efficacia sospesa fino al momento dell’esecuzione del negozio gestorio. Tale ricostruzione ha trovato dei fermi ed autorevoli oppositori in coloro i quali evidenziano che il mandato previsto dal nostro ordinamento ha efficacia meramente obbligatoria e la sua causa negoziale non è idonea a giustificare il trasferimento tra mandante e mandatario (per un’ampia ed approfondita critica della tesi introdotta da Carraro, si rimanda a S. Pugliatti, Fiducia e rappresentanza indiretta, cit., 410-435). Partendo da queste considerazioni, la dottrina giunge ad affermare che non può “ritenersi ammissibile il mandato senza rappresentanza ad alienare beni immobili o beni mobili registrati” (ivi, 414). Peraltro, tali osservazioni critiche trovano una legittimazione anche nella carenza di disciplina codicistica per il mandato ad alienare, di contro alle previsioni dettate in tema di mandato ad acquistare (autorevole dottrina afferma che “l’efficacia traslativo-reale, che discende dal mandato ad acquistare mobili non registrati, costituisce un’eccezione, che trova la sua base legislativa nell’art. 1706 I comma”: G. Minervini, Il mandato, la commissione, la spedizione, cit., 124. Aderisce a tale interpretazione anche F. M. Dominedò, Mandato (Diritto civile), cit., 120-121).

    Discostandosi dalla tesi dell’inammissibilità, parte della dottrina ha osservato che il negozio di trasferimento tra mandante e mandatario non sarebbe astratto, ma troverebbe una sua giustificazione causale in forza dell’art. 1719 c.c. (cfr. G. Minervini, Il mandato, la commissione, la spedizione, cit., 127). Tuttavia, tale configurazione fa, in ogni caso, perdere al mandato ad alienare gran parte del suo interesse pratico, dal momento che non soddisferebbe le esigenze di segretezza del mandante ed esporrebbe quest’ultimo a tutti i rischi ipotizzabili per il passaggio di proprietà al mandatario, quale titolare fiduciario del bene in vista del negozio gestorio.

    L’orientamento più recente della giurisprudenza di legittimità, in aperto contrasto col precedente difforme sopra citato (Cass. 7 dicembre 1994, n. 10522), nega l’efficacia traslativa (diretta o indiretta) del mandato, sebbene riconoscendo che tale interpretazione “consentirebbe di risolvere notevoli problemi pratici e di rivitalizzare la figura del mandato ad alienare” (Cass. 27 maggio 2003, n. 8393, in Gius, 2003, 21, 2414, Vita not., 2003, 1443, Arch. civ., 2004, 537, e in questa Rivista, 2004, 1, 70).

    Peraltro, tale ultima tesi trova ulteriore conferma anche in una decisione della Suprema Corte a Sezioni Unite sotto il diverso profilo della tutela dell’affidamento del terzo. Più precisamente, l’oggetto della sentenza è il contrasto giurisprudenziale sorto intorno all’interpretazione dell’art. 1705, comma 2, c.c., che costituisce una sorta di banco di prova delle tesi sull’efficacia traslativa o non del mandato. Il giudice di legittimità risolve la questione con un arresto che abbraccia tutta la tematica dell’efficacia del mandato senza rappresentanza, con un excursus dottrinario e giurisprudenziale piuttosto approfondito. Sebbene la Corte segnali la pregevolezza della tesi dell’efficacia traslativa sospesa del mandato ad alienare, riallacciando la ricostruzione generale di tale tipologia contrattuale con il problema della corretta applicazione dell’art. 1705 c.c., è costretta a rilevare che seguendo la suddetta tesi “il mandante, automaticamente (o condizionalmente) destinatario dell’effetto traslativo del negozio intercorso tra mandatario e terzo, sarebbe necessariamente legittimato ad agire in giudizio a tutela del diritto così acquisito, sarebbe, cioè, legittimato ad esperire tutte le azioni ex contractu nella sua posizione di titolare dell’interesse sostanziale, ivi compresa l’azione risarcitoria da inadempimento del terzo” (Cass., SS.UU., 8 ottobre 2008, n. 24772, in Notariato, 2009, 1, 12, Nuova giur. civ. comm., 2009, 4, 1, 368, con nota di Abatangelo, Corr. giur., 2009, 5, 691, con nota di Maffeis, Obbl. e contr., 2008, 12, 964, con nota di Rubino). La conclusione a cui pervengono le Sezioni Unite è allora, quella di ritenere che “il vero, insuperabile ostacolo che si frappone all’accoglimento della tesi poco sopra descritta è, dunque, quello che vede totalmente pretermessa l’analisi della posizione contrattuale del terzo. Se, nell’ottica del rapporto mandante/mandatario, la rilevanza sostanziale dell’interesse può far premio sulla titolarità (soltanto) formale (oltre che ‘istantanea’) del mandatario, non può per converso trascurarsi che il terzo, nel contrattare con quest’ultimo (e soltanto con quest’ultimo), ripone un legittimo affidamento nel fatto che tutte le vicende successive al contratto, sul piano della fisiologia come della patologia degli effetti, andranno a dipanarsi tra esse parti, senza alcun intervento ipotetico di terzi-mandanti (in assenza di un suo espresso consenso). Proprio l’aspetto del difetto assoluto di consenso del terzo disvela l’ulteriore momento di debolezza della teoria dell’effetto (diretto, automatico, condizionale che si voglia) costituitosi in capo al mandante: ammettere la legittimità di tale traslatio non soltanto sotto il profilo attivo del credito (sicuramente cedibile senza consenso), ma dell’intera posizione contrattuale formalmente costituitasi in capo al mandatario si risolve, nella sostanza, se valutata non più nell’ottica del rapporto interno, ma in quella del terzo contraente, nell’ipotizzare una fattispecie di cessione senza consenso del contraente ceduto, in evidente spregio al disposto dell’art. 1406 c.c.” (ibidem. La sentenza citata risolve il contrasto giurisprudenziale sorto intorno all’interpretazione dell’art. 1705 c.c. enunciando la seguente massima: “le norme in tema di mandato di cui dianzi si è espressamente ricordato il contenuto vanno, pertanto, interpretate nel senso che esse disegnano un complesso (anche se non del tutto coerente) sistema diacronico imperniato su di un evidente rapporto di regola/eccezione: regola generale sarà, pertanto, quella, di cui all’art. 1705 c.c., secondo la quale il mandatario acquista i diritti e assume gli obblighi derivanti dagli atti compiuti con i terzi, i quali non hanno alcun rapporto con il mandante. Eccezionali risulteranno, per converso, quelle disposizioni che, in deroga a tale, generale meccanismo effettuale, ne prevedano, sul piano processuale, una sorte diversa, imperniata sulla immediata reclamabilità del diritto (di credito o reale) da parte del mandante. Queste regole operazionali, tanto sostanziali quanto processuali, nel porsi come eccezioni rispetto alla disciplina generale del mandato, sono pertanto di stretta interpretazione e non consentono alcuna integrazione di tipo analogico, né possono, nella specie, essere interpretate estensivamente, nella già rilevata ottica della tutela della posizione del terzo contraente. L’espressione ‘diritti di credito’ di cui all’art. 1705 c.c., comma 2, va, pertanto, rigorosamente circoscritta all’esercizio (fisiologico) dei diritti sostanziali acquistati dal mandatario, con conseguente esclusione delle azioni poste a loro tutela (annullamento, risoluzione, rescissione, risarcimento)”).

    L’efficacia del mandato ad acquistare senza rappresentanza.

    Parallela alla questione dell’efficacia del mandato ad alienare è quella relativa al mandato ad acquistare. In questo caso, si trova una soluzione sufficientemente chiara nelle norme codicistiche: l’art. 1706 c.c., infatti, al contrario di quanto avviene per il mandato ad alienare, disciplina in modo espresso le dinamiche reali tra mandante e mandatario, distinguendo tra beni mobili (comma 1) e beni immobili o mobili registrati (comma 2). Per quest’ultima tipologia di beni viene implicitamente esclusa l’efficacia traslativa diretta del mandato, in quanto si impone al mandatario di ritrasferire al mandante quanto acquistato dal terzo in forza del negozio gestorio.

    Nonostante ciò la problematica dell’efficacia reale o obbligatoria del mandato immobiliare ad acquistare è stata molto dibattuta, a causa delle difficoltà nel qualificare la natura dell’atto di ritrasferimento previsto dall’art. 1706, comma 2, c.c.

    All’indomani dell’emanazione del codice civile, prestigiosa dottrina si orienta verso ricostruzioni ermeneutiche che postulano il trasferimento diretto dal terzo al mandante degli effetti reali derivanti dal negozio gestorio compiuto dal mandatario, attribuendo al negozio di ritrasferimento efficacia meramente ricognitiva, in funzione della continuità delle trascrizioni (cfr. S. Pugliatti, Studi sulla rappresentanza, Milano, 1965, 419 ss.). Altra autorevole dottrina ritiene che nel mandato immobiliare si produca lo stesso meccanismo del mandato avente ad oggetto beni mobili, ossia un doppio acquisto automatico, secondo cui il mandatario, dopo aver acquistato dal terzo, perderebbe immediatamente la proprietà in favore del mandante, in forza dello stesso mandato o di un negozio traslativo non negoziale (cfr. L. Mengoni – F. Realmonte, Disposizione (atto di), in Enc. dir., Milano, 1964, XXIII, 190 ss.; G. Gabrielli, Il rapporto giuridico preparatorio, Milano, 1974, 143 ss.; C. Santagata, Art. 1703-1709. Mandato. Disposizioni generali, cit., 404 ss.).

    Tuttavia, la dottrina più recente e prevalente attribuisce al mandato efficacia meramente obbligatoria, ma con la precisazione che si può “identificare nell’atto di “ritrasferimento” preveduto dall’art. 1706 cpv un negozio traslativo di esecuzione – non astratto, ma – causale, il quale trova il proprio fondamento, appunto, nel contratto di mandato e nella obbligazione di “dare” (nel senso tecnico di “trasferire”) che da esso, in tale ipotesi, nasce. Negozio per la cui validità si ritiene necessaria, oltre all’esistenza di un valido rapporto di gestione, anche l’indicazione (nell’atto) della causa solvendi, ossia, nella specie, della sua specifica funzione esecutiva dell'”impegno gestorio” assunto con il contratto di mandato” (A. Luminoso, Mandato, commissione, spedizione, cit., 235-236. Per una simile ricostruzione ermeneutica, si vedano, tra i tanti: G. Bavetta, Mandato, cit., 336; U. Carnevali, Mandato, in Enc. giur., Roma, 1990, 5; M. Graziadei, Mandato, in Dig. Disc. priv. Sez. Civ., Torino, 1994, XI, 167-168; G. Minervini, Il mandato, la commissione, la spedizione, cit., 101-104; B. Carpino, Il mandato, la commissione, la spedizione, in Trattato di Diritto Privato: I contratti speciali, a cura di M. Bessone, Torino, 2007, XIV, 32-42). Dunque, gli effetti del mandato hanno una valenza traslativa sostanziale, seppure mediata, e anche “attribuendo nella specie al mandato un’efficacia meramente obbligatoria, non potrebbe negarsi che il titulus adquirendi del mandante sarebbe pur sempre costituito dal contratto di mandato – non già dal successivo negozio traslativo di esecuzione, il quale fungerebbe in sostanza da semplice modus adquirendi – e che la radice dell’effetto traslativo interno si trova comunque nel mandato e nella causa gestoria che lo sorregge” (A. Luminoso, Mandato, commissione, spedizione, cit., 378).

    A tale orientamento sembra aderisca anche la giurisprudenza più recente: infatti, la Suprema Corte, chiamata a qualificare una dichiarazione unilaterale di impegno a ritrasferire l’immobile acquistato all’asta su incarico del mandante, mette in risalto “la causa mandati dell’operazione negoziale posta nel caso in essere dalle parti” (Cass. 2 settembre 2013, n. 20051, in Giur. it., 2014, 2, 268, con nota di Marangoni, in Corr. giur., 2013, 12, 1504, con nota di Mariconda, e in questa Rivista con nota di Buda, 2014, 7, 675).

    La forma del mandato e la distinzione tra rapporto interno ed esterno

    La forma del mandato ad acquistare beni immobili è al centro di un vivace dibattito dottrinario e giurisprudenziale da diversi decenni: il problema risiede nella scelta ermeneutica tra ritenere la forma scritta necessaria ad substantiam o considerare tale contratto assoggettabile al principio generale della libertà di forme. La questione nasce già sotto la vigenza del codice civile del 1865: le interpretazioni contrastanti resero allora necessario l’intervento del legislatore con una norma (da alcuni qualificata di “interpretazione autentica”, ma) comunque non risolutiva (secondo la dottrina “nel vigore della abrogata legislazione il problema era già vivamente dibattuto, e le opposte opinioni erano validamente e risolutamente sostenute con varietà d’argomenti. Un intervento legislativo – il D.L. 7-I-1926, n. 12 – che era parso in un primo momento un atto di interpretazione autentica, non era valso a dirimere la questione. In realtà, la forma usata dal legislatore, che faceva espresso riferimento al passato, convalidava l’opinione prevalente che si trattasse, più che di una nuova forma, sia pure di interpretazione autentica di norme preesistenti, di una mera sanatoria di negozi viziati da una causa di nullità preesistente”: F. M. Dominedò, Mandato (diritto civile), cit., 122). Subito dopo l’emanazione dell’attuale codice civile, la Corte di cassazione sancisce il principio della nullità del mandato orale avente ad oggetto un negozio gestorio da concludersi in forma solenne, sostenendo l’applicazione analogica degli artt. 1392, 1399 e 1403 c.c. sulla base della considerazione che “la volontà che dà vita al mandato è la stessa che dà vita al negozio giuridico che, per conto del mandante, il mandatario dovrà compiere” (Cass. 18 marzo1948, n. 427, in Foro it., 1948, 1, 281. Cfr. per lo stesso orientamento Cass. 5 maggio 1945, n. 317, in Rep. Foro it., 1943, 5, voce Mandato, n. 27; Cass. 14 gennaio 1946, n. 20, in Foro it., 1947, 1, 485; 27; Cass. 14 aprile 1947, n. 554, in Rep. Foro it., 1947, 5, voce Mandato, n. 8).

    La dottrina dell’epoca (così come quella attuale) avversa la tesi della simmetria formale tra mandato e negozio gestorio, considerandola fondata sulla confusione tra mandato e procura nonché su esigenze di ordine pratico (per una lettura critica della tesi della forma scritta ad substantiam del mandato avente ad oggetto la compravendita di beni immobili basata sulla simmetria tra mandato e negozio gestorio e sull’applicazione analogica dell’art. 1392, si vedano F. M. Dominedò, Mandato (diritto civile), cit., 123; C. Santagata, Art. 1703-1709. Mandato. Disposizioni generali, cit., 193; A. Luminoso, Mandato, commissione, spedizione, cit., 370; G. Minervini, Il mandato, la commissione, la spedizione, cit., 27-28; U. Carnevali, Mandato, in Enc. giur., Roma, 1990, 3). L’orientamento allora prevalente, infatti, esclude l’essenzialità della forma scritta del mandato avente ad oggetto l’incarico di compravendere beni immobili, sia per l’assenza di norme che prevedano forme vincolate per il contratto di mandato, sia in virtù del principio generale di libertà delle forme proprio del nostro ordinamento. Alcune sentenze della Corte di cassazione di quegli anni aderiscono a questo orientamento dottrinale e affermano la validità del mandato immobiliare in forma orale (Cass. 9 maggio 1952, n. 1316, in Foro it., 1952, 1, 1361; Cass. 6 marzo 1953, n. 532, in Foro it., 1953, 1, 950; Cass. 23 aprile 1953, n. 1103, in Rep. Foro it., 1953, voce Mandato, n. 29; Cass. 25 maggio 1953, n. 1533, in Giust. civ., 1953, 1, 1722 e Rep. Foro it., 1953). Si viene, pertanto, a creare un contrasto giurisprudenziale che rende necessario l’intervento delle Sezioni Unite (Cass. 19 ottobre 1954, n. 3861, in Foro it., 1955, I, 9). Viene allora ribadito (in accordo con l’orientamento giurisprudenziale dominante) l’essenzialità della forma scritta del mandato avente ad oggetto la compravendita immobiliare sulla base di nuove e più convincenti argomentazioni raccolte da autorevoli giuristi che propongono di applicare analogicamente o estensivamente l’art. 1351 c.c. (il riferimento è a L. Carraro, In tema di forma del mandato, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1948, 213, ove si suggerisce di applicare al mandato in via analogica l’art. 1351 c.c., “posto che nel mandato ad acquistare immobili è contenuto anche un pactum de contrahendo, e precisamente di concludere il futuro negozio di trasferimento dal mandatario al mandante”).

    Altra prestigiosa dottrina ritiene applicabile l’art. 1351 c.c. tramite un’interpretazione estensiva, che rende tale norma identica, per quanto attiene all’ambito di applicabilità, all’art. 2932 c.c., arrivando, in tal modo, a fondare “la tesi della essenzialità al mandato in nome proprio della identica forma, dalla legge prescritta ad substantiam per il negozio gestorio” (G. Minervini, Il mandato, la commissione, la spedizione, cit., 36). Tale Autore, infatti, ritiene che l’esame dei lavori preparatori al codice civile dimostra che “la nozione legislativa del contratto preliminare disciplinato, ma non definito nell’art. 1351, abbraccia ogni contratto che ponga a carico di una o di entrambe le parti l’obbligo di concludere tra loro un ulteriore contratto, quand’anche si tratti di contratto che non esaurisca i suoi effetti nella posizione di un obbligo di contrarre a carico della o delle parti […], ma sia produttivo di ulteriori effetti, parimenti essenziali, com’è il caso del mandato; affermiamo cioè la identità delle due categorie del contratto preliminare, disciplinato dall’art. 1351, e del contratto produttivo dell’obbligo di contrarre, previsto dall’art. 2932” (ivi, cit., 29-30).

    In senso critico, un altro giurista, pur ritenendo applicabile l’art. 1351 c.c. sulla base di un’interpretazione logico-sistematica, considera che tale norma non è suscettibile di applicazioni analogiche, in quanto regola eccezionale rispetto al principio della libertà delle forme, e, inoltre, che il mandato “non può essere identificato né assimilato ad un contratto preliminare stante la profonda diversità sotto il profilo causale tra le due figure e la maggiore complessità e ricchezza di effetti del mandato” (A. Luminoso, Mandato, commissione, spedizione, cit., 375). Secondo un’altra lettura critica, seguendo la tesi giurisprudenziale dell’applicazione dell’art. 1351 c.c., “un determinato trattamento giuridico viene applicato ad ipotesi non previste dalla legge sulla base dell’identità dell’effetto giuridico. Ma dovrebbe allora essere evidente che si tratta del tentativo, abilmente condotto, di mascherare un’applicazione analogica della legge; si applica la disciplina legislativa ad un caso da essa non previsto. È significativo, in merito, che nelle sentenze ricorra costantemente l’espressione eadem ratio, tipica, com’è noto, dell’argomentazione analogica. Risulta quindi evidente la posizione intimamente contraddittoria della giurisprudenza che costantemente afferma il principio di libertà delle forme, cui sarebbe ispirato il nostro ordinamento, con il conseguente carattere eccezionale delle norme limitatrici di tale libertà, e quindi il divieto di applicazione analogica delle medesime” (B. Carpino, Il mandato, la commissione, la spedizione, cit., 43-44). Nonostante le critiche, la soluzione del vincolo di forma per il mandato ad acquistare beni immobili si consolida nella giurisprudenza successiva, con motivazioni non sempre lineari e omogenee (tra le tante, si vedano Cass. 19 novembre 1982, n. 6239, cit.; Cass. 23 dicembre 1987, n. 9634, in Corr. giur., 1988, 254; Cass. 10 novembre 2000, n. 14637, cit.; Cass. 24 gennaio 2003, n. 1137, cit. Quest’ultima decisione, nello specifico, stabilisce che “quanto alla forma del mandato, è noto il principio, costantemente affermato da questa S.C., secondo cui il mandato, con o senza rappresentanza, così ad acquistare come a vendere beni immobili richiede la forma scritta “ad substantiam” […], attesa la perfetta identità di effetti, giammai traslativi ma semplicemente attributivi del potere di compiere atti giuridici nell’interesse (nel caso di mandato senza rappresentanza) od in nome e per conto (nel caso di mandato con rappresentanza) del mandante, derivante dal conferimento del mandato a vendere o ad acquistare beni”).

    Il principio della forma vincolata per il mandato immobiliare, così come formulato dal Giudice di legittimità, ha continuato ad essere contestato (dalla dottrina e da una parte della giurisprudenza) sia nelle sue premesse logiche che nel suo supporto di tipo dogmatico. La stessa Cassazione non ha mancato di sottolineare la differenza tra procura e mandato – visto che in diverse decisioni giurisprudenziali veniva ancora adottata la soluzione della cosiddetta simmetria formale tra mandato e negozio gestorio – e, di conseguenza, la differente disciplina in tema di forma, non essendo prevista per il mandato una norma equivalente all’art. 1392 c.c., dettato in tema di procura (cfr. Cass. 2 luglio 1990, n. 6764, in Corr. giur., 1990, 11, 1144: “nessuna norma prevede, espressamente o implicitamente, che il mandato debba perfezionarsi nella stessa forma eventualmente stabilita per l’atto che il mandatario si obbliga a porre in essere in nome proprio e per conto del mandante; ed è noto che nel nostro ordinamento vige il principio della libertà di forma, salvo che per gli atti per i quali sia specificatamente imposta una forma particolare. Né può dedursi una deroga a tale principio (per il mandato senza rappresentanza) dall’art. 1392 c.c., secondo cui la procura non ha effetto (o, meglio, non è valida) se non è conferita con le forme prescritte per il contratto che il rappresentante deve concludere”). Diversi arresti sono giunti, pertanto, a contraddire la tesi della necessità della forma scritta almeno per il mandato con rappresentanza (nell’ipotesi in cui tra le parti sia concluso un contratto di mandato con rappresentanza, Cass. 10 novembre 2000, n. 14637, cit., stabilisce che la soluzione si troverà “nella necessità dell’atto scritto per la procura, ma nella libertà di forme quanto al mandato. […] La regolamentazione dei rapporti nascenti dal mandato non necessita di forma scritta, perché la base della disciplina della vicenda traslativa sta nella procura”. Per la stessa interpretazione, si rimanda altresì a Cass. 30 maggio 2006, n. 12848, cit., e a Cass., ord. 24 gennaio 2012, n. 1007. Stabiliscono, invece, la necessità della forma scritta anche per il mandato con rappresentanza, ex multis, Cass. 19 novembre 1982, n. 6239, cit., e Cass. 9 febbraio 1965, n. 211. Anche in dottrina non è mancato chi ha sostenuto tale tesi, si veda F. M. Dominedò, Mandato, cit., 122). Inoltre, la stessa giurisprudenza che ha aderito alla tesi della nullità del mandato immobiliare orale è giunta in alcuni casi ad esiti contraddittori. Nelle decisioni motivate in modo più approfondito, anche i giudici di legittimità si sono dimostrati sensibili alla distinzione tra rapporto interno e rapporto esterno del mandato, ossia tra rapporto mandante-mandatario – che si concreta nell’incarico conferito al mandatario e in tutte le obbligazioni ad esso connesse, a carico sia del mandante che del mandatario – e quello mandatario-terzi – ossia il negozio gestorio, che coinvolge solitamente un terzo -. La giurisprudenza maggioritaria ritiene che dal mandato nullo possa scaturire solo l’obbligo del mandatario alla restituzione a titolo di indebito ex art. 2033 c.c. di quanto ricevuto dal mandante al fine di svolgere l’incarico conferito, poiché da un contratto nullo non possono sorgere obbligazioni (secondo Cass. 18 giugno 1998, n. 6063, “premesso invero che il mandato ad acquistare beni immobili richiede la forma scritta ad substantiam (giurisprudenza pacifica), la tesi dell’ammissibilità dell’actio mandati per il risarcimento dei danni, pur talora sostenuta da questa Corte, appare inconciliabile e contraddittoria con il principio della necessità della forma scritta ad substantiam e della nullità conseguente al difetto di tale forma. Infatti, la nullità del negozio derivante dalla mancanza di uno dei requisiti di cui all’art. 1325 c.c. impedisce che si costituisca il rapporto giuridico e che sorga, quindi, alcuna obbligazione tra le parti. Perciò colui che ha conferito il mandato oralmente, come non può, per la nullità del negozio, rivendicare l’immobile né chiederne il trasferimento in suo favore, non essendo sorto a carico del preteso mandatario l’obbligo corrispondente, così non può, esperendo l’actio mandati, chiedere il risarcimento del danno per inadempimento: non si può parlare infatti di inadempimento laddove non sia sorta alcuna obbligazione da adempiere. Fuori da ogni logica giuridica sarebbe, in definitiva, far derivare da un contratto nullo per difetto di forma, improduttivo come tale di effetti tra le parti, l’obbligo del risarcimento che è di sua natura una obbligazione sostitutiva”. Per tale tesi, si vedano anche Cass. 12 gennaio 1991, n. 256 e Cass. 18 aprile 1994, n. 3706). Tuttavia, non sono mancate sentenze della Corte di Cassazione che, nonostante la declaratoria di nullità del mandato per carenza della forma prescritta, hanno riconosciuto al mandante l’actio mandati. Tali decisioni sanciscono che la nullità del mandato orale esclude il diritto del mandante ad agire per l’esecuzione in forma specifica ai sensi dell’art. 2932 c.c. al fine di farsi trasferire l’immobile oggetto del mandato ad acquistare, ma non elimina il diritto dello stesso mandante all’azione per il risarcimento del danno per inadempimento nei confronti del mandatario, a motivo del loro rapporto “fiduciario” (tra le più recenti, si vedano Cass. 26 febbraio 1966, n. 596, e Cass. 2 agosto 1975, n. 2954, che, nel caso di mandato senza rappresentanza, stabilisce che “l’immobile viene acquistato dal mandatario, che può (ove, come nella specie, il mandato senza rappresentanza ad acquistare l’immobile non sia stato consacrato in forma scritta) essere soltanto condannato al risarcimento del danno se non adempia all’obbligo di trasferire la proprietà al mandante”; Cass. 3 aprile 1991, n. 3468, in Corr. giur., 1991, 772. Contraria a tale conclusione è autorevole dottrina, la quale ha evidenziato che “nel tentativo di ovviare, evidentemente, al rigore dei risultati cui tale tesi conduce, specie la giurisprudenza della Corte di Cassazione non potendo riconoscere al mandante l’azione di cui all’art. 2932 nei confronti del mandatario il quale abbia acquistato un immobile in esecuzione di un mandato concluso in forma verbale, si sforza, sia pur continui ripensamenti, di ammettere in favore del mandante almeno un diritto al risarcimento dei danni per inadempimento del mandatario. Sembra peraltro innegabile che una volta affermata la nullità (totale) del mandato, non producendosi alcun effetto tipico di questo negozio, non è ipotizzabile una inesecuzione dell’incarico da parte del mandatario e quindi neppure un’azione di danni del mandante […] rimanendo soltanto salva l’eventuale pretesa del mandante stesso alla restituzione delle eventuali anticipazioni” (A. Luminoso, Mandato, commissione, spedizione, cit., 382-383). Per la stessa interpretazione, si vedano anche M. Graziadei, Mandato, cit., 161 e C. Santagata, Art. 1703-1709. Mandato. Disposizioni generali, cit., 277).

    Dunque, scindendo il rapporto interno derivante dal mandato da quello esterno, la stessa Corte di cassazione, in taluni casi, ha disatteso la tesi dell’inammissibilità della responsabilità contrattuale del mandatario in caso di mancato trasferimento al mandante del bene acquistato per conto di quest’ultimo sulla base di un mandato non consacrato dalla forma scritta. D’altra parte, far salvo il diritto ad agire contro il mandatario per l’inadempimento contrattuale derivante da un contratto nullo apre una questione di non scarsa rilevanza ai fini della determinazione della forma del mandato a compravendere, ossia quella dell’unitarietà degli effetti del mandato: riconoscendo o negando al mandato tale caratteristica, si giunge ad esiti interpretativi contrapposti relativi alla forma del mandato a stipulare negozi per iscritto (autorevole dottrina collega la questione della forma del mandato all’unitarietà (o meno) di tale contratto, affermando che “il problema è, nella sostanza, quello di distinguere (o meno) la volontà che dà vita al mandato e quella che dà vita al negozio giuridico da compiersi dal mandatario. Al contrario della giurisprudenza, la dottrina, con più fondamento, separa l’una volontà dall’altra” (G. Bavetta, Mandato, cit., 343, nota 87). A riprova della estrema rilevanza della concezione unitaria o meno del mandato rispetto alla problematica della forma di tale contratto è significativa una recente sentenza della Suprema Corte (il riferimento è a Cass. 2 settembre 2013, n. 20051, cit.). L’arresto ha fatto riemergere tale questione, in quanto, ponendosi apertamente in contrasto con l’orientamento della Corte di Cassazione sopra citato che sembrava ormai pacifico, ha ribaltato il principio della necessità della forma scritta a pena di nullità per il mandato ad acquistare beni immobili, riprendendo, in tal modo, il filone interpretativo della dottrina prevalente nel dopoguerra (cfr. G. Capozzi, Requisiti formali del mandato senza rappresentanza, in Dir. giur., 1946, 219 ss.; L. Cariota Ferrara, In tema di rappresentanza indiretta, in Giur. compl. Cass. civ., 1947, 3, 15; C. Stolfi, Sulla forma del mandato senza rappresentanza, in Temi Romana, 1949, 574 ss.; M. Giorgianni, Sulla forma del mandato senza rappresentanza, in Studi in onore di Antonio Cicu, Milano, 1951, I, 411 ss.; B. Carpino, Il mandato, la commissione, la spedizione, cit., 42 ss.). Ebbene, tale decisione giunge ad affermare la validità di un contratto di mandato ad acquistare un bene immobile, partendo da una premessa fondamentale: “tra il mandante e il mandatario senza rappresentanza trova applicazione il solo rapporto “interno”, con esplicazione dei relativi meri effetti obbligatori tra le parti”. Dunque, la S.C. esclude il rapporto esterno, coinvolgente il terzo, ritenendo la realizzazione dell’effetto reale in tale ipotesi una “mera eventualità” (Cass. 2 settembre 2013, n. 20051, cit. Probabilmente spinta anche dalla peculiare circostanza del caso giudicato, ossia l’incarico ad acquistare all’incanto, la Suprema Corte, in tale arresto, stabilisce che il mandato si esaurisce nel solo rapporto interno, ovvero nel “compimento dell’attività gestoria da parte del mandatario” e, di conseguenza, relega in una posizione di assoluta marginalità l’obbligo del mandatario di rimettere al mandante quanto acquisito nell’esecuzione del mandato. Dunque, al contrario di quanti avevano sostenuto che il mandato esprima, al pari di un preliminare, la volontà dei contraenti di stipulare un successivo contratto, la Corte di Cassazione afferma che il “mandato ad acquistare senza rappresentanza […] non costituisce fonte di alcun atto di dismissione di un diritto di proprietà o altro diritto reale su bene immobile in capo al mandante, ma determina l’insorgenza di un mero diritto del medesimo al compimento dell’attività gestoria da parte del mandatario”). Una volta individuato il contenuto del mandato nella sola attività gestoria “interna”, la S.C. può affermare che “l’onere di forma non può allora ritenersi necessario per il mandato, che costituisce la fonte del rapporto “interno” di gestione”, perché “la necessità della forma scritta […] si impone per gli atti che costituiscono titolo per la realizzazione dell’effetto reale in capo alla parte del negozio e, pertanto, per gli acquisti immobiliari”, al solo scopo di rispondere all'”esigenza di responsabilizzazione del consenso e di certezza dell’atto, in funzione della sicurezza della circolazione dei diritti”.

    La tesi della libertà delle forme del mandato a compravendere immobili si espone, però, ad un’inevitabile critica: mentre è possibile dibattere sull’unitarietà del mandato, ovvero sulla maggiore o minore intensità del legame tra i suoi effetti o tra il rapporto interno e il rapporto esterno, sembra eccessivo estromettere completamente dal programma negoziale il successivo atto di ritrasferimento degli effetti del negozio gestorio in capo al mandante (ciò che caratterizza maggiormente la sentenza citata – e che però, al contempo, ne costituisce il passaggio più debole – è l’individuazione della fonte dell’obbligo di contrarre il successivo negozio giuridico. La Suprema Corte, difatti, ritiene l’obbligo del mandatario – di ritrasferire il bene acquistato in esecuzione del mandato – derivante ex lege e non dalla volontà delle parti. Si esprimono in tal senso anche G. Capozzi, Requisiti formali del mandato senza rappresentanza, cit., 221 ss. e L. Mosco, Forma del mandato e forma del negozio da stipulare dal mandatario, in Riv. dir. proc., 1948, 2, 36 ss.).

    Non a caso tale ricostruzione è criticata dalla dottrina dominante, che sottolinea proprio l’essenzialità dell’obbligo di ritrasferimento, considerato che il programma negoziale sotteso al mandato (senza rappresentanza) ha, per l’appunto, come risultato finale l’acquisizione in capo al mandante degli effetti del negozio gestorio (per tale interpretazione, si vedano G. Bavetta, Mandato, cit., 333-334 e G. Minervini, Il mandato, la commissione, la spedizione, cit., 28-29. Anche altra autorevole dottrina osserva che i “congegni effettuali intesi ad operare l’effettiva riversione al mandante dei singoli risultati vantaggiosi e svantaggiosi dell’attività gestoria […] – il più delle volte – non si producono immediatamente, ossia al perfezionarsi del mandato, ma rimangono in una fase di pendenza, sospesi o quiescenti in attesa di ulteriori fatti al cui verificarsi soltanto potranno prendere vita (con efficacia ex nunc) […]. La circostanza che per il prodursi di siffatti effetti la stipulazione del mandato non sia sufficiente e si richieda il verificarsi di altri accadimenti, ha fatto pensare ai più a degli effetti non ex mandato ma ex lege e comunque induce comunemente a ritenere che ci si trovi di fronte a vicende effettuali la cui fonte sarebbe costituita da una fattispecie complessa extra-negoziale, della quale il mandato costituirebbe soltanto uno degli elementi componenti […]”: A. Luminoso, Mandato, commissione, spedizione, cit., 195-196. L’Autore conclude per “l’inaccettabilità delle impostazioni dottrinali richiamate” e mette in luce “la necessità di ricongiungere causalmente al contratto di mandato siffatti effetti (sospesi), essendo gli stessi implicati dal sistema di interessi che caratterizza questo negozio ed essendo diretti quindi alla realizzazione dei risultati con esso programmati” (ivi, 196)).

    Alla luce di quanto fin qui argomentato, si può ritenere che l’ultimo orientamento della Corte di Cassazione soddisfa le esigenze di “giustizia sostanziale”, ma non assicura la coerenza ed il rigore della ricostruzione concettuale e teorica. Pertanto, resta dominante l’orientamento contrario alla libertà di forme del mandato senza rappresentanza a compravendere beni immobili, considerando, tuttavia, altamente probabile che su tale tema si assisterà in futuro a nuovi interventi della Cassazione.

     

    Mandato ad acquistare senza rappresentanza: atto di ritrasferimento ed esecuzione in forma specifica

    Strettamente connessa alla problematica della forma del mandato è quella dell’applicabilità dell’azione ex art. 2932 c.c. nell’ipotesi in cui il mandatario non provveda spontaneamente a ritrasferire il bene acquistato mediante il negozio gestorio. Nel caso di mandato valido ed efficace il problema non sorge, perché può trovare applicazione l’espressa previsione dell’art. 1706, comma 2, c.c. e, di conseguenza, può essere esperita l’azione di esecuzione specifica dell’obbligo di concludere un contratto (cfr. Cass. 20 marzo 1982, n. 1814).

    La questione, invece, è dibattuta allorquando il mandatario compie il negozio gestorio avente ad oggetto un bene immobile sulla base di un mandato orale, che, seguendo l’orientamento dominante in giurisprudenza, viene ritenuto nullo per carenza del requisito della forma. Secondo una prima tesi, la nullità di un mandato a compravendere beni immobili privo della forma scritta comporta la mancanza di causa dell’eventuale spontanea esecuzione da parte del mandatario dell’atto di trasferimento al mandante (autorevole dottrina sostiene che “l’invalidità del mandato trascina con sé quella dell’atto di ritrasferimento, che rimane privo di giustificazione, e dà ingresso ad una condictio indebiti a favore del mandatario” (U. Carnevali, Mandato, cit., 5). Un altro Autore afferma che “la nullità di un contratto, per l’inosservanza della forma scritta ad substantiam, non consente la ricognizione né la conferma e neppure una valida esecuzione volontaria del negozio nullo; sicché il ‘ritrasferimento’ resta privo di causa e, quindi, nullo e ripetibile” (C. Santagata, Art. 1703-1709. Mandato. Disposizioni generali, cit., 276-277). Per la stessa ricostruzione, si veda anche G. Bavetta, Mandato, cit., 336).

    Anche la giurisprudenza ha accolto in alcuni casi tale scelta ermeneutica: la Suprema Corte ha, infatti, ritenuto che, “essendo la forma scritta richiesta ‘ad substantiam’, è necessario che risulti per atto scritto la manifestazione di volontà di entrambe le parti, proposta da un lato ed accettazione dall’altro, espressamente anche se non contestualmente (v. Cass. sent. 2843/1972), […]. Il difetto di forma, poi, comporta la nullità del negozio ed impedisce che si costituisca il rapporto giuridico e sorgano obbligazioni tra le parti” (Cass. 18 aprile 1994, n. 3706. Nella stessa direzione cfr. anche Cass. 23 dicembre 1987, n. 9634, cit.).

    Una diversa interpretazione viene data, invece, da un’altra parte della giurisprudenza di legittimità, secondo cui “la nullità del mandato all’acquisto di beni immobili, da trasferire successivamente al mandante, per difetto di forma scritta, non osta a che il mandatario possa dare spontanea esecuzione agli accordi verbali intercorsi con il mandante, e, quindi, non può di per sé costituire ragione d’invalidità dell’atto scritto che ponga in essere l’indicato trasferimento” (Cass. 18 aprile 1980, n. 2551). Anche autorevole dottrina non esclude che “nei casi in cui il mandatario abbia posto in essere il negozio traslativo in favore del mandante spontaneamente e nella consapevolezza della non impegnatività del mandato, si possa ritenere in tal modo adempiuta un’obbligazione naturale (art. 2034) da parte del mandatario” (A. Luminoso, Mandato, commissione, spedizione, cit., 384. Per la stessa interpretazione, si veda anche D. Rubino, La compravendita, in Trattato di diritto civile e commerciale, cit., 1962, XVI). Anche in questo caso le ragioni dei differenti orientamenti dipendono dalla concezione della natura del mandato o, rectius, dell’unitarietà o meno degli effetti obbligatori nascenti da esso. Secondo i sostenitori della prima tesi (dell’invalidità dell’atto di ritrasferimento), infatti, “il mandato senza rappresentanza non è, secondo la tradizione, idealmente scindibile in due diversi tronconi, nei quali trovano posto, da un canto, i rapporti tra mandante e mandatario e, dall’altro, quelli tra mandatario e terzo, ma va riguardato ormai nel suo insieme: unitariamente, anche se consta di momenti diversi” (G. Bavetta, Mandato, cit., 333. Nella stessa linea interpretativa possono essere annoverati L. Campagna, La posizione del mandatario ad acquistare beni mobili, in Riv. dir. civ., 1974, 7). Dunque, così concepito, il mandato è costituito da un fascio di obbligazioni talmente correlate da indurre a considerare unitari ed inscindibili gli effetti scaturenti dal contratto.

    Al contrario, chi ritiene valido il negozio di ritrasferimento rimarca che “le conseguenze formali del mandato possono essere sezionate, per così dire, in due tranches. La prima è costituita da un effetto a contenuto (costantemente) obbligatorio che impegna il mandatario al compimento dell’attività gestoria: effetto […] essenziale ed immancabile in qualunque specie del mandato (art. 1703). La seconda […] ricomprende al suo interno una serie di congegni effettuali intesi ad operare l’effettiva riversione al mandante dei singoli risultati vantaggiosi e svantaggiosi dell’attività gestoria” (A. Luminoso, Mandato, commissione, spedizione, cit., 194-195. L’Autore conclude che i due “tronconi” di effetti derivanti dal mandato “non sembra possano essere ricollegati, in via di principio, ad un’entità causale diversa dal mandato”, ivi, 195). Addirittura, si arriva a parlare di “diversità di negozi” in riferimento al mandato e al negozio gestorio, evidenziando “il distinto piano effettuale di ciascuno di essi” (C. Santagata, Art. 1703-1709. Mandato. Disposizioni generali, cit., 216. Minervini evidenzia una distinzione tra “un nucleo indefettibile delle obbligazioni del mandatario”, consistenti nell’obbligazione a compiere un’attività giuridica per conto del mandante, e le “operazioni accessorie”: G. Minervini, Il mandato, la commissione, la spedizione, cit., 41 ss.).

    Resta fermo che i sostenitori della tesi della nullità per carenza del requisito di forma prescritto dall’ordinamento, concordano, invece, sull’impossibilità per il mandatario di agire per il recupero del bene con l’azione di esecuzione in forma specifica ai sensi dell’art. 2932 c.c.: la Corte di cassazione ha, infatti, precisato “che dal mandato nasce a carico del mandatario, oltre che l’obbligazione di concludere il contratto con il terzo, anche l’obbligazione di trasferire al mandante il diritto che con tale contratto egli abbia acquistato. Perciò, sotto quest’ultimo riflesso il mandato opera come contratto preliminare (unilaterale), con la conseguenza che, qualora l’atto di trasferimento solutionis causa abbia per oggetto diritti immobiliari, il mandato deve rivestire, perché il mandante possa far ricorso – nell’ipotesi di inadempimento da parte del mandatario – allo strumento di cui all’art. 2932 (richiamato dall’art. 1706, comma 2), la stessa forma richiesta per l’atto di ritrasferimento, dovendosi far capo all’art. 1351 c.c. non potendo altrimenti il mandante che reclamare dal mandatario inadempiente il risarcimento del danno” (Cass. 2 luglio 1990, n. 6764, cit.). Paradossalmente anche l’interprete che ritiene non richiesta ad substantiam la forma scritta ritiene che il mandato verbale a compravendere beni immobili, sebbene valido (e non già nullo), non possa fondare l’obbligo di ritrasferimento, o meglio la sua eseguibilità in forma specifica, proprio in quanto privo della forma scritta (il riferimento è a Cass. 2 settembre 2013, n. 20051, cit.).

    Peraltro, quest’ultimo arresto citato sostiene l’eseguibilità in forma specifica dell’obbligo di ritrasferimento in forza dell’esistenza di un successivo atto unilaterale “ricognitivo”, redatto in forma scritta. Tuttavia, neanche l’azionabilità dell’art. 2932 c.c. sulla base di atti unilaterali ricognitivi può ritenersi pacifico, atteso che in altri arresti il giudice di legittimità ha escluso tale possibilità: la S.C. ha, infatti, ritenuto “insufficiente una lettera che, pur menzionando il conferimento del mandato, l’oggetto dello stesso (acquisto dell’immobile) ed il suo esito positivo, relativamente alla conclusione del contratto preliminare, […], non appare idonea, in quanto proveniente da una sola parte, a documentare l’incontro dei consensi: essendo, infatti, la forma scritta richiesta “ad substantiam”, è necessario che risulti per atto scritto la manifestazione di volontà di entrambe le parti, proposta da un lato ed accettazione dall’altro, espressamente anche se non contestualmente (v. Cass. sent. 2843/1972), e la ricognizione dell’avvenuto conferimento del mandato ad opera di una sola delle parti, anche se accompagnata da una quietanza, non configura la documentazione dell’incontro dei consensi” (Cass. 18 aprile 1994, n. 3706. Tale interpretazione era stata già adottata da una precedente sentenza della Cassazione, secondo cui “la dichiarazione ricognitiva della titolarità di un diritto reale immobiliare non è equiparabile, sul piano giuridico, ad un titolo attributivo della pretesa ad ottenere il trasferimento del bene qualora il titolo (mandato senza rappresentanza o pactum fiduciae) presupposto non risulti rivestito della necessaria forma scritta ad substantiam”: Cass. 23 dicembre 1987, n. 9634, cit.).

     DIGESTO – CIVILE – Gestione d’affari altrui di Paolo Gallo

    (Anno di pubblicazione: 2011)

    Sommario: 1. Cosa si intende per gestione d’affari altrui. – 2. I presupposti della gestione d’affari altrui. – 3. L’animus aliena negotia gerendi. – 4. La spontaneità dell’intervento. – 5. L’absentia domini. – 6. L’alienità dell’affare. – 7. L’utilità iniziale della gestione. – 8. La prohibitio domini. – 9. La capacità del gestore. – 10. La ratifica. – 11. L’oggetto della gestione. – 12. Gli effetti della gestione d’affari.

    1. Cosa si intende per gestione d’affari altrui.

    Si ha gestione d’affari altrui quando qualcuno assume consapevolmente la gestione di un affare altrui senza esservi previamente obbligato. L’elemento caratterizzante la gestione è la spontaneità dell’intervento (1). L’intromissione non autorizzata negli affari altrui integra in linea di principio gli estremi di un vero e proprio atto illecito (culpa est immiscere se rei ad se non pertinenti), in quanto nessuno può sostituirsi di propria iniziativa ad altri nella cura dei loro affari. Questa fondamentale regola della convivenza civile può però subire deroghe ogniqualvolta si vengano a determinare situazioni di emergenza in cui il diretto interessato non è in grado di provvedere personalmente ai propri interessi.

    Si pensi per esempio ad un vicino che, nell’assenza involontaria del proprietario, estingua un incendio appiccato da un fulmine, si curi di nutrire i suoi animali (2), faccia effettuare riparazioni urgenti, provveda alle spese di un funerale (3); la giurisprudenza ha inoltre ravvisato gli estremi della gestione anche in caso di adempimento integrale dell’obbligo alimentare nei confronti dei figli da parte di uno solo dei genitori (4), e così via. Lo si è viceversa escluso nel caso in cui chi ha assunto l’impegno di alienare un immobile sulla base di una scrittura privata, prima della redazione del rogito abbia alienato parte del bene a terzi, oltre tutto ad un prezzo inferiore rispetto a quello pattuito nella scrittura privata (5). In tutti questi casi l’ingerenza dell’estraneo perde i suoi connotati di illiceità per assumere una valenza positiva; è infatti in primo luogo interesse del proprietario che altri si sostituisca a lui in caso di impossibilità a provvedere personalmente.

    Ma l’istituto della gestione d’affari altrui trascende l’interesse personale dei singoli; è infatti conforme all’interesse della collettività che qualcuno, non importa chi, si curi della conservazione dei beni in modo tale da evitare l’inutile spreco di risorse.

    Da un punto di vista economico è sicuramente più efficiente consentire che altri compia atti di gestione sui beni altrui in caso di impossibilità da parte del diretto interessato di provvedervi personalmente, piuttosto che considerare in ogni caso illecito questo genere di intromissioni (6).

    L’istituto trae le sue origini dall’antico diritto romano quando proprio per le ragioni che abbiamo appena esposto, si iniziò a ritenere che l’ingerenza negli affari altrui non potesse sempre essere considerata alla stregua di un atto illecito, specie quando l’intervento del gestore fosse in qualche modo giustificato dall’urgenza e dall’impossibilità da parte del proprietario di provvedervi personalmente (7).

    1. I presupposti della gestione d’affari altrui.

    I presupposti della gestione d’affari altrui vengono tradizionalmente individuati in un requisito di ordine soggettivo ed in quattro requisiti di ordine oggettivo, vale a dire l’intenzione di gestire un affare altrui (animus aliena negotia gerendi), la spontaneità dell’intervento, l’impossibilità di intervenire da parte del diretto interessato (absentia domini), l’alienità dell’affare e l’utilità dell’inizio della gestione (utiliter coeptum) (8). In presenza di tutti questi requisiti e purché non vi sia prohibitio domini, e sempre che l’affare sia lecito (9), il gestore avrà diritto al particolare trattamento di favore riservato dal legislatore a chi si ingerisce spontaneamente negli affari altrui in una situazione di emergenza. In particolare il gestore avrà il diritto di essere integralmente rimborsato anche nel caso in cui la gestione non sortisca un esito positivo (modulo restitutorio B).

    La mancanza anche solo di uno di essi vale invece a dequalificare il comportamento del gestore ed a renderlo illecito (culpa est immiscere se rei ad se non pertinenti). In applicazione dei principi generali il gestore, se il suo intervento abbia causato danni, potrà essere condannato a risarcirli (art. 2043 c.c.); se viceversa il dominus abbia tratto giovamento dal suo intervento, il gestore sarà legittimato ad agire in arricchimento senza causa (art. 2041 cc.). L’onere di provare i requisiti dell’azione compete al gestore (10), e l’accertamento di essi viene considerato alla stregua di un giudizio di fatto incensurabile in Cassazione se adeguatamente motivato (11).

    1. L’animus aliena negotia gerendi.

    Essenziale ai fini della configurazione di un valido atto di gestione è l’intenzione di gestire un affare altrui. Come già sappiamo, questo requisito era stato messo in dubbio da tutta la tradizione giuridica intermedia, la quale aveva incorporato nella gestione d’affari l’azione di ingiustificato arricchimento. Il codice del 1865 sembrava aver accolto la cosiddetta concezione soggettiva della gestione d’affari altrui, riferendosi a chi “volontariamente” gestisce un affare altrui.

    La maggior parte delle pronunce si erano del resto schierate a favore di una tale concezione (12). Per evitare eventuali incertezze interpretative, il codice del 1942 ha comunque impiegato l’espressione scientemente (art. 2028 c.c.), la quale non lascia dubbi circa la necessità dell’animus ai fini della configurabilità di un valido rapporto gestorio (13). In queste circostanze l’atto di gestione compiuto per errore non integra gli estremi della gestione d’affari altrui, con la conseguenza di poter fondare una pretesa di natura restitutoria solo nel caso in cui l’atto stesso abbia prodotto un risultato positivo (art. 2041 c.c.); salva ancora la disciplina degli arricchimenti imposti.

    La linea di distinzione tra gestione d’affari altrui ed arricchimento senza causa è senza dubbio molto sottile dato che il medesimo comportamento materiale (per esempio riparare il tetto di un edificio) può indifferentemente integrare sia gli estremi della gestione degli affari altrui che dell’arricchimento senza causa, a seconda che il gestore sia intervenuto consapevolmente per curare un affare altrui o semplicemente per errore circa la titolarità del bene in questione (14). Per comune affermazione della dottrina è comunque sufficiente che l’animus sia presente nelle fasi iniziali della gestione; una sua eventuale trasformazione successiva in animus depredandi (15) varrebbe solo ad integrare una violazione degli obblighi del gestore sottoponendolo per ciò stesso all’obbligo di risarcire i danni (16).

    La volontà del gestore deve essere unicamente rivolta a volere l’atto che costituisce la gestione, non a perseverare in una tale volontà, né tanto meno a volere le conseguenze di carattere obbligatorio che ne derivano. L’animus sussiste anche se il gestore si sbaglia circa la persona del dominus (17).

    L’animus può essere desunto anche implicitamente dalle circostanze; a questi fini non è cioè necessaria una dichiarazione espressa (18).

    L’animus aliena negotia gerendi è escluso non solo dall’errore o dall’intenzione di trarre un vantaggio ingiusto (animus depredandi)24, ma anche dall’intenzione liberale di chi effettua l’atto di gestione (animus donandi) (19).

    Lo si vede soprattutto in materia di diritto di famiglia in relazione alle prestazioni effettuate benevolentiae ac donandi causa. In questa prospettiva colui il quale abbia adempiuto ad un obbligo alimentare in luogo di un altro è legittimato ad avanzare pretese di carattere restitutorio solo nel caso in cui non abbia agito per spirito di pura liberalità (20).

    1. La spontaneità dell’intervento.

    Chi assume la gestione di un affare altrui deve operare spontaneamente, senza esservi obbligato (21); se sussistesse un tale obbligo si esulerebbe per ciò stesso dal campo di applicazione della gestione d’affari altrui per ricadere o in quello del mandato, o in uno dei vari casi di gestione ex lege di un patrimonio altrui (tutela, curatela, e così via) (22). L’azione non è pertanto proponibile ove il gestore abbia adempiuto la prestazione in esecuzione di un contratto e sia successivamente decaduto dall’azione contrattuale proponibile per ottenere il rimborso delle somme pagate (23). Occorre inoltre che l’azione di gestione sia stata proposta in modo autonomo e specifico (24).

    In dottrina si è ampiamente discusso se sia configurabile o meno un rapporto gestorio anche in presenza di un previo incarico ove la persona incaricata, si pensi tipicamente ad un mandatario, nel corso della gestione si sia trovato nella necessità di compiere atti ulteriori o diversi rispetto a quelli concordati. Gli autori che hanno affrontato la questione si sono per lo più espressi a favore della possibilità di innesto di un rapporto gestorio su di un preesistente rapporto contrattuale ove le circostanze lo giustifichino (25). Nonostante la presenza di alcune decisioni in senso contrario (26), anche la più recente giurisprudenza sembra finalmente aver recepito questo insegnamento (27).

    Una tale soluzione è del resto conforme alla ratio ed alla funzione originaria dell’istituto della negotiorum gestio, teso a consentire nei limiti del possibile il recupero sul piano del diritto degli atti compiuti al di fuori di uno schema prestabilito (28).

    1. L’absentia domini.

    Tradizionalmente per potersi fare applicazione delle norme sulla gestione d’affari altrui si richiede l’impossibilità da parte del dominus di curare utilmente i suoi interessi (absentia domini). Nella vigenza del codice del 1865, questo requisito era ancora inteso in modo rigoroso, conforme alla tradizione romana. Secondo un filone dottrinale e giurisprudenziale formatosi in questo periodo sarebbe stata necessaria non solo l’absentia domini, ma anche la sua inscientia (29).

    In caso contrario, se il dominus era a conoscenza dell’intervento del gestore e non si opponeva in modo espresso, sarebbe stato possibile configurare un vero e proprio mandato tacito (30).

    Attualmente le cose sono però notevolmente mutate. Poiché il requisito della absentia domini, così come lo intendevano i romani, è ormai per lo più inconcepibile, la nostra giurisprudenza lo ha relativizzato (31). L’absentia viene cioè intesa sempre meno come assenza fisica, ma come semplice impossibilità a provvedere, come per esempio in caso di dominus presente ma incosciente (32). In questa prospettiva sarebbe così concepibile anche un atto di gestione a favore di un dominus impossibilitato ad intervenire in quanto in prigione (33).

    La giurisprudenza ha esteso ulteriormente questa impostazione giungendo a formulare il principio in virtù del quale ai fini della configurabilità della absentia sarebbe sufficiente la mancata opposizione da parte del dominus (34); il che equivale a dire che può configurarsi un valido atto di gestione purché non vi sia prohibitio (35).

    In base a questa impostazione troviamo deciso, per esempio, che un condomino può utilmente locare la cosa comune, fino a che l’altro condomino esplicitamente o implicitamente non gli faccia conoscere il suo divieto (36).

    Si tratta di un’impostazione che in qualche modo tende a rivitalizzare l’istituto della gestione d’affari altrui, estendendone il campo d’applicazione al di fuori di quelli che erano i suoi ristretti limiti tradizionali; la quale è stata accolta con favore da parte della maggior parte degli autori contemporanei (37). Anche se non è difficile obiettare che perseverare in questa direzione potrebbe comportare una progressiva vanificazione del requisito dell’absentia domini (38).

    Così facendo si tende a spostare l’accento sull’utilità dell’intervento, piuttosto che non sull’assenza del dominus; ma in questo modo l’azione di gestione si intorbida, fino ad assumere quasi l’aspetto di un’azione di arricchimento.

    In dottrina si è altresì discusso cosa possa succedere nel caso in cui qualcuno si ingerisca negli affari altrui ritenendo erroneamente che il dominus sia impedito ad occuparsene. La questione è stata dibattuta soprattutto in Francia dove la dottrina si è per lo più espressa a favore della configurabilità di un valido atto gestorio anche a favore di chi si ingerisce negli affari di un altro ritenendo che il diretto interessato non sia in grado di provvedervi (39).

    Un diverso parere è invece stato espresso dalla dottrina italiana (40).

    Salvo in ogni caso il ricorso all’azione di arricchimento, ove ne sussistano i presupposti. La giurisprudenza ammette inoltre che anche il gestore possa essere assente ed operare per il tramite di terzi (41).

    1. L’alienità dell’affare.

    L’intervento della giurisprudenza si nota altresì sotto il profilo dell’alienità dell’affare.

    Per aversi negotiorum gestio occorre ovviamente che il gestore intervenga a tutela di interessi che competono ad altri. Chi agisce nel proprio esclusivo interesse non compie atti di gestione (42).

    Anche il requisito dell’alienità dell’affare viene però inteso in senso sempre più lato.

    In questa prospettiva il concorso di interesse del gestore con quello del dominus non sarebbe di ostacolo alla configurabilità di un valido atto gestorio, sempre che l’interesse del dominus sia prevalente (43); non però anche nel caso in cui l’atto posto in essere nel proprio interesse, per esempio l’estinzione di un incendio sul proprio fondo, venga indirettamente a beneficare anche i proprietari dei fondi finitimi (windfall) (44).

    Grazie ad una tale interpretazione estensiva si è per esempio ritenuto possibile configurare un valido rapporto gestorio a favore di chi detenga un immobile in virtù di un contratto di locazione (45). Un’altra interessante applicazione di questa impostazione si trova in materia di condominio dove si ammette la configurabilità di un valido atto gestorio a favore del condomino o dei condomini che nell’assenza degli altri curino gli affari comuni (46); o ancora di un coerede che curi gli interessi comuni (47). In queste condizioni non è difficile rendersi conto del fatto che la giurisprudenza legittima di fatto singoli condomini o le minoranze a prendere decisioni che in caso di urgenza vincolano la maggioranza (48).

    1. L’utilità iniziale della gestione.

    Problemi sorgono anche per quel che attiene l’utilità iniziale della gestione (49).

    Come già sappiamo nel periodo intermedio fino alle soglie dell’epoca moderna aveva finito con il prevalere la concezione in base alla quale assumerebbe rilevanza, più che non l’utilità iniziale della gestione (utiliter coeptum), l’utilità effettiva della gestione stessa (utiliter gestum). Questa concezione compare ancora, oltre che nel codice francese, anche nel codice civile italiano del 1865, il quale sancisce a chiare lettere che il dominus risulta obbligato a rimborsare il gestore solo nel caso in cui l’affare sia stato ben amministrato (art. 1144). Già nella vigenza del codice del 1865 la giurisprudenza riteneva però per lo più sufficiente l’utilità iniziale della gestione. Questa concezione rigorosa, conforme alla ratio originaria dell’istituto, doveva infine prendere il sopravvento, specie in seguito alla configurazione di un’autonoma azione per il recupero dei trasferimenti ingiustificati di ricchezza. L’art. 2031 c.c. sancisce chiaramente che ai fini della configurabilità di un valido atto gestorio è sufficiente la prova dell’utilità iniziale della gestione (50).

    È indubbio peraltro che, anche nel quadro dell’attuale legislazione, non sarebbe possibile escludere la presenza dell’utilità iniziale ove la gestione sia stata utilmente svolta (51).

    Questo intervento chiarificatore non è però valso a sopire tutte le polemiche.

    In particolare in dottrina continua a discutersi se l’utilità iniziale della gestione debba essere valutata in base ad un criterio oggettivo, o piuttosto tenendo conto dei particolari interessi ed aspirazioni del dominus (52).

    Il problema può in concreto porsi ogniqualvolta il gestore ponga in essere atti di gestione che il dominus non avrebbe mai effettuato, come per esempio riparare il tetto di un edificio pericolante che il dominus aveva deciso di demolire, e così via.

    La giurisprudenza ha giustamente risolto la questione attribuendo prevalenza alla concezione oggettiva; in questa prospettiva potrebbe ravvisarsi l’utilità iniziale della gestione ogniqualvolta sia stata esplicata un’attività che producendo un incremento patrimoniale o risolvendosi in un’evitata perdita economica sarebbe stata esercitata dallo stesso dominus quale buon padre di famiglia, se avesse dovuto provvedere efficacemente da sé alla gestione dell’affare (53). Questa soluzione risulta giustificata dal fatto che, come possiamo ricordare, la gestione d’affari altrui soddisfa altresì esigenze di pubblico interesse, vale a dire l’esigenza di preservare i patrimoni (54).

    L’intervento del gestore deve però in ogni caso essere necessario (55); si richiede cioè un certo grado di diligenza anche da parte del gestore in sede di valutazione dell’utilità dell’intervento.

    1. La prohibitio domini.

    La prova dei requisiti che abbiamo esaminato fino a questo momento non è però sufficiente a configurare gli estremi di un valido atto gestorio se sussiste una prohibitio domini (art. 2031, cpv.) (56). Nessuno può infatti ingerirsi negli affari di un altro se il suo intervento non è desiderato, sempre che naturalmente il gestore fosse a conoscenza del divieto o in condizioni di conoscerlo (57).

    Evidenti esigenze di tutela della libertà individuale fanno sì che la presenza di una prohibitio, non importa se espressa o tacita, inibisca la configurabilità della gestione d’affari, determinando una insindacabilità delle valutazioni soggettive dell’interessato.

    Non sempre è però possibile impedire il sorgere di un rapporto gestorio; vi sono infatti valori che trascendono l’interesse individuale. L’art. 2031, cpv., del codice del 1942 molto opportunamente dispone che la prohibitio non ha effetto ogniqualvolta il divieto sia contrario alla legge, all’ordine pubblico ed al buon costume. Si tratta del resto di regole che sono rinvenibili nella maggior parte degli ordinamenti contemporanei (58). Le applicazioni più frequenti di questa regola si trovano in materia di diritto di famiglia quando qualcuno si sostituisce ad un altro nell’adempimento di un obbligo di natura alimentare contro l’espresso divieto del diretto obbligato. In questi casi la giurisprudenza non ha mai esitato a configurare un valido atto gestorio nonostante la prohibitio (59). Può ancora essere interessante rilevare come in questi casi la gestione d’affari tenda ad assumere una configurazione particolare. Cessa infatti di essere necessaria la prova di requisiti come per esempio l’absentia e l’utilitas, essendo sufficiente che sia provato l’inadempimento, non importa da quale causa originato, di un obbligo avente contenuto di dovere giuridico pubblico (60).

    Ancora diversa è la questione che sorge nel caso in cui l’atto di gestione, ancorché proibito, abbia avuto un esito positivo. La questione è stata ampiamente discussa dalla dottrina non solo italiana. Secondo un folto gruppo di autori italiani sarebbe possibile far applicazione dell’azione generale di arricchimento senza causa nonostante la presenza di una prohibitio (61).

    Secondo un altro filone dottrinale, certo non meno consistente ed autorevole, che si fonda sull’autorità di Giustiniano (C. 2, 18, 19, 24), sull’elaborazione intermedia, su alcuni codici moderni (§ 1044 cod. austriaco; §§ 249, 250, 253 cod. prussiano), su una buona parte della dottrina tedesca (62), ed un folto gruppo di autori italiani (63), non spetterebbe invece alcuna azione a chi agisce contro la proibizione del dominus.

    Fra queste due soluzioni ci pare preferibile la seconda; riconoscere un qualche diritto di rimborso a chi abbia agito contro l’espresso divieto dell’interessato, costituirebbe una grave forma di lesione della libertà individuale, ovvero della libertà che ciascuno di noi ha di disporre come meglio crede dei suoi affari. Nel caso in cui l’ingerenza proibita abbia causato danni, sarà invece ovviamente possibile chiedere il risarcimento in applicazione dei principi generali (art. 2043 c.c.).

    Sempre in applicazione dei principi generali, ove la gestione proibita abbia comportato non solo danni, ma anche vantaggi, dall’ammontare dei danni da risarcire occorrerà detrarre gli eventuali benefici apportati in conformità alle regole della cosiddetta compensatio lucri cum damno (64).

    1. La capacità del gestore.

    Il codice civile italiano del 1942, risolvendo una disputa che agitava la dottrina sotto il vigore del codice del 1865, sancisce espressamente che il gestore deve avere la capacità di agire. La ratio di questa norma è facilmente intuibile; si vuole infatti evitare che l’incapace soggiaccia alle normali obbligazioni che sorgono a carico del gestore (65).

    In dottrina è stato peraltro proposto di limitare il requisito della capacità di agire ai soli atti negoziali, con esclusione degli atti materiali, per i quali dovrebbe ritenersi sufficiente la capacità naturale di agire (66). Il problema in realtà non si pone più di tanto, perché, ferma restando l’esclusione dell’assunzione a carico dell’incapace degli obblighi tipici che nascono dalla gestione, se l’intervento abbia causato danni, il gestore o chi per esso sarà tenuto a risarcirli; se viceversa l’atto di gestione abbia prodotto un risultato positivo, dovrà riconoscersi al gestore la possibilità di agire in arricchimento. In ogni caso l’eventuale negozio concluso dal gestore sarà invalidabile ove sussistano vizi della volontà del gestore stesso (art. 1390 c.c.) (67). Non pone invece particolari problemi la gestione compiuta a favore di incapaci (68); anche se la gestione produrrà effetti in capo al rappresentante, il quale deve a tutti gli effetti considerarsi dominus negotii (69). Nei casi di questo genere la gestione, purché ne sussistano tutti i presupposti, consente pertanto di evitare tutte le formalità, autorizzazioni, e così via previste dalla legge a tutela degli incapaci (70).

    1. La ratifica.

    L’art. 2032 c.c. stabilisce che la ratifica dell’interessato produce relativamente alla gestione gli effetti che sarebbero derivati da un mandato. Per comune ammissione una ratifica non aggiunge nulla ad una gestione già perfetta; in base ai principi generali il gestore è infatti già di per sé soggetto alle stesse obbligazioni che deriverebbero da un mandato (art. 2030 c.c.). Essa vale però a fugare eventuali incertezze circa l’effettiva sussistenza di tutti i requisiti della gestione d’affari (71). Notevole è invece la rilevanza della ratifica nei casi di gestione imperfetta, ovvero priva di un qualche requisito prescritto dalla legge. L’art. 2032 c.c. fa espresso riferimento alla gestione effettuata senza animus, ma per comune ammissione l’istituto della ratifica può trovare applicazione anche in caso di carenza di uno qualsiasi degli altri requisiti tradizionali della gestione d’affari (absentia, utiliter, e così via) (72).

    Ove manchi un qualche requisito previsto dalla legge, il dominus può infatti sempre ratificare perché i requisiti sono previsti nel suo esclusivo interesse (73). Un altro problema che è possibile discutere è se in seguito alla ratifica il gestore abbia diritto ad un compenso. Se infatti è vero che la ratifica produce gli stessi effetti che sarebbero derivati da un mandato, e poiché in base all’art. 1709 c.c. il mandato si presume oneroso, ne dovrebbe discendere che anche il gestore ha diritto ad essere compensato.

    In realtà non pare che il gestore abbia un maggior diritto al compenso nei casi di ratifica rispetto a quelli ordinari, dato che anche in termini generali la gestione d’affari produce a favore del gestore gli stessi effetti che sarebbero derivati da un mandato (art. 2031 c.c.).

    Il problema se il gestore abbia o meno diritto ad un compenso per l’opera prestata deve semmai essere affrontato in termini generali, in relazione a qualsiasi tipo di gestione (74). In ogni caso la ratifica può produrre gli effetti di un mandato con rappresentanza o senza rappresentanza a seconda che il gestore abbia speso il nome del dominus o concluso il negozio in nome proprio (75). In questa prospettiva la ratifica di una gestione non rappresentativa non vale ad instaurare una relazione diretta tra il dominus negotii ed il terzo, né vale a legittimare il dominus ad un intervento volontario nella causa instaurata tra il gestore ed il terzo contraente (76). Secondo la giurisprudenza la ratifica del contratto concluso dal rappresentante senza poteri si verifica non solo quando il dominus chiede in giudizio l’esecuzione del contratto, ma anche quando ne domanda la risoluzione; in quanto anche in questa ipotesi si avrebbe una manifestazione inequivoca circa la volontà di far proprio il contratto (77). In applicazione dei principi generali, la ratifica dovrà rivestire le stesse forme prescritte per la conclusione del contratto (art. 1399 c.c.) (78); nei casi di questo genere può altresì essere chiesta l’esecuzione in forma specifica dell’obbligo di contrarre (79).

    Il contratto concluso dal gestore senza i relativi poteri non è nullo, ma rimane sospeso (80). In conformità ai principi generali dovrà ritenersi che il terzo e colui che ha contrattato come gestore possano di comune accordo sciogliere il contratto prima della ratifica (art. 1399, 3° co., c.c.). Durante la pendenza la controparte può altresì fissare un termine per la ratifica, scaduto il quale si intende liberata (art. 1399, 4° co., c.c.) (81). Prima della ratifica, né il gestore. né il terzo possono però recedere unilateralmente (82). Per l’esercizio del diritto di ratifica non sono previsti termini, salvo il termine decennale ordinario di prescrizione (art. 2946 c.c.).

    La ratifica ha effetto retroattivo, ma in conformità ai principi generali vengono fatti salvi i diritti dei terzi di buona fede che abbiano acquistato diritti in relazione al bene oggetto della gestione (art. 1399, 2° co., c.c.) (83).

    Questo vale anche nel caso in cui la ratifica si riferisca alla nomina di un arbitro (84).

    In ogni caso il gestore che abbia concluso il contratto in nome di un altro senza averne il potere ed in mancanza dei presupposti tipici della gestione d’affari risponde del danno che il terzo contraente abbia subito per aver confidato senza sua colpa nella validità del contratto (art. 1398 c.c.).

    1. L’oggetto della gestione.

    Il concetto di “affare altrui” enunciato dall’art. 2028 c.c. è sicuramente molto più ampio di quello di “atti giuridici” che compare in materia di mandato (art. 1703 c.c.).

    Per comune ammissione l’affare può quindi riferirsi sia ad atti giuridici che materiali.

    L’affare, oltre ad essere lecito (art. 1140 cod. 1865), deve avere contenuto patrimoniale (85); dovendosi escludere atti di gestione in materia di diritto di famiglia ed ogniqualvolta entrino in gioco interessi e ragioni di carattere personale. Più dubbio è se l’affare debba essere unico, o possa configurarsi anche la gestione di un intero patrimonio. Questa soluzione, già ammessa dal diritto romano, è viceversa avversata da alcuni autori moderni (86). Preferibile è comunque la tesi che non pone pregiudiziali circa l’ammissibilità di atti di gestione non limitati ad un solo affare (87). Si discute altresì se il gestore possa compiere atti eccedenti l’ordinaria amministrazione, o di disposizione dei beni del dominus. Per quel che riguarda gli atti di straordinaria amministrazione un forte argomento a contrario deriva dall’art. 1708 c.c. in tema di mandato, il quale stabilisce che il mandato generale non comprende gli atti che eccedono l’ordinaria amministrazione, se non sono indicati espressamente. In conformità ad una tale impostazione gli atti di straordinaria amministrazione potrebbero vincolare il dominus solo nel caso in cui subentri la di lui ratifica.

    In dottrina è però ormai prevalsa la tesi meno restrittiva circa le possibilità di intervento del gestore (88). Si considera infatti che visti i caratteri e le funzioni della gestione d’affari non avrebbe alcun senso escludere a priori la possibilità di atti che in quelle circostanze avrebbe posto in essere lo stesso dominus agendo come buon padre di famiglia. Si consideri ancora che sebbene nel progetto ministeriale (art. 752) la gestione fosse limitata ai soli atti di ordinaria amministrazione, nel progetto definitivo una tale limitazione non è stata riprodotta. In dottrina si discute se la gestione possa concernere anche atti dispositivi. Nella vigenza del Codice del 1865 la giurisprudenza aveva per lo più ritenuto che il gestore potesse compiere unicamente atti di amministrazione e non anche di disposizione (89).

    Questa linea di pensiero sembrerebbe del resto aver trovato conferma da parte dell’art. 2031 c.c. in base al quale il dominus è unicamente obbligato a tener indenne il gestore degli obblighi assunti. Ma anche questa tesi, se accolta nella sua assolutezza, potrebbe dar adito a risultati assurdi inibendo al gestore la possibilità stessa di alienare derrate alimentari, il latte appena munto, il pesce appena pescato, o ancora altri beni di natura deperibile; il che ovviamente non può essere consentito (90). Più discutibile è se il gestore possa anche alienare od acquistare beni immobili (91).

    Ci si potrebbe infatti domandare se in relazione a questo genere di beni possano sussistere ragioni di urgenza tali da rendere auspicabile l’atto di disposizione immobiliare. Mentre alcune decisioni hanno escluso la possibilità di una gestione in relazione ad atti che per loro natura richiederebbero la forma scritta (92); in seguito ha prevalso la soluzione più liberale, che ammette senza limitazioni anche la possibilità di gestioni aventi ad oggetto alienazioni immobiliari (93). Sebbene sia raro che possano verificarsi presupposti tali da rendere auspicabile atti di disposizione immobiliare da parte del gestore, pare preferibile non porre limitazioni a priori circa le possibilità di applicazione della gestione d’affari. In ogni caso secondo la giurisprudenza è escluso che il gestore possa modificare la destinazione economico sociale del bene (94). A parte questo la tipologia degli atti gestori può essere estremamente variegata.

    Per esempio effettua una gestione chi insegue con la propria auto un automezzo rubato, al fine di poterlo riprendere e consegnare al proprietario (95).

    E così pure chi provvede alle spese funerarie di un defunto nell’assenza dei parenti (96). Anche il pagamento di un debito altrui può integrare gestione d’affari, purché effettuato consapevolmente nell’interesse del debitore (97). Si pensi per esempio a chi provvede al pagamento della bolletta della luce in luogo del vicino, onde evitare l’interruzione dell’erogazione. Ove peraltro il pagamento del debito altrui fosse stato effettuato per errore si ricadrebbe nella figura dell’indebito soggettivo (art. 2036 c.c.). Può ravvisarsi gestione anche nel caso in cui una persona adempia un dovere alimentare che compete ad altri (98). L’attività finalizzata alla costituzione di una persona giuridica non può invece ricondursi allo schema della gestione d’affari altrui per carenza della situazione bilaterale (99). Dubbi possono sorgere in relazione al momento di inizio della gestione. Vi possono infatti essere anche atti cosiddetti preparatori che precedono la gestione vera e propria. Si pensi per esempio a chi stipuli un mutuo al fine di riparare il tetto dell’edificio del vicino.

    In realtà anche gli atti preparatori, nella misura in cui sono specificamente finalizzati a rendere possibile la gestione, sono a carico del dominus; ove viceversa siano completamente disgiunti rispetto alla gestione rileveranno esclusivamente nella sfera giuridica del gestore (100).

    1. Gli effetti della gestione d’affari.

    Dopo aver esaminato i vari presupposti della gestione d’affari, è ora giunto il momento di prendere in considerazione gli effetti. Attualmente, diversamente da quanto avveniva in base al diritto romano, è concepibile non solo una gestione d’affari indiretta, ma anche diretta, a seconda che abbia avuto luogo o meno la contemplatio domini (101). In questo secondo caso, l’atto di gestione in conformità alla regola della rappresentanza diretta produrrà effetti direttamente nella sfera giuridica del dominus, il quale acquisterà i relativi diritti ed obblighi in conformità a quanto stipulato dal gestore. In caso di gestione indiretta si farà invece riferimento alle norme sul mandato senza rappresentanza (102).In ogni caso a favore del dominus negotii operano però le regole di cui agli artt. 1705-1706 c.c. che consentono al mandante di esercitare i diritti di credito, e di rivendicare i beni mobili (103).

    In materia di mandato la giurisprudenza esclude l’esecuzione in forma specifica dell’obbligo di trasferire il bene se il mandato non risulta in forma scritta (104). La dottrina prevalente esclude però che una tale regola possa trovare applicazione anche in materia di gestione d’affari altrui (105).

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    (1) Cass., 30-11-1988, n. 6499.

    (2) Anche se si tratta di cani randagi: A. Milano, 9-3-2004, GM, 2004, 2372.

    (3) Cass., 3-1-2002, n. 28, NGCC, 2003, I, 33, con nota di Mosca; Cass., 5-8-2005, n. 16594.

    (4) Cass., 5-12-1996, n. 10849; T. Cagliari, 13-3-1997, RGSarda, 2000, 99; Cass., 4-9-1999, n. 9386; in altri casi si è fatto riferimento al regime delle obbligazioni solidali: Cass., 22-11-2000, n. 15063.

    (5) Cass., 4-11-1995, n. 11519: «La parte di una scrittura privata di compravendita immobiliare che nelle more della stipulazione del rogito alieni a terzi una porzione del terreno oggetto del sinallagma deve considerarsi inadempiente e non può invocare a giustificazione della propria condotta le norme sulla gestione d’affari qualora il prezzo ottenuto dalla vendita a terzi sia manifestamente inferiore a quello versato dalla controparte e qualora il dominus non si sia effettivamente disinteressato di addivenire alla stipula dell’atto pubblico».

    (6) Queste considerazioni possono spiegare per lo meno in parte l’interesse recentemente mostrato dagli autori angloamericani per l’istituto della gestione d’affari altrui: Cfr., Dawson, Negotiorum Gestio: The Altruistic Intermeddler, 74 Harv. L.R., 1961, 817, 1073.

    (7) Finazzi, Ricerche in tema di negotiorum gestio, I, Azione pretoria ed azione civile, Napoli, 1999.

    (8) Ferrari, Gestione d’affari altrui e rappresentanza, Milano, 1962, 21; Cass., 13-3-1964, n. 550, FI, 1965, I, 866.

    (9) De Semo, La gestione d’affari altrui nella teoria e nella pratica, Padova, 1959, 221.

    (10) Cass., 7-1-1970, n. 35.

    (11) Cass., 28-6-1975, n. 2557; Cass., 3-8-1968, n. 3784; Cass., 29-10-1963, n. 2894.

    (12) Cass., 12-5-1939, n. 1616; Cass., 13-2-1940, n. 519; Cass., 29-7-1940, n. 2661.

    (13) Cass., 7-10-1973, n. 2512.

    (14) Cass., 19-1-1956, n. 146.

    (15) A. Cagliari, 29-10-1955, GI, 1957, I, 2, 644.

    (16) Ferrari, Gestione d’affari altrui e rappresentanza, cit., 21.

    (17) Cass., 23-7-1960, n. 2122, GI, 1962, I, 1, 92.

    (18) Cass., 13-3-1964, n. 550, RGUA, 1963, 301.

    (19) Ferrari, «Gestione d’affari altrui (dir. priv.)», in Enc. dir., XVIII, Milano, 1969, 656; Aru, Gestione d’affari, in Comm. Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1981, 13.

    (20) Cass., 127-7-1969, n. 2636, FI, 1971, I, 713, con nota di Cabella Pisu; Cass., 13-12-1969, n. 3938; Cass., 27-2-1978, n. 1024.

    (21) Cass., 29-3-2001, n. 4623.

    (22) Cass., 22-11-2000, n. 15063, GC, 2001, I, 1296: «Il riconoscimento del figlio naturale comporta, tra l’altro, a carico di entrambi i genitori, l’obbligo di mantenimento senza che rilevi la circostanza che gli stessi siano o meno conviventi. Pertanto ove uno dei genitori abbia provveduto integralmente al detto mantenimento (…) ha diritto di agire in regresso (…) senza che sia configurabile un caso di gestione d’affari altrui»; sempre in materia di adempimento dell’obbligo alimentare nei confronti dei figli, parlano invece di gestione d’affari: Cass., 5-12-1996, n. 10849; T. Cagliari, 13-3-1997, RGSarda, 2000, 99; Cass., 22-12-2004, n. 23823: «(…) caratterizzato dalla spontaneità dell’intervento del gestore, e quindi dalla mancanza di un qualsivoglia rapporto giuridico in forza del quale il gestore sia tenuto ad intervenire nella sfera giuridica altrui». Nella specie un genitore aveva agito nei confronti del genero per ottenere la condanna al rimborso delle spese sostenute per il mantenimento della figlia, moglie separata del convenuto; la Corte di Cassazione, in applicazione dei principi succitati, ha ritenuto insussistenti i presupposti della negotiorum gestio.

    (23) Cass., 5-12-2003, n. 18626.

    (24) T. Napoli, 9-4-2004, GM, 2004, 1994: «L’attore che abbia enunciato in citazione quale fatto costitutivo della domanda di rendiconto unicamente il conferimento del mandato, non può successivamente prospettare a fondamento della propria pretesa l’esistenza di una negotiorum gestio, risolvendosi tale prospettazione non già in una diversa qualificazione giuridica dei medesimi fatti, ma in una vera e propria mutatio libelli».

    (25) Schlesinger, Eccesso di mandato e gestione d’affari, RDCo, 1955, II, 94; Ferrari, «Gestione d’affari altrui (dir. priv.)», cit., 666; Breccia, Gestione d’affari altrui, in Tratt. Rescigno, Torino, 1984, 709; Aru, op. cit., 5; Casella, «Gestione d’affari (dir. priv.)», in Enc. giur., XV, Roma, 1989, 8.

    In senso contrario De Semo, «Gestione d’affari altrui (diritto vigente)», in NN.D.I., VII, Torino, 1961, 818.

    (26) Cass., 18-3-1950, n. 732; Cass., 14-7-1954, n. 2471, RDCo, 1955, II, 94; Massidda-Jacchia, Promesse unilarerali – Gestione d’affari – Ripetizione dell’indebito – Soluti retentio – Arricchimento senza causa, in Giur. sist. Bigiavi, Torino, 1968, 195.

    (27) Cass., 13-3-1964, n. 13; A. Roma, 3-5-1983, TR, 1983, 327; T. Milano, 16-2-1989, GI, 1989, I, 2, 628.

    (28) In dottrina si è parlato a questo proposito anche di rapporto di fatto: Breccia, op. cit., 738.

    (29) Cass., 28-4-1939, n. 1423; Cass., 11-6-1941, n. 1747; Ferrari, «Gestione d’affari altrui (dir. priv.)», cit., 648, nt. 8; T. Napoli, 16-4-1974, DG, 1976, 778.

    (30) Cfr., Aru, op. cit., 23.

    (31) Aru, op. cit., 2.

    (32) Breccia, op. cit., 730.

    (33) Cass., 23-5-1953, n. 1527.

    (34) Ferrari, «Gestione d’affari altrui (dir. priv.)», cit., 647; Casella, op. cit., 3; Cass., 3-3-1954, n. 607, GCCC, 1954, III, 94; Cass., 15-6-1955, n. 1823; Cass., 6-12-1968, n. 3901; Cass., 23-5-1984, n. 3143; Cass., 25-5-2007, n. 12280. Secondo altre decisioni la possibilità di intervento da parte del dominus escluderebbe viceversa la absentia, e come conseguenza ulteriore la possibilità di gestione: A. Genova, 27-6-1975, FP, 1975, I, 146.

    (35) Cass., 13-3-1964, n. 550; Cass., 27-10-1965, n. 2262; Cass., 7-1-1970, n. 35; A. Roma, 9-12-1991, NGCC, 1992, I, 805.

    (36) Cass., 23-5-1984, n. 3143.

    (37) Cfr., Breccia, op. cit., 730.

    (38) Ferrari, Gestione d’affari altrui e rappresentanza, cit., 10.

    (39) Goré, «Gestion d’affaires», in Enc. Dalloz, n. 54.

    (40) Aru, op. cit., 21.

    (41) Cass., 15-10-1958, n. 3268.

    (42) T. Torino, 18-11-1992, GI, 1993, I, 2, 193.

    (43) T. Napoli, 12-4-1969, GI, 1970, I, 2, 424; Cass., 18-4-1985, n. 2577; Cass., 13-2-1978, n. 667; Cass., 6-8-1997, n. 7278, Contr., 1998, 329, con nota di De Robertis, Gestione d’affari e conflitto di interessi; De Semo, «Gestione d’affari altrui (diritto vigente)», cit., 819; Casella, op. cit., 4.

    (44) P. Gallo, Arricchimento senza causa e quasi contratti2, Torino, 2008.

    (45) T. Napoli, 12-4-1969, GI, 1970, I, 1, 820; Cass., 26-9-1997, n. 9465, GC, 1998, I, 2911: «Il conduttore che (…) esegue riparazioni urgenti, ancorché su cosa non locatagli, ma necessarie per l’uso convenuto di quella locatagli, ha diritto al rimborso (nella specie il conduttore aveva riparato l’appartamento sovrastante quello locatogli, entrambi di proprietà del locatore, dal quale gli provenivano infiltrazioni)»; in senso più restrittivo: Cass., 6-8-1997, n. 7278.

    (46) Cass., 11-7-1978, n. 3479, GI, 1970, I, 1, 820; Cass., 23-5-1984, n. 3143.

    (47) Cass., 30-1-2002, n. 1222, VN, 2002, 341; RN, 2002, 1257.

    (48) Cfr., Aru, op. cit., 8.

    (49) Pacchioni, Il requisito dell’utiliter coeptum nella gestione degli affari altrui, RDCo, 1911, 325.

    (50) Cass., 4-10-1956, n. 3326, GC, 1957, I, 920.

    (51) Cfr., Aru, op. cit., 54.

    (52) Ferrari, «Gestione d’affari altrui (dir. priv.)», cit., 653; Breccia, op. cit., 728.

    (53) Cass., 25-7-1940, n. 2522; Cass., 22-1-1952, n. 169; Cass., 18-2-1989, n. 1365; Cass., 25-7-1980, n. 4821, GC, 1980, I, 2402; A. Roma, 9-12-1991, NGCC, 1992, I, 805.

    (54) Cfr., Aru, op. cit., 42.

    (55) Cass., 9-11-1993, n. 11061: «Nella gestione d’affari il requisito dell’utilità iniziale può consistere anche nell’utile gestione di un’attività che non sia obbligatoria ma che si prevede ragionevolmente che lo diventi quando l’anticipazione si risolve in un incremento patrimoniale o in una evitata diminuzione patrimoniale».

    (56) Simonetti, La negotiorum gestio prohibente domino nel codice civile italiano, Roma, 1902.

    (57) Ferrari, Gestione d’affari altrui e rappresentanza, cit., 32.

    (58) P. Gallo, L’arricchimento senza causa, Padova, 1990, cap. IX.

    (59) Cass., 17-7-1969, n. 2636, FI, 1971, I, 713.

    (60) Cass., 17-7-1969, n. 2636, cit.

    (61) De Semo, «Gestione d’affari altrui (diritto vigente)», cit., 656; De Bernardinis, op. cit., 171; Aru, op. cit., 48.

    (62) Cfr., Scaduto-Orlando Cascio, «Gestione d’affari», in N.D.I., VI, Torino, 1938, 242, ivi rif.; Aru, op. cit., 48.

    (63) Scialoja, Della negotiorum gestio prohibente domino, FI, 1889, I, 941; Pacchioni, op. cit., 669 ss.; Scaduto-Orlando Cascio, op. cit., 242; Cherci, In tema di gestione d’affari altrui proibente domino, T, 1946, 71; Trimarchi, L’Arricchimento senza causa, Milano, 1962, 10; Scalfi, in GI, 1970, I, 2, 963.

    (64) Cass., 24-7-1954, n. 2648; più ampiamente, P. Gallo, Arricchimento senza causa e quasi contratti, cit.

    (65) Ferrari, «Gestione d’affari altrui (dir. priv.)», cit., 662; Casella, op. cit., 6.

    (66) Cfr., Casella, op. cit., 6.

    (67) Cass., 4-10-1956, n. 3336.

    (68) De Bernardinis, Gestione d’affari altrui, in Commentario D’Amelio, III, Firenze, 1949, 169; Ferrini, La negotiorum gestio a favore dell’incapace, MT, 1894, 341; Cass. Firenze, 22-12-1903, RGToscana, 1904, 21.

    (69) Aru, op. cit., 53.

    (70) Cass. Torino, 9-8-1893, MT, 1894, 55.

    (71) Casella, op. cit., 8; Cass., 20-3-1995, n. 3225.

    (72) Cass., 13-6-1979, n. 3922; Casella, op. cit., 8.

    (73) Cass., 3-3-1954, n. 607, GCCC, 1954, III, 94; Cass., 23-7-1960, n. 2122, GI, 1963, I, 1, 92; Cass., 13-2-1978, n. 667.

    (74) P. Gallo, Arricchimento senza causa e quasi contratti, cit.

    (75) Cass., 11-7-1978, n. 3479; Cass., 11-7-1978, n. 3479, GI, 1979, I, 820; Cass., 20-3-1995, n. 3225; Cass., 19-8-2003, n. 12102: «Nella gestione d’affari non rappresentativa la ratifica fa subentrare il dominus in luogo del gestore nel rapporto costituito da quest’ultimo in nome proprio con i terzi e i soggetti del rapporto restano quelli originari».

    (76) Cass., 25-1-1974, n. 199, GI, 1975, I, 1, 1373: la domanda di risarcimento in forma specifica va pertanto rivolta contro il gestore e non contro il dominus; Cass., 13-6-1978, n. 2932; Cass., 30-10-1991, n. 11637, FI, 1992, I, 1819; Cass., 5-7-1993, n. 7319, FI, 1995, I, 650: «Nella gestione d’affari non rappresentativa, la ratifica del dominus non fa subentrare quest’ultimo nella posizione del gestore, né lo legittima ad un intervento volontario nella causa instaurata tra il gestore ed il terzo contraente»; Cass., 19-8-2003, n. 12102.

    (77) Cass., 23-7-1960, n. 2122, GI, 1962, I, 1, 92.

    (78) Cass., 20-3-1995, n. 3225, FI, 1996, I, 203; RN, 1996, 1223; GI, 1996, I, 1, 657; in senso contrario: Cass., 8-11-1957, n. 4302, secondo la quale sarebbe ammissibile una ratifica per fatti concludenti di un contratto di alienazione immobiliare.

    (79) Cass., 17-11-1994, n. 9710, GI, 1995, I, 1, 1902.

    (80) Cass., 18-3-1957, n. 931.

    (81) Cass., 3-3-1954, n. 607, GC, 1954, 460.

    (82) A. Milano, 20-1-1942, Temi lomb., 1942, 25.

    (83) Aru, op. cit., 60; Cass., 16-2-1949, n. 55.

    (84) Cass., 21-2-2001, n. 2490, GI, 2002, 513.

    (85) De Semo, «Gestione d’affari altrui (diritto vigente)», cit., 822.

    (86) De Semo, op. loc. ult. cit.; Casella, op. cit., 1.

    (87) Aru, op. cit., 32.

    (88) Ferrari, Gestione d’affari altrui e rappresentanza, cit., 148; De Semo, «Gestione d’affari altrui (diritto vigente)», cit., 823; Breccia, op. cit., 725; Cass., 23-7-1960, n. 2122, GI, 1962, I, 1, 92.

    (89) Cass., 24-10-1938, n. 603; Aru, op. cit., 32.

    (90) Cass., 16-2-1949, FI, 1949, I, 329; Cass., 16-10-1951, n. 2858; Cass., 3-3-1954, n. 607.

    (91) Cfr., Luca, Gestione di affari altrui e atto notarile, RN, 1994, 639.

    (92) Cass., 31-5-1947, FI, 1948, I, 20; Cass., 13-3-1964, n. 550; T. Forlì, 12-12-1957, RAvvS, 1958, 67.

    (93) Cass., 3-3-1954, n. 607, GCCC, 1954, III, 94; T. Roma, 13-7-2004: «La gestione d’affari è ammissibile anche in rapporto ad atti che richiedano la forma scritta ad substantiam»; Cass., 20-3-1995, n. 3225, FI, 1996, I, 203; RN, 1996, 1233; GI, 1996, I, 1, 657; T. Roma, 13-7-2004, GC, 2005, I, 1937; si tratta quindi di vera e propria gestione e non di semplice promessa del fatto del terzo: A. Firenze, 16-8-1955, FI, 1956, I, 92.

    (94) Nel caso di specie si è escluso che il gestore potesse procedere al taglio delle piante di castagno esistenti sul fondo: Cass., 11-11-1958, TNap, 1959, I, 388.

    (95) Cass., 18-3-1957, n. 931.

    (96) Cass., 28-6-1975, n. 2557; P. Taranto, 29-10-1991, AC, 1992, 309.

    (97) T. Napoli, 19-6-1967, DG, 1967, 659.

    (98) A. Firenze, 25-6-1965, GiT, 1965, 860.

    (99) Cass., 27-2-1971, n. 495.

    (100) Aru, op. cit., 44.

    (101) Cass., 30-10-1991, n. 11637.

    (102) Ferrari, «Gestione d’affari altrui (dir. priv.)», cit., 670; Cass., 5-7-1993, n. 7319, FI, 1995, I, 650; Cass., 20-3-1995, n. 3225, FI, 1996, I, 203; GI, 1996, I, 1, 657; RN, 1996, 1233: «La gestione d’affari priva del carattere rappresentativo, per mancanza di taluno degli elementi necessari, esaurisce i suoi effetti tra gestore e dominus».

    (103) Breccia, op. cit., 742.

    (104) Cass., 30-5-1956, n. 336; Cass., 23-4-1953, n. 1103, GI, 1953, I, 1, 1008; Cass., 14-6-1952, FI, 1952, I, 1361; in senso contrario: Cass., 25-5-1953, n. 1533, GC, 1953, I, 1721.

    (105) Ferrari, Gestione d’affari altrui e rappresentanza, cit., 143; Aru, op. cit. In senso contrario Casella, op. cit., 7.

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