Home Forum Nuovi Giuristi La responsabilità genitoriale Argomento 3 – I provvedimenti de potestate

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    L’ordinamento giuridico prevede ampi poteri di intervento dell’autorità giudiziaria nel caso di violazione dei doveri dei genitori nei confronti dei figli o di abuso dei poteri, ove da simili comportamenti possano derivare gravi pregiudizi in capo ai minori. L’art. 330 c.c., disposizione, come si è visto, rimasta di competenza del tribunale per i Minorenni, prevede che possa essere pronunciata la decadenza della responsabilità genitoriale nei confronti di quel genitore che violi o trascuri i propri doveri, ovvero abusi dei poteri inerenti la responsabilità stessa, arrecando grave pregiudizio nei confronti del figlio. Ove il comportamento del genitore non sia tale da giustificare la pronuncia della decadenza della responsabilità, ma sia in ogni caso pregiudizievole per il figlio, potranno essere adottati provvedimenti meno intensi rispetto alla decadenza ma comunque limitativi della responsabilità genitoriale ex art. 333 c.c. Il giudice, secondo le circostanze del caso, può adottare i provvedimenti convenienti e può anche disporre l’allontanamento di lui dalla residenza familiare ovvero l’allontanamento del genitore o convivente che maltratta o abusa del minore (Giovanni Bonilini, Trattato di Diritto di Famiglia, Volume IV°, La Filiazione e l’adozione, Utet Giuridica, 2016).

    Un uso della responsabilità genitoriale non finalizzato alle esigenze di crescita umana del minore può essere, dunque, sanzionato. La funzione educativa deve essere svolta dai genitori nell’ambito della loro rispettiva responsabilità genitoriale, tenendo conto in via primaria delle necessità di sviluppo della personalità del figlio i provvedimenti de potestate hanno dunque principalmente lo scopo di tutelare i figli dai possibili pregiudizi derivanti dall’inadempimento dei genitori ai propri doveri e di garantire, la corretta crescita e lo sviluppo fisico e psicologico del minore, evitando la reiterazione e il protrarsi degli effetti pregiudizievoli (AA.VV., Filiazione. Commento al decreto attuativo, a cura di M. Bianca, Milano, 2014). Di conseguenza, la funzione di detti provvedimenti, è certamente preventiva e protettiva, pur non mancando la giurisprudenza di evidenziare anche una componente sanzionatoria nei confronti dei genitori (Giovanni Bonilini, Trattato di Diritto di Famiglia, Volume IV°, La Filiazione e l’adozione, Utet Giuridica, 2016).

    Va innanzitutto evidenziato come l’accertamento in capo al genitore inadempiente della “colpa”  e in generale della sussistenza dell’elemento psicologico circa la causazione del pregiudizio del figlio per effetto di violazione dei doveri che presiedono all’esercizio della funzione genitoriale  non sarebbe, in linea teorica, rilevante  perché ciò che rileverebbe ai fini della tutela sarebbe il solo fatto oggettivo della violazione dei doveri o abuso dei poteri, sommato all’accertamento del pregiudizio del minore. Infatti il fine delle misure ablative o limitative della responsabilità genitoriale non è quello di punire i genitori per la loro condotta pregiudizievole ma è piuttosto quello di assicurare la protezione dei minori  (cfr. G. Ferrando, La nuova legge sulla filiazione profili sostanziali, in Corriere Giur., 2013, p. 525; M. Sesta, L’unicità dello stato di filiazione e i nuovi assetti delle relazioni familiari, in questa Rivista, 2013, p. 231 e ss.; G. Casaburi, Novità legislative in tema di affidamento dei figli nati fuori del matrimonio: profili sostanziali, in Foro it., 2013).

    Il pregiudizio potrà essere anche meramente eventuale, potendosi applicare la misura nell’ipotesi in cui si sia verificato il mero pericolo di un danno pregiudizievole per il minore, indipendentemente dalla circostanza che ciò sia avvenuto concretamente e comunque prescindendo dall’atteggiamento psicologico d genitore (Cfr. Corte Cass. 21 febbraio 2004, n. 3529, 2005; Corte Cass. 4 febbraio 2000, n. 1213; Corte Cass. 15 marzo 2001, n. 3765; Corte Cass. 10 maggio 1999, n. 4631). Il venir meno di qualsivoglia pregiudizio in capo al minore e del comportamento del genitore che abbia violato i propri doveri o abusato dei poteri, costituisce presupposto per la pronuncia di reintegrazione nella responsabilità genitoriale che deve essere dichiarata in presenza dell’ulteriore requisito dell’assenza di un pregiudizio.

    Quanto alla giurisprudenza di legittimità in materia, va innanzitutto evidenziato che la Corte di Cassazione, dopo avere, in un primo momento negato che i provvedimenti ablativi della responsabilità genitoriale (allora potestà) potessero esser impugnati nei riguardi dei figli nati fuori dal matrimonio,  soltanto nel 2009 ha cambiato orientamento ed ha pertanto stabilito che:  In tema di affidamento dei figli nati fuori dal matrimonio, la legge n. 54 del 2006, dichiarando applicabili ai relativi procedimenti le regole da essa introdotte per quelli in materia di separazione e divorzio, esprime, per tale aspetto, un’evidente assimilazione della posizione dei figli di genitori non coniugati a quella dei figli nati nel matrimonio, in tal modo conferendo una definitiva autonomia al procedimento di cui all’art. 317-bis cod. civ. rispetto a quelli di cui agli artt. 330, 333 e 336 cod. civ., ed avvicinandolo a quelli in materia di separazione e divorzio con figli minori, senza che assuma alcun rilievo la forma del rito camerale, previsto, anche in relazione a controversie oggettivamente contenziose, per ragioni di celerità e snellezza: ne consegue che, nel regime di cui alla legge n. 54 cit., sono impugnabili con il ricorso per cassazione, ai sensi dell’art. 111 Cost., i provvedimenti emessi dalla corte d’appello, sezione per i minorenni, in sede di reclamo avverso i provvedimenti adottati ai sensi dell’art. 317-bis relativamente all’affidamento dei figli nati fuori dal matrimonio ed alle conseguenti statuizioni economiche, ivi compresa l’assegnazione della casa familiare.Tale orientamento ha trovato definitiva conferma con l’equiparazione dei figli naturali ai figli legittimi e quindi al riconoscimento dello stato UNICO del figlio: cfr.  Sez. 1 – , Ordinanza n. 28998 del 12/11/2018  secondo cui : Il decreto emesso dalla corte d’appello in sede di reclamo avverso un provvedimento del tribunale, che, nell’ambito del conflitto genitoriale, dispone l’affidamento del minore nato fuori dal matrimonio ai servizi sociali, è ricorribile per cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost. poiché, già nel vigore della l. n. 54 del 2006, ed a maggior ragione dopo l’entrata in vigore del d. lgs. n. 154 del 2013,che ha abolito ogni distinzione tra figli nati da genitori non coniugati e figli nati dal matrimonio, al predetto decreto vanno riconosciuti i requisiti della decisorietà, poiché risolve contrapposte pretese di diritto soggettivo, e di definitività, perché ha un’efficacia assimilabile, “rebus sic stantibus” a quella del giudicato, non rilevando, a sostegno della tesi contraria, che si tratti di un provvedimento di affidamento ai servizi sociali, atteso che ciò non determina alcuna modificazione della qualificazione giuridica del provvedimento.”

     

    I procedimenti ablativi e modificativi della responsabilità genitoriale.

    Le ipotesi rubricate negli artt. 330 e 333 c.c. sono differenti sotto l’aspetto quantitativo e non qualitativo.  Nel caso in cui il giudice dovesse accertare il ricorrere di una particolare gravità nel comportamento, ovvero dovesse accertare un grave pregiudizio in capo al minore, dovrà pronunciare necessariamente la decadenza del/dei genitori dalla responsabilità genitoriale (Giovanni Bonilini, Trattato di Diritto di Famiglia, Volume IV°, La Filiazione e l’adozione, Utet Giuridica, 2016).

    Al contrario, il giudice, ove dovesse ravvisare un comportamento pregiudizievole per il minore, (pur non ricorrendo i presupposti per la pronuncia di decadenza) potrà adottare i provvedimenti convenienti, limitando la stessa responsabilità genitoriale. La scelta tra le fattispecie di cui agli artt. 330 e 333 c.c. deve essere effettuata sulla base della considerazione dell’entità del pregiudizio in capo al figlio. L’applicazione della misura protettiva in favore del minore è un obbligo per il giudice che non vi può sottrarre nell’ipotesi in cui sia stato accertata la gravità del pregiudizio

    Ai fini dell’applicazione della misura, è rilevante non solo il comportamento del genitore nei confronti del figlio, ma anche nei confronti dell’altro genitore ove lo stesso possa arrecare pregiudizio al minore, così come deve essere posta alla base del provvedimento di decadenza anche la condotta omissivadel genitore che non si sia adoperato per evitare la violazione dei doveri genitoriali da parte dell’altro genitore o l’abuso da parte di terzi. Pertanto, ove non sussistano i presupposti per la decadenza dalla responsabilità genitoriale, ma sia accertata la sussistenza di una condotta pregiudizievole nei confronti del minore, ovvero una notevole inidoneità allo svolgimento del ruolo genitoriale, possono essere pronunciati provvedimenti limitativi ai sensi dell’art. 333 c.c. In tal caso, sarà il giudice a determinare nella propria discrezionalità quali siano i provvedimenti più adatti, potendo dettare le concrete modalità di esercizio della responsabilità genitoriale, impartendo ai genitori vere e proprie prescrizioni (rectius istruzioni) comportamentali.

    Secondo quanto previsto dall’art. 336 c.c. la legittimazione spetta all’altro genitore, ai parenti o al p.m., oltre che al genitore stesso in caso di richiesta di revoca. Il procedimento si avvia su ricorso e il tribunale provvede in camera di consiglio, assunte sommarie informazioni e sentito lo stesso p.m..

    Ove il provvedimento sia richiesto contro il genitore, dovrà essere sentito anche quest’ultimo, in virtù del disposto dell’art. 9, 2° comma, della Convenzione dei diritti del fanciullo, ratificata e resa esecutiva in Italia con legge 27.05.1991, n. 176 (C. Cost. 30.01.2002, n. 1). La norma modificata dall’art. 37, l. 28.03.2001, n. 149, prevede pertanto che i genitori e il minore debbano essere assistiti da un difensore e, in caso di urgente necessità, il giudice potrà adottare provvedimenti temporanei nell’interesse del figlio (Giovanni Bonilini, Trattato di Diritto di Famiglia, Volume IV°, La Filiazione e l’adozione, Utet Giuridica, 2016).

    Il 2° comma dell’art. 336 c.c. prevede l’obbligo per il giudice di disporre l’ascolto del minore che abbia compiuto 12 anni o sia in ogni caso capace di discernimento, intendendosi per capacità di discernimento la maturità, la capacità di comprendere, di rendersi conto degli eventi che si verificano nella famiglia e di operare scelte autonome (Il Protocollo Tribunale ordinario – Tribunale per i Minorenni di Brescia del 10 aprile 2013 ha affermato i seguenti principi: a) se il giudizio de potestate ex art. 333 c.c. è proposto ex novo da uno dei genitori innanzi al tribunale per i minorenni, quando sia già pendente un giudizio di separazione, divorzio o ex art. 317 bis c.c., il tribunale per i minorenni deve dichiarare la propria incompetenza, essendo competente il tribunale innanzi al quale è in corso tra le stesse parti un giudizio separativo; b) se, invece, il giudizio de potestate ex art. 333 c.c. è proposto da uno dei genitori innanzi al tribunale per i minorenni in assenza di giudizio separativo e questo sia instaurato solo successivamente, le domande de potestate devono essere riunite con quelle di separazione, divorzio o ex art. 317 bis c.c. a norma degli artt. 40 e 274 c.p.c. per l’evidente connessione tra gli stessi; c) se, infine, il giudizio de potestate ex art. 333 c.c. è proposto innanzi al tribunale per i minorenni dai parenti legittimati ex art. 336 c.c. mentre è in corso tra i genitori un giudizio separativo, il tribunale per i minorenni rimane competente poiché la norma afferma la vis attractiva del tribunale ordinario solo se il giudizio di separazione penda tra le stesse parti e sempre che sia effettivamente “in corso”; d) l’art. 38 disp. att. c.c. non attribuisce al giudice ordinario, pur in pendenza di un giudizio separativo tra le stesse parti, la competenza a pronunciare la decadenza dalla potestà di un genitore a norma dell’art. 330 c.c).

    Infatti, è noto come l’art. 315 bis c.c. aggiunto dalla legge n. 219/2012, menzioni espressamente tra i diritti del figlio il diritto di essere ascoltato in tutte le questioni e le procedure che lo riguardano, con ciò sancendo l’esistenza di un vero e proprio diritto del minore. Alla luce delle su richiamate disposizioni di legge, il minore va considerato non solo e non tanto come oggetto di protezione, quanto piuttosto come soggetto titolare di diritti soggettivi, e parte del procedimento (vedi oltre) ll giudice, potrà non procedere all’ascolto del minore, ove tale adempimento sia in concreto contrario all’interesse dello stesso; infatti l’art. 336 bis c.c. prevede che il minore sia ascoltato nell’ambito dei procedimenti nei quali devono essere adottati provvedimenti che lo riguardano, con ciò intendendosi i procedimenti nei quali l’interesse superiore del minore è criterio di giudizio e misura di giustizia della decisione e non qualsiasi giudizio nel quale il minore sia parte. In caso di mancato adempimento dell’ascolto, il giudice dovrà adeguatamente motivarne l’esclusione, evidenziando la sussistenza di un interesse superiore del minore a non essere coinvolto emotivamente nella controversia che oppone i suoi genitori.

    Il dettato normativo dell’art. 336 c.c. deve essere dunque integrato con quanto dispone l’art. 38 disp. Att. c.c. il quale, oltra a ribadire che il tribunale competente provvede in ogni caso in camera di consiglio, sentito il pubblico ministero, prevede espressamente che i provvedimenti emessi dal tribunale siano immediatamente esecutivi, salvo che il giudice disponga diversamente.

    I c.d. giudizi de potestate, ora più correttamente, sulla responsabilità genitoriale, espressamente riservati al giudice minorile, restano dunque di competenza del Tribunale per i minorenni, salvo quanto disposto dallo stesso art. 38 per l’ipotesi in cui sia in corso un giudizio di separazione, divorzio o ex art. 316 c.c. (Per l’infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 38, 1° comma, disp. att. c.c., nella parte in cui prevede che sono di competenza del tribunale per i minorenni, anziché del tribunale ordinario, i procedimenti introdotti ex art. 317 bis c.c. concernenti il diritto degli ascendenti di mantenere rapporti significativi con i nipoti minorenni, anche in caso di pendenza di un giudizio di separazione o divorzio tra i genitori dinanzi al tribunale ordinario, in riferimento agli artt. 3, 76, 77 e 111 Cost., v. Corte Cost. 24 settembre 2015, n. 194. id., 2016, I, 1574, con nota di B. Poliseno, La tutela processuale dei diritti degli ascendenti nella crisi familiare sul diritto di famiglia Diritto Civile 2, Diritto di Famiglia e Biodiritto.) Pertanto, per i procedimenti di cui all’art. 333 c.c. resta esclusa la competenza del tribunale per i minorenni nell’ipotesi in cui sia in corso, tra le stesse parti, giudizio di separazione o divorzio o giudizio ai sensi dell’art. 316 del c.c. In pendenza del giudizio di separazione, divorzio o ex art. 316 c.c., dunque, il giudice ordinario è competente anche sulle domande proposte ai sensi dell’art. 333 c.c., e cioè in ordine alla pronuncia di eventuali provvedimenti limitativi della responsabilità genitoriale. Ne consegue che, ove instaurato un procedimento di separazione, o divorzio o ex art. 316 c.c. sia successivamente proposta domanda ai sensi degli artt. 330 e ss., nel qual caso il tribunale per i minorenni declinerà la propria competenza in favore del tribunale ordinario.

    Viceversa, nel caso in cui sia dapprima investito il giudice minorile e successivamente sia proposta la domanda davanti al giudice ordinario, nel qual caso la prevalente giurisprudenza esclude la attrazione davanti al giudice della separazione o divorzio e ciò in ossequio non solo al rispetto della lettera della legge, ma anche del principio della perpetuatio jurisdictionis (Giovanni Bonilini, Trattato di Diritto di Famiglia, Volume IV°, La Filiazione e l’adozione, Utet Giuridica, 2016).

    I provvedimenti emessi ai sensi degli artt. 330 e ss. c.c. sono reclamabili alla Sezione per i minorenni della Corte d’Appello, su iniziativa dei genitori, dei parenti e del P.M., nel termine di dieci giorni dalla comunicazione del provvedimento impugnato.

    I provvedimenti sulla responsabilità genitoriale, essendo espressione di giurisdizione volontaria non contenziosa, non sono impugnabili ai sensi dell’art. 111 Cost..

    La Suprema Corte rileva, infatti, come i provvedimenti ablativi o limitativi della responsabilità genitoriale non rivestano alcuna efficacia di giudicato, potendo in ogni momento essere revocati e modificati dal giudice che li ha pronunciati, e ciò non solo con efficacia ex nunc, ma anche con efficacia ex tunc, dunque sulla base di fatti sopravvenuti ma anche per la mera rivalutazione della situazione; Va però detto (vedi supra) che non è contestato, oggi,  il carattere decisorio del provvedimento e la sua ricorribilità in Cassazione  (F. Danovi, I procedimenti de potestate dopo la riforma, tra tribunale ordinario e giudice minorile, in Dir. Fam., 6/2013, p. 627 ss).

    Infine, quanto ai provvedimenti provvisori e d’urgenza che possono essere pronunciati d’ufficio ai sensi dell’art. 336, 3° comma, c.c., si è discusso in dottrina e in giurisprudenza se tali provvedimenti debbano essere considerati immediatamente impugnabili. Secondo quanto affermato dalla Suprema Corte, i provvedimenti temporanei ed urgente resi, ai sensi degli artt. 316 e 336 c.c., in tema di affidamento di figli minori possono formare oggetto di impugnazione mediante reclamo alla Corte di appello esclusivamente nei limiti in cui essi risultino già idonei a produrre, “ex se” ed in modo autonomo, uno stabile pregiudizio nei confronti del genitore interessato (Carrato, Tribunale per i minorenni: confermata la legittimità costituzionale dell’art. 38 disp. att. c.c., in Quotidiano giuridico, 2016).

     

    1. Decadenza dalla responsabilità genitoriale, SC: “Il minore è parte del processo e va sempre sentito e deve essere rappresentato da un Curatore speciale

    Con l’ordinanza n. 29001   del 12 novembre 2018 la I sezione civile della Corte di Cassazione, chiamata a pronunciarsi sulla legittimità procedurale di un giudizio vertente sulla decadenza dalla responsabilità genitoriale di una madre, ha dichiarato nullo il procedimento instauratosi perché il minore non era stato ascoltato, precisando che nel giudizio “de potestate” i genitori e il minore, in qualità di parti del procedimento, hanno diritto ad averne notizia ed a parteciparvi, essendo necessario che il contraddittorio sia assicurato anche nei confronti del minore che, vantando interessi contrapposti ai genitori, deve essere rappresentato da un curatore speciale che ne curi gli interessi.

    Il caso sottoposto all’attenzione della Cassazione prende avvio dalla decisione emessa dal Tribunale per i minorenni di Catania con la quale una madre è stata dichiarata decaduta dalla responsabilità genitoriale del figlio minore; la decisione veniva confermata, con decreto, dalla Corte d’appello di Catania, sul presupposto che la donna fosse incapace di offrire al minore autentica assistenza morale e che, nonostante gli aiuti offerti alla donna, le rilevanti pecche della funzione genitoriale non erano state emendate, ma anzi aggravate da una serie di comportamenti irresponsabili, non ultimo quello di rendersi irreperibile. Avverso il summenzionato decreto, la madre proponeva ricorso per Cassazione, ex art. 111 comma 7 della Costituzione. La Cassazione, con la sentenza in commento, si pronuncia sulle prospettate violazioni di legge avanzate dalla ricorrente.

    In primo luogo si rileva che il procedimento instauratosi per l’adozione dei provvedimenti inerenti la responsabilità genitoriale non esclude la presenza di parti processuali fra di loro in conflitto: l’articolo 336 c.c., infatti, nel definire quali sono i soggetti legittimati a promuovere il ricorso, prevede che sia i genitori che i minori siano assistiti da un difensore, sancisce l’obbligo di audizione dei genitori nonché l’obbligo di ascolto del minore dodicenne, od anche di età inferiore ove dotato di discernimento. Dalla previsione secondo cui i genitori ed il minore sono assistiti da un difensore si evince che gli stessi (genitori e minore) sono, a tutti gli effetti, parti del procedimento che, in quanto tali, hanno diritto ad averne notizia ed a parteciparvi: in tale quadro, la posizione del minore è ritenuta centrale, essendo per altro prescritto che il contraddittorio sia assicurato anche nei confronti del minore, previa eventuale nomina di un curatore speciale ai sensi dell’art. 78 cod. proc. civ. (cfr. Corte Cost. sent. 1/2002).

    Il figlio minore è, quindi, parte necessaria del procedimento, coerentemente con il disposto di cui all’art. 12 comma 2, della Convenzione sui diritti del fanciullo – convenzione dotata di efficacia imperativa nell’ordinamento interno – laddove si prevede che al fanciullo sia data la possibilità di essere ascoltato in ogni procedura giudiziaria o amministrativa che lo concerne, sia direttamente sia tramite un rappresentante o un organo appropriato.

    Gli Ermellini evidenziano quindi che, essendo necessaria la presenza del minore, lo stesso deve essere rappresentato nel procedimento vertente sulla decadenza dalla responsabilità genitoriale, soprattutto in virtù della circostanza per cui nei cd. giudizi de potestate la posizione del figlio risulta sempre contrapposta a quella di entrambi i genitori, anche quando il provvedimento venga richiesto nei confronti di uno solo di essi, non potendo in questo caso stabilirsi ex ante la coincidenza e l’omogeneità dell’interesse del minore con quello dell’altro genitore (che potrebbe presentare il ricorso, o aderire a quello depositato da uno degli altri soggetti legittimati, per scopi meramente personali, o, per contro, in questa seconda ipotesi, chiederne la reiezione) e dovendo, pertanto, trovare applicazione il principio, più volte enunciato in materia, secondo cui è ravvisabile il conflitto di interessi tra chi è incapace di stare in giudizio personalmente ed il suo rappresentante legale – con conseguente necessità della nomina d’ufficio di un curatore speciale che rappresenti ed assista l’incapace  – ogni volta che l’incompatibilità delle loro rispettive posizioni è anche solo potenziale, a prescindere dalla sua effettività (cfr. Cass. n. 5256/2018).

    Con specifico riferimento al caso sottoposto al suo esame, la Corte rileva come fosse necessario provvedere alla nomina di un curatore speciale che provvedesse alla cura degli interessi del minore: la richiesta di adozione del provvedimento limitativo della responsabilità genitoriale proveniva, mediante contrapposte istanze, da ciascun genitore verso l’altro, sicché la sussistenza del conflitto era certa; la rappresentanza nel procedimento del piccolo doveva, quindi, necessariamente essere affidata ad un curatore speciale, cui quelle istanze andavano comunicate ed al quale spettava esaminare gli atti processuali e formulare le conclusioni ritenute più opportune nell’interesse del minore. I giudici di merito – ignorando la qualità del minore di parte del procedimento, limitandosi a sentire i genitori, ad acquisire informazioni dai servizi sociali e ad effettuare una consulenza tecnica di ufficio – non hanno provveduto alla necessaria integrazione del contraddittorio nei confronti del figlio, previa nomina a quest’ultimo di un curatore speciale.

    La sentenza in commento – premesso che sussiste la nullità del procedimento, ex artt. 354, comma 1, c.p.c., nel caso in cui il contraddittorio non si sia instaurato nei confronti di tutte le parti del procedimento, tra cui anche il minore – evidenzia come la mancata partecipazione del minore ai due gradi di merito, che avrebbe dovuto essere assicurata attraverso la nomina di un curatore speciale che ne rappresentasse gli interessi, determina un insanabile vizio procedurale dell’intero giudizio, con la conseguente cassazione del decreto impugnato.

    1. Le sanzioni ex art. 709 ter c.p.c.

    Quando uno dei genitori, non rispetta i provvedimenti decisi dal Giudice; mettendo in atto violazioni o inadempienze dei suddetti, si può ricorrere allo stesso Giudice, affinché il colpevole venga duramente sanzionato.

    Si riporta, prima il testo dell’articolo 709 ter del codice di procedura civile:

    art. 709 ter c.p.c.: Soluzioni delle controversie e provvedimenti in caso di inadempimenti o violazioni-

    Per la soluzione delle controversie insorte tra i genitori in ordine all’esercizio della responsabilità genitoriale o delle modalità di affidamento è competente il giudice del procedimento in corso. Per i procedimenti di cui all’art. 710 è competente il tribunale del luogo di residenza del minore.

    A seguito del ricorso, il giudice convoca le parti e adotta i provvedimenti opportuni. In caso di gravi inadempienze o di atti che comunque arrechino pregiudizio al minore od ostacolino il corretto svolgimento delle modalità dell’affidamento, può modificare i provvedimenti in vigore e può, anche congiuntamente:

    1- ammonire il genitore inadempiente;

    2- disporre il risarcimento dei danni, a carico di uno dei genitori nei confronti del minore;

    3- disporre il risarcimento dei danni, a carico di uno dei genitori nei confronti dell’altro;

    4- condannare il genitore inadempiente al pagamento di una sanzione amministrativa pecuniaria, da un minimo di € 75,00 a un massimo di € 5000,00 a favore della Cassa delle Ammende.

    I provvedimenti assunti dal giudice del procedimento sono impugnabili nei modi ordinari

    Un esempio specifico

    il Tribunale di Treviso  nella sentenza  n. 1427/17,  ha osservato come l’istituto “consente al Giudice del procedimento o al Giudice investito ex art. 710 cpc delle controversie insorte tra i genitori in ordine all’esercizio delle modalità dell’affidamento, di pronunciare provvedimenti sanzionatori quando constati l’esistenza  “di gravi inadempienze” quanto all’esercizio della potestà , o di atti che “ostacolino il corretto svolgimento  delle modalità di affidamento” , o , più in generale di atti che “arrechino pregiudizio al minore”.

    Il diritto dei figli alla bigenitorialitá si delinea oggi, a diversi anni dall’entrata in vigore dei rimedi ex art. 709 ter c.p.c., considerando i minori quali soggetti parti attive che subiscono la divisione della famiglia “sia nei procedimenti di separazione o divorzio, sia in caso di controversia tra i genitori” in sede di attuazione dei provvedimenti riguardanti i figli.     In ciò la ratio del legislatore, che ha inteso tutelare i figli nella crisi familiare con introduzione di quattro diverse tipologie di sanzioni a carico del genitore inadempiente: a) la modifica delle condizioni di affidamento; b) l’ammonimento; c) il risarcimento danni in favore del minore o del genitore leso; d) la sanzione amministrativa pecuniaria a favore della Cassa delle ammende.

    La sentenza n. 92/18 del Tribunale di Treviso, resa in un procedimento di cessazione degli effetti civili del matrimonio, risponde alla domanda avanzata dal padre-resistente di “disporre l’ammonimento a proseguire con i comportamenti denigratori” attuati dalla moglie nei suoi confronti (nella fattispecie, la moglie aveva indotto nelle figlie il convincimento che il padre fosse persona disdicevole e pericolosa, dedita all’uso/abuso di sostanze alcoliche, in modo da far sì che cessassero i rapporti, anche telefonici, con l’altro genitore). Precisa il Collegio che “il modo brusco con cui si sono interrotti i rapporti tra il padre e le figlie, con un evidente coinvolgimento  di queste ultime, da parte della madre, nelle dinamiche tra coniugi , legate alla mancata definizione bonaria del presente procedimento sotto il profilo economico, va censurato, perché l’idoneità genitoriale si misura anche attraverso la valutazione della capacità di (continuare a preservare la continuità  delle relazioni parentali con l’altro genitore(Cfr. Cass. 6919/16) anche quando il rapporto tra i due genitori si sviluppa su piani di difficile comunicazione”.

    Il Tribunale, quindi, conclude che “la madre deve essere ammonita ad astenersi dal tenere ulteriori condotte ostative delle frequentazioni tra il padre e la figlia”, rivestendo tale ammonimento, seppure senza irrogazione di sanzione, una funzione dissuasiva della reiterazione di tali comportamenti.

    Dello stesso tenore, nel merito, la già citata sentenza n. 1427/17 del Tribunale di Treviso. Anche in questo caso il Collegio, in un giudizio per la cessazione degli effetti del matrimonio,  riconosce la proponibilità del rimedio ex art 709 ter trattata “in uno con il procedimento di separazione e divorzio : quando si discute di risarcimento  del danno ex articolo 709 ter  si valuta la mancata attuazione  dei provvedimenti  di affidamento ovvero comportamenti che ne abbiano ostacolato il corretto svolgimento”.

    1. La sottrazione internazionale del minore

    Quando uno dei genitori decide volontariamente, unilateralmente e senza il consenso dell’altro, di sottrarre il figlio con l’intenzione di nasconderlo all’estero e di tenerlo con sé in modo permanente, si ha la sottrazione internazionale di minore. Si verifica la sottrazione internazionale di minori anche quando viene impedito al minore il rientro nell’abituale stato di residenza dopo un trasferimento avvenuto per causa legittima come nel caso di una vacanza, un soggiorno presso i nonni, terminato il quale il genitore che ha portato con sé il figlio non lo fa rientrare nel paese di residenza abituale. La sottrazione internazionale di minore comporta per il bambino non solo il terribile distacco da una delle due figure genitoriali, ma anche l’abbandono del più ampio contesto di vita nel quale il bambino era inserito

    La Convenzione sui diritti del fanciullo firmata a New York il 20 novembre 1989 e ratificata dall’Italia con la legge 27 maggio 1991 n. 176, stabilisce che il minore ha diritto a mantenere una stabile relazione con entrambi i genitori. L’art. 9 della Convenzione stabilisce il diritto del fanciullo, separato da entrambi i genitori o da uno di essi, di intrattenere regolarmente rapporti personali e contatti diretti con entrambe le figure genitoriali, a meno che ciò non sia contrario all’interesse del fanciullo stesso. Detto principio, è stato ripreso nell’ordinamento italiano, dalla legge 54/2006 e anche la Corte di Cassazione ha precisato più volte che ciò che più rileva è l’interesse del minore a non essere arbitrariamente sottratto al suo ambiente di vita.

    Nel nostro ordinamento vige il diritto alla bigenitorialità.

    Il genitore, anche qualora legittimo affidatario del minore, non può arbitrariamente privare il figlio dell’altra figura genitoriale di riferimento ma ha anzi l’obbligo di educare e sensibilizzare il minore ad avere un rapporto continuativo con l’altro genitore. Il trasferimento del minore dall’ambiente nel quale è cresciuto e ha sempre vissuto, dove ha costruito il centro dei suoi affetti e interessi e i primi importanti punti di riferimento nella delicata fase della crescita e della formazione della personalità, è un vero e proprio atto di violenza, suscettibile di arrecare grave pregiudizio al benessere psico-fisico del bambino. Nei casi di sottrazione, come in tutte le decisioni relative ai fanciulli, deve pertanto essere tutelato in via preminente il superiore interesse del minore a coltivare un rapporto costante e paritetico con entrambi i genitori e a conservare l’ambiente in cui il minore si è integrato e coltiva le relazioni più significative.

    Quando il minore, abitualmente residente in uno Stato membro, viene illecitamente condotto o trattenuto in altro Stato membro dell’UE, si applica la procedura per il ritorno del minore prevista dalle disposizioni della Convenzione dell’Aja sugli aspetti civili della sottrazione internazionale di minori.

    Lo scopo è quello di garantire una protezione tempestiva ed efficace del minore, agendo con immediatezza sia per contenere il danno arrecato al minore sia per evitare che il minore si integri nello Stato e nell’ambiente in cui si trova a seguito della sottrazione, rendendo più traumatico o addirittura inopportuno il ritorno del minore nel paese di residenza abituale. La procedura d’urgenza è finalizzata ad assicurare l’immediato rientro del minore nel suo Stato di residenza abituale.

    Per espressa previsione di legge l’autorità deve agire con la massima celerità, avvalendosi delle procedure d’urgenza previste dall’ordinamento giuridico dello Stato richiesto e il provvedimento di ritorno deve essere emesso al più tardi entro il termine di sei settimane dal ricevimento dell’istanza di rimpatrio. Il termine di sei settimane può essere superato solo in presenza di circostanze eccezionali, esplicitate e motivate, che ne rendano impossibile l’osservanza.

    La procedura d’urgenza si applica ad ogni minore che abbia la propria residenza abituale in uno Stato Contraente e non abbia compito il 16° anno di età.

    Presupposti per la procedura sono l’illiceità del trasferimento o del mancato rientro.

    Il trasferimento o il mancato rientro devono essere avvenuti in violazione di un diritto di affidamento, esercitato di fatto dal genitore che ha subito la sottrazione e a questi attribuito dalla legislazione o da una decisione giudiziaria o amministrativa dello Stato ove il minore aveva la residenza abituale immediatamente prima della sottrazione.

    Una volta presentata l’istanza di rientro, o per il tramite dell’Autorità Centrale, o in via diretta ex art. 29 Conv. Aja, la competenza a trattare della medesima spetta alle autorità dello Stato ove il minore è stato trasferito o trattenuto.

    L’art. 12 della Convenzione stabilisce che, se l’istanza di rimpatrio viene presentata prima del decorso di un anno dal trasferimento o mancato ritorno del minore nello Stato di residenza abituale, l’autorità giudiziaria di fronte alla quale pende il procedimento di rimpatrio, accertata l’esistenza dei presupposti per l’applicazione della procedura convenzionale e, in primis, l’illiceità del trasferimento/trattenimento, ha l’obbligo di ordinare l’immediato ritorno del minore.

    Il rigetto dell’istanza di rientro è da considerarsi ipotesi eccezionale.

    Il diniego al rientro può fondarsi sulla prova che il genitore affidatario, al momento della sottrazione, non esercitava di fatto il diritto di custodia o comunque aveva prestato, anche successivamente, il suo consenso al trasferimento o al mancato rientro del minore.

    È inoltre possibile il rigetto dell’istanza di rimpatrio quando il ritorno del minore alla residenza abituale determinerebbe il fondato rischio di essere esposto a pericoli fisici pericoli psichici situazioni intollerabili.  Si tratta dell’eccezione invocata più spesso dal genitore che si oppone al rimpatrio. Capita spesso che il genitore che trasferisce o trattiene all’estero il figlio minore presenti, prima della sottrazione, una denuncia per minacce o violenze ai danni propri o del minore contro l’altro genitore.

    Troppo spesso sono false accuse aventi come unico scopo quello di impedire il rimpatrio del minore.

    Il Regolamento CE, per impedire tali illeciti, ad integrazione di quanto stabilito nella Convenzione de L’Aja del 1980, è intervenuto a limitare l’applicazione di tale eccezione al rimpatrio, stabilendo espressamente che il giudice del rimpatrio «non può rifiutarsi di ordinare il ritorno del minore» qualora sia dimostrato che, nello Stato di residenza abituale del medesimo, sono previste misure adeguate per assicurare la protezione del minore dopo il suo rientro.  La Convenzione dell’Aja prevede espressamente che l’autorità giudiziaria competente possa non ordinare il ritorno del minore se questi, nel corso del procedimento di rimpatrio, manifesti la sua opposizione al rientro nella residenza abituale (cfr. in tal senso: Sez. 1, Sentenza n. 7479 31/03/2014 Nel procedimento per la sottrazione internazionale di minore, previsto dalla legge 15 gennaio 1994, n. 64 (di ratifica della Convenzione dell’Aja del 25 ottobre 1980), l’ascolto del minore costituisce adempimento necessario ai sensi dell’art. 315 bis cod. civ., introdotto dalla legge 10 dicembre 2012, n. 219, senza che osti, in senso contrario, la mancata previsione normativa dell’obbligatorietà desumibile dall’art. 7, comma 3, della menzionata legge, potendo essere espletato secondo le modalità stabilite dal giudice, anche da soggetti diversi da esso, in quanto finalizzato, ex art. 13, comma 2, della citata convenzione, anche alla valutazione della eventuale opposizione del minore al ritorno, salva solo la preventiva valutazione dell’esistenza di ragioni di eventuale dannosità e contrarietà all’interesse del minore (da indicarsi esplicitamente) che ne sconsiglino il ricorso, anche in considerazione del carattere urgente del procedimento. Ne consegue che l’omesso adempimento o l’omessa motivazione sulla sua assenza costituiscono lesione del diritto al contraddittorio, da far valere in sede d’impugnazione nei limiti e secondo le regole fissate dall’art. 161 cod. proc. civ. (Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione di merito con la quale, nonostante il carattere urgente del procedimento, si era delegato l’ascolto del minore agli assistenti sociali, senza che il giudice vi provvedesse direttamente in ragione dell’elevato conflitto esistente tra i genitori).

    Il Regolamento CE prescrive l’obbligo di ascoltare il minore nel corso della trattazione della domanda di rientro, a meno che ciò risulti inopportuno in relazione all’età e al grado di maturità da questi raggiunti. Il mancato ascolto o il diniego dell’ascolto non opportunamente motivato dal giudice sulla base di argomentazione relativa alla capacità di discernimento raggiunta dal minore, possono costituire motivo di impugnazione della decisione di accoglimento o rigetto dell’istanza di rimpatrio.

    La Convenzione de L’Aja, prevede che qualora l’istanza di rimpatrio sia stata presentata dopo un anno dall’avvenuto trasferimento o mancato rientro del minore, l’obbligo di ordinarne il ritorno viene meno se si dimostra che il minore si è integrato nel nuovo ambiente e, pertanto, un nuovo ulteriore distacco risulterebbe inopportuno e pregiudizievole.

     

    1. L’affidamento del minore e la continuità affettiva: rivisitazione dell’adozione mite e nuove prospettive in tema di adozione

              di Valeria Montaruli

    Presidente del Tribunale per i minorenni di Potenza

    Pubblichiamo la relazione in tema di affidamento del minore tenuta a Catania il 13 giugno 2017

    1. La legislazione nazionale in tema di adozione

    Entrambi gli istituti dell’adozione e dell’affidamento sono attualmente disciplinati dalla legge 4 maggio 1983, n. 184. Come è noto, ai fini dell’adozione legittimante, è previsto che il minore debba essere in stato di adottabilità, che presuppone una situazione di abbandono (mancanza di assistenza morale e materiale da parte dei genitori, se esistenti, o da parte dei parenti tenuti a provvedervi). La legge 4 maggio 1983, n. 184 sull’adozione (titolata significativamente −a seguito della riforma introdotta con la legge n. 149/2001 −Diritto del minore a una famiglia) delinea un ampio sistema di misure finalizzate a tutelare l’interesse del minore a crescere e ad essere educato nel proprio nucleo familiare. Questo diritto “naturale” del minore può “affievolirsi” solo in presenza di specifiche condizioni. La sottrazione del minore alla famiglia, dopo l’attivazione degli interventi di tutela temporanea previsti dalla legge, è quindi da ritenersi una soluzione “limite” che ricorre ove risultino insuperabili le difficoltà della famiglia di origine nell’assicurare al minore un ambiente idoneo.

     

    1. a) Ricostruzione storica dell’abbandono

    È utile una breve ricostruzione storica dell’istituto, alla luce del fatto che oggigiorno vi è la tendenza, sia della prassi che del legislatore, a smussare alcune rigidità insite nella disciplina dell’adozione, recuperando sia pure in chiave di adeguamento ad una mutata situazione sociale, della cosiddetta piccola adozione prevista in precedenza, che non recideva i rapporti con la famiglia di origine. L’affidamento era invece visto in funzione assistenziale, in collaborazione con gli enti locali.

    Il concetto di abbandono del minore, presupposto della dichiarazione di adottabilità, è un’acquisizione tutt’altro che recente nell’elaborazione giuridica e nelle formulazioni legislative del nostro Paese; di minori abbandonati, infatti, parla già la legge 17 luglio 1890, n. 6972 sull’assistenza ai poveri, oltre che varie altre leggi più particolarmente volte all’assistenza minorile: ai minori moralmente o materialmente abbandonati, inoltre, si richiama l’art. 403 cc, prevedendo il loro collocamento in luogo sicuro, a cura della pubblica autorità. Tuttavia, l’interesse delle istituzioni ai minori in condizioni di abbandono non era – inizialmente – finalizzato alla (ri)costruzione di un valido legame familiare alternativo a quello, inesistente o gravemente carente, del nucleo di origine, ma all’attuazione di tutta una congerie di interventi, aventi natura esclusivamente o prevalentemente amministrativa.   Si trattava, dunque, di un concetto disgiunto da quello di adozione, essendo quest’ultima originariamente finalizzata a fornire una discendenza alle coppie (abbienti) che ne fossero prive e non ad offrire una famiglia a bambini abbandonati. È stato giustamente affermato che non più tardi di qualche decennio fa allontanare un bambino equivaleva a disporne l’istituzionalizzazione, sicché la popolazione delle strutture di accoglienza era tanto numerosa quanto composita nella tipologia dei problemi presentati.

    Circa il merito delle ragioni che portavano alla scelta della soluzione istituzionale, va ricordato che esistevano fatti di costume che sembravano renderla obbligata e che, in quella fase storica, essa era avallata da convinzioni diffuse ed accreditate presso molta parte di operatori sociali e sanitari. Ad esempio, erano numerosi i figli di madri nubili, abbandonati od esposti, che (in alternativa al cosiddetto “baliatico”, che svolse una funzione socialmente preziosa) venivano accolti presso strutture in grado di ospitarli fino al sesto anno di età. Raggiunto tale limite, se non era ancora possibile che le madri se ne facessero carico, i minori, ormai portatori di sindromi carenziali di vario genere, venivano trasferiti negli Istituti medico-psico-pedagogici (Impp), la situazione interna dei quali non differiva sostanzialmente da quella delle “istituzioni totali per adulti”, di cui rappresentava spesso l’anticamera: infatti, allo scadere del diciottesimo anno di età, per molti di questi ragazzi −per lo piùpsichicamente deteriorati e divenuti socialmente inabili anche a causa della vita da internati condotta negli anni cruciali del loro sviluppo −la “carriera”istituzionale doveva obbligatoriamente proseguire e concludersi all’interno dell’ospedale psichiatrico.

     

    Era prevista l’adozione dei maggiorenni, ovvero l’affiliazione, come forma di adozione minore, che aveva natura eminentemente assistenziale e si esauriva con il raggiungimento della maggiore età dell’affiliato, salvo la conservazione del cognome assunto o aggiunto. È con la legge 5 giugno 1967 n. 431, istitutiva dell’adozione allora definita “speciale” – ma che ora a tutti gli effetti è da considerarsi ordinaria – che lo stato di abbandono diventa il presupposto per un intervento che potremmo definire ricostruttivo del legame familiare, sulla base dell’affermazione, resa esplicita dalla legge n. 184/1983, del diritto del minore di vivere all’interno della famiglia, possibilmente la propria, ma – quale extrema ratio – anche in un’altra. Ecco, dunque, che la definizione sostanziale dell’abbandono assume un’importanza di primissimo piano nell’ambito dell’intera materia civilistica minorile, atteso che la rescissione del legame con la famiglia naturale d’origine, che ne costituisce la conseguenza, è il più drastico (e doloroso) degli interventi che il giudice possa operare, unitamente al successivo atto di costruzione “artificiale” di un nuovo legame. Sebbene i lavori parlamentari della legge del 1967 avessero suggerito l’indicazione di un “catalogo” di fatti e circostanze costituenti abbandono, la scelta del legislatore fu di segno esattamente opposto, sostanziandosi nella “mera” enunciazione di un concetto-contenitore, da doversi “riempire” a cura dell’interprete di contenuti concreti.

    1. b) Lo stato di abbandono nella legislazione vigente

    Non vi è dubbio che il problema non si pone solo in caso di totale mancanza della famiglia d’origine, come accade allorché il minore non sia stato riconosciuto da alcuno dei genitori, ovvero sia stato materialmente abbandonato, cioè privato dell’essenziale per vivere; ma anche quando egli sia stato fatto oggetto di condotte commissive costituenti reato contro la vita, la libertà o la dignità della persona (si pensi a minori oggetto di abusi o sfruttamento sessuali, sevizie, maltrattamenti reiterati, etc.).

    La consolidata giurisprudenza valorizza quella che potremmo definire una valutazione degli effetti, ritenendo sussistente la condizione di abbandono allorché il contegno dei genitori, lungi dal risolversi in una mera insufficienza dell’apporto indispensabile per lo sviluppo e la formazione della personalità del minore, comprometta o determini grave pericolo di compromissione per la salute e le possibilità di armonico sviluppo fisico e psichico del minore stesso. Di fronte ad un siffatto nocumento o al rischio di esso, successivi atteggiamenti o progetti genitoriali per un miglioramento della situazione in tanto rilevano in quanto, oltre che seri, siano oggettivamente idonei al recupero della situazione medesima.   Nell’ottica di una valutazione del pregiudizio subito dal minore, la Cassazione stabilisce che lo stato di abbandono che giustifica la dichiarazione di adottabilità di un minore, presuppone l’individuazione, all’esito di un rigoroso accertamento, di carenze materiali ed affettive di tale rilevanza da integrare di per sé una situazione di pregiudizio per il minore, tenuto anche conto dell’esigenza primaria che questi cresca nella famiglia di origine, esigenza che non può essere sacrificata per la semplice inadeguatezza dell’assistenza o degli atteggiamenti psicologici e/o educativi dei genitori. Il bambino è dunque in stato di abbandono quando vi sia una obiettiva e non transitoria carenza di quel minimo di cure materiali, calore affettivo ed aiuto psicologico necessario a consentirgli un normale sviluppo psico-fisico. Come è noto, quanto agli effetti dell’adozione il minore adottato acquista lo stato di figlio degli adottati e ne assume il cognome e cessano i rapporti giuridici tra adottato e famiglia d’origine.

    L’adozione, dunque, è vista come una seconda nascita del minore, nella convinzione che si possa cancellare la sua storia precedente. Il rigore della previsione sulla cessazione dei rapporti con la famiglia di origine, è stato smussato dalla prassi che ricorre, anche nell’adozione legittimante, a forme di adozione aperta, in cui, pur essendoci l’interruzione dei rapporti con la famiglia di origine, viene disposta la prosecuzione dei rapporti di fatto con la stessa. Tale modalità applicativa dell’adozione legittimante, è stata in una certa misura recepita dalla legge sulla continuità affettiva del 2015.

    1. c) L’adozione in casi particolari (artt. 44-57, legge n. 183/1983)

    Questo tipo di adozione è configurata come un’ipotesi residuale di adozione di minori rispetto all’adozione legittimante. La caratteristica principale che la differenzia dall’adozione dei minori è che essa può essere disposta anche nel caso in cui non ricorra la situazione di abbandono, in alcune ipotesi tassative. L’ipotesi sub d) tuttavia, è stata intesa estensivamente dalla giurisprudenza, secondo l’interpretazione, oggi avallata nella nota ipotesi di adozione nell’ambito di coppie omoaffettive, che configura la concreta impossibilità dell’affidamento preadottivo, come impossibilità giuridica, allorquando, come accade nei casi di cosiddetto “semi-abbandono permanente”, pur essendo i genitori privi di adeguate capacità genitoriali, permangano rapporti con la famiglia di origine.

    1. L’affidamento del minore e le nuove prospettive sulla continuità affettiva
    2. a) La nozione di affidamento del minore

    L’istituto dell’affidamento familiare, come alternativa rispetto al ricovero in un istituto di assistenza, soddisfa l’esigenza di allontanare un minore dall’ambiente di origine, quando questo non sia idoneo alla sua educazione (art. 2, legge n. 184/1983, come modificata dalla legge n. 149/2001). Esso può soddisfare sia momentanee difficoltà del nucleo familiare, sia carenze più profonde e durature, che potrebbero condurre ad un sostanziale abbandono del minore. A seconda della natura di tali difficoltà, si configurano diversi tipi di affidamento.

    Nella logica dell’affidamento, il bambino si trova perciò ad avere due famiglie o comunque due nuclei affettivi di riferimento: quello in cui è nato e quello in cui è cresciuto per un certo periodo della sua vita. L’affido raggiunge il suo scopo quando gli affidatari consentano al minore di avere rapporti con la sua famiglia di origine, in funzione di supporto rispetto alla stessa, essendo essi destinatari dei doveri, ma non già dei poteri del genitore. È peraltro previsto in capo all’affidatario l’obbligo di agevolare i rapporti tra il minore ed i genitori e di favorirne il reinserimento nella famiglia di origine. Presupposto necessario per l’istituto dell’affido è che la difficoltà in cui viene a trovarsi la famiglia di origine, seppure non sia a carattere momentaneo, non debba comunque sconfinare nello stato di abbandono materiale e morale, che potrà dar vita alla procedura di adottabilità (art. 8).

    La situazione che giustifica l’affidamento etero-familiare, a norma degli artt. 2 ss. legge 4 maggio 1983 n. 184, come sostituiti dai corrispondenti articoli della legge 28 marzo 2001 n. 149, e quella che conduce alla pronuncia di adottabilità si differenziano, dunque, in quanto la mancanza di «un ambiente familiare idoneo» è considerata nel primo caso, temporanea e superabile con il detto affidamento, mentre nel secondo caso, si ritiene che essa sia insuperabile e che non vi si possa ovviare se non per il tramite della dichiarazione di adottabilità. La determinazione della linea di demarcazione tra le due situazioni potrà diventare assai problematica nei casi di affidamento di competenza del tribunale per i minorenni, laddove la durata dell’affido può anche protrarsi per anni. La condizione del minore che si trovi in una situazione di affidamento sine die, che non sfoci in un’adozione e neppure in un rientro in famiglia, crea una situazione di incertezza nella definizione della sua identità personale, sicché questa tipologia di minore viene definita come «bambino nel limbo», sospeso tra instabili appartenenze, lasciate nella confusione e ambiguità. Invece, nei casi di competenza del giudice tutelare, presupposto fondamentale ed imprescindibile è costituito dalla provvisorietà dell’affido.

    Nel provvedimento va indicato il tempo dell’affido che non può superare i ventiquattro mesi, prorogabili dal Tm. Non è determinato il tempo massimo. Tuttavia è prevalsa un’interpretazione giurisprudenziale per cui esso può al massimo durare per tre anni, sulla base del vecchio istituto dell’affiliazione (abrogato dall’art. 77 della legge del 1984), che serviva a stabilizzare gli affidi di oltre 3 anni (art. 404 cc) e che deduceva dall’abrogazione dell’istituto dell’affiliazione lo sfavore del legislatore per gli affidi ultratriennali.

    1. b) La disciplina

    La disciplina dell’affidamento del minore è posta in apertura della legge n. 184/1983, con la quale il legislatore ha armonizzato una regolamentazione dispersa tra leggi speciali. L’affidamento, inteso come temporaneo inserimento del minore in una famiglia diversa da quella di origine, rientra dunque nel complesso di azioni di sostegno alla stessa.

    L’art. 2 legge n. 184/1983 prevede che l’affidamento del minore che sia temporaneamente privo di un ambiente familiare idoneo ad un’altra famiglia o possa essere disposto dal servizio sociale, previo consenso dei genitori o del tutore, e in tal caso il provvedimento è reso esecutivo dal giudice tutelare; ove manchi l’assenso di tali soggetti, provvede il tribunale per i minorenni. Il comma 2 prevede l’affidamento presso una comunità di tipo familiare. Questo tipo di affidamento−cui si ricorre nei casi in cui non sia possibile un adeguato affidamento familiare −consiste nel ricovero del minore presso una cd. casa famiglia, una comunità di tipo familiare che ha ormai – dal 2007 – sostituito i precedenti istituti di assistenza pubblici e privati.

    Quanto alle tipologie di affidamento giurisdizionale, si distinguono le seguenti:

    – ai sensi dell’art. 330 cc il tribunale per i minorenni, dichiarando la decadenza dalla responsabilità genitoriale, ovvero ai sensi dell’art. 333 cc adottando i provvedimenti più opportuni in caso di comportamenti pregiudizievoli dei genitori, può prescrivere l’allontanamento del figlio dalla residenza familiare e disporre l’affidamento del minore a terzi, coniugati o singoli, e può in casi di urgenza anche provvedere in via provvisoria, prima della conclusione del procedimento;

    – nel corso degli accertamenti disposti nel procedimento di abbandono, il tribunale per i minori può emettere ogni provvedimento nei confronti del minore, compresa la sospensione dalla responsabilità genitoriale e la nomina di un tutore (art. 10 legge n. 184/1983). È prassi frequente del Tm disporre l’affidamento provvisorio del minore ad una coppia idonea per l’adozione, sì che l’affidamento possa trasformarsi in affidamento preadottivo;

    – altre tipologie di affidamento giudiziario attengono a quello disposto dal giudice tutelare, quando delibera sul luogo dove il minore debba essere allevato e scelga anche le persone dalle quali deve essere allevato; il giudice della separazione o del divorzio può altresì affidare la prole a terzi (art. 2 legge n. 184/1983, analogicamente applicabile anche alla separazione);

    – nell’ambito della sua competenza amministrativa, l’art. 25 Rdl n. 1404/1934 modificato dalla legge n. 888/1956 prevede che il Tm affidi il minore irregolare per condotta al servizio sociale minorile, disponendone l’allontanamento dalla casa familiare. In tal caso indicherà il luogo dove intende vivere e la persona o l’ente che si prenderà cura di lui.

    Il grande assente in questa disciplina è l’affidamento sine die, che tuttavia nella prassi è stato ampiamente utilizzato, per mancanza di alternative o in ragione dell’esigenza di non intaccare situazioni consolidate.

    1. c) Il principio della continuità affettiva nella giurisprudenza sovranazionale

    Il rigore delle categorie giuridiche va coniugato con il principio della continuità degli affetti, secondo quanto è stato autorevolmente affermato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, con sentenza del 27 aprile 2010, Moretti e Benedetti c. Italia, relativa a un caso in cui una bimba fu sottratta agli affidatari per essere data in affidamento a fini adottivi d’altra coppia. Essa distingue i casi in cui l’affidamento familiare abbia dato luogo al realizzarsi di relazioni familiari di fatto tra affidatari e minore, tali da integrare una famiglia, da quelli in cui ciò non avvenga. Secondo l’orientamento della Corte, pur escludendosi che possa essere affermato il diritto all’adozione degli affidatari, tuttavia, qualora risulti in concreto che il minore affidato abbia realizzato con i suoi affidatari un valido rapporto familiare, ben può pervenirsi all’accoglimento della domanda di adozione da costoro proposta.

    La Cedu configura la nozione di vita familiare di cui all’art. 8, come inclusiva di rapporti di fatto (Marcks/Belgio e Nyluhd/Finlandia), in particolare in un’ipotesi in cui i ricorrenti avevano vissuto per il tempo apprezzabile di diciannove mesi con la bambina, che si era perfettamente inserita nel nucleo familiare. Dal punto di vista procedurale, la Corte osservava che non era stata valutata la domanda di adozione in casi particolari formulata dalla coppia affidataria. Il principio della continuità affettiva e la connessa esperienza dell’adozione mite, sono stati valorizzati nella sentenza Cedu del 21 gennaio 2014, relativa al caso Zhou c. Italia, in un caso di madre in condizioni di disagio psichico, che affidava sistematicamente il figlio ai vicini di casa ritenuti dei servizi non idonei, mentre la stessa era al lavoro, laddove (cfr. par. n. 26) si afferma che «secondo le informazioni fornite dal Governo, diversi tribunali per i minorenni hanno applicato l’articolo 44 d) della legge n. 184 del 1993, oltre ai casi previsti dalla legge (…). La procedura si è conclusa con la condanna dell’Italia, in quanto “… nessuna spiegazione convincente per giustificare la soppressione del legame di filiazione tra la ricorrente e suo figlio è stata fornita dal Governo”» (cfr. par. 59). In senso analogo, cfr. anche la sentenza Todorova c. Italia del 13 gennaio 2009, in un caso in cui la madre aveva optato per il parto anonimo, chiedendo tuttavia solo dopo quattro giorni dallo stesso, di riflettere sul riconoscimento nonché di essere ascoltata dal giudice. In definitiva, il principio che emerge da questa giurisprudenza della Cedu è quello della pari dignità culturale e giuridica, ai fini della tutela del superiore interesse del minore, dell’adozione piena e chiusa, che comporta l’interruzione dei rapporti giuridici di fatto con la famiglia di origine, e l’adozione piena e aperta, che rompe i legami giuridici e mantiene solo i rapporti di fatto con alcuni membri della famiglia di origine. La scelta tra i due modelli di adozione va, dunque, effettuata in concreto, in base a ciò che è meglio per il bambino.

    1. Le riforme in materia di continuità affettiva. In particolare, la legge n. 173/2015

    Le riforme ultime in materia di affidamento e di adozione, mirano a dare attuazione all’interesse del minore ad una famiglia fondata su validi legami affettivi, piuttosto che su meri requisiti di tipo formale. Si tralascia la proposta unificata approvata dalla Camera e all’esame del Senato AS 1978, in materia di accesso alle origini nell’adozione e parto anonimo. Si segnala che è recentissima l’entrata in vigore della legge 19 ottobre 2015, n. 173, recante modifiche alla legge 4 maggio 1983, n. 184 sul diritto alla continuità affettiva dei bambini e delle bambine in affido familiare, che ha avuto grande risonanza anche mediatica. Essa ha inteso introdurre un favor verso i legami costruiti in ragione dell’affidamento, avendo cura di specificare che questi hanno rilievo solo ove il rapporto instauratosi abbia di fatto determinato una relazione profonda, proprio sul piano affettivo, tra minore e famiglia affidataria. Il testo prevede una “corsia preferenziale” per l’adozione a favore della famiglia affidataria, allorquando −dichiarato lo stato di abbandono del minore –risulti impossibile ricostituire il rapporto del minore con la famiglia d’origine. Inoltre, laddove sia dichiarata l’adottabilità, il tribunale dei minorenni, nel decidere in ordine alla domanda di adozione legittimante presentata dalla famiglia affidataria, deve tenere conto dei legami affettivi «significativi» e del rapporto «stabile e duraturo» consolidatosi tra il minore e la famiglia affidataria. In definitiva, tale corsia preferenziale opera soltanto a condizione che la coppia affidataria soddisfi tutti i requisiti per l’adozione legittimante previsti dall’articolo 6 della legge n. 184/1983 (stabile rapporto di coppia, idoneità all’adozione e differenza d’età con differenza d’età con l’adottato), nonché quando l’affidamento, contrariamente alla natura dell’istituto, si sia sostanziato di fatto in un rapporto stabile e prolungato sul piano anche affettivo tra la famiglia (o la persona) affidataria e il minore.

    Il comma 5-ter prevede poi, che, nel caso in cui il minore faccia ritorno nella famiglia di origine o sia dichiarato adottabile o sia adottato da famiglia diversa da quella affidataria, sia comunque tutelata, se rispondente all’interesse del minore, la continuità delle positive relazioni socio-affettive consolidatesi durante il prolungato periodo di affidamento. Ai sensi del comma 5-quater il giudice nel decidere deve non solo tenere conto della valutazione dei servizi sociali, ma anche procedere all’ascolto del minore ultradodicenne e, se capace di discernimento, anche del minore infradodicenne.

    L’articolo 2 interviene sul comma 1 dell’articolo 5 della legge n. 184/1983, che riguarda i diritti e doveri dell’affidatario, garantendo alla famiglia o alla persona cui sia stato affidato il minore la legittimazione ad intervenire nei procedimenti che riguardano il minore. Più in particolare la norma impone l’obbligo, a pena di nullità, di convocare l’affidatario in tutti i procedimenti civili in materia di responsabilità genitoriale, di affidamento e di adottabilità relativi al minore affidato, riconoscendogli nel contempo la facoltà di presentare memorie nell’interesse del minore.

    L’articolo 3 del disegno di legge introduce un ulteriore comma, il comma 1-bis, nell’articolo 25 della legge del 1983. La nuova disposizione prevede che le norme di cui al comma 1 dell’articolo 25 in tema di adozione, trovino applicazione anche nell’ipotesi di prolungato periodo di affidamento. Essa sembra dunque contemplare l’ipotesi, di frequente verificazione, in cui l’affidamento abbia luogo in situazioni di difficoltà non transitorie, suscettibili di sfociare in stato di abbandono. Proprio in tali ipotesi, l’affidamento rappresenta un titolo preferenziale per l’affidamento preadottivo. Tuttavia, il periodo di affidamento non si computa ai fini del compimento del periodo di affidamento preadottivo.

     

    Nella prassi si verificano molteplici casi di questo tipo, sicché, in assenza di ricorso del pm per la dichiarazione di adottabilità, e non potendo ricorrere allo strumento dell’art. 10 legge n. 184/1983, si anticipano già in questa fase le comparazioni, anche in vista di un’adozione ex art. 44, legge n. 184/1983.

    La legge sembra contemplare l’ipotesi in cui l’affidamento duraturo sfoci sia in adozione legittimante, anche nella forma di adozione aperta, sia nell’adozione in casi particolari.

    L’articolo 4, infine, risolve i dubbi giurisprudenziali sorti in relazione all’ articolo 44, cpv lett. a) della legge del 1983, nella parte in cui fa riferimento alla «adozione in casi particolari». Il testo, nel confermare la linea interpretativa favorevole a considerare positivamente i legami costruiti in ragione dell’affidamento, specifica che essi hanno rilievo solo ove il rapporto che si è instaurato, in ragione del protrarsi anomalo del periodo di affidamento, abbia di fatto creato una speciale relazione affettiva tra il minore e la famiglia affidataria. Lascia perplessa la previsione per cui l’anzidetta trasformazione in adozione in casi particolari possa avvenire nella sola ipotesi di cui alla lett. a). Sembra più naturale il collegamento con la lett. d), laddove il minore abbia mantenuto rapporti con la famiglia di origine.

    Secondo le prime applicazioni giurisprudenziali, la finalità della legge n. 173/2015 è quella di preservare «il diritto alla continuità affettiva dei bambini e delle bambine in affido familiare» sancendo, in tal direzione, anche una sorta di preferenza nel caso di procedimento adottivo, in favore delle famiglie che hanno instaurato con il fanciullo un «legame significativo affettivo»: solo ove sussista tale legame opera il novellato art. 5 legge n. 184/1983, mentre in caso di affidamento all’ente – quando il tribunale quindi applica una limitazione della responsabilità genitoriale, ma non instaura un legame affettivo tra l’ente e il minore – il tribunale non è tenuto alla convocazione dell’affidatario o del collocatario.

    In definitiva, pur essendo stata valutata positivamente la legge n. 173/2015, è stata criticata sotto il profilo della mancata innovazione della disciplina sui poteri e doveri degli affidatari ex art. 5 legge n. 184/1983.

    Sempre in tema di rapporti tra affidamento e adozione, con riferimento ai minori provenienti da Paesi islamici, è recentemente entrata in vigore la legge 18 giugno 2015, n. 101 con la quale l’Italia ha proceduto alla ratifica e all’esecuzione della Convenzione sulla competenza, la legge applicabile, il riconoscimento, l’esecuzione e la cooperazione in materia di responsabilità genitoriale e di misure di protezione dei minori, fatta a L’Aja il 19 ottobre 1996, con riferimento al collocamento del minore in una famiglia di accoglienza o in istituto o alla sua assistenza legale tramite kafala. Tuttavia, quest’ultimo profilo è stato stralciato dalla legge di esecuzione e forma oggetto di un autonomo disegno di legge presentato dal Governo – approvato dalla Camera e pendente presso la Commissione giustizia del Senato – contenente le norme di adeguamento interno, al fine di attribuire una veste giuridica alla cosiddetta kafala, istituto affine all’affidamento familiare, previsto come unica misura di protezione del minore negli ordinamenti islamici, non operando alcuna distinzione tra bambini in stato di abbandono e bambini non abbandonati, ma che necessitano di essere affidati ad altra famiglia. Come chiarito nella relazione illustrativa, l’Italia ha infatti ritenuto di «dettare specifiche norme di adeguamento dell’ordinamento interno sia con riferimento a profili concernenti il riconoscimento di alcune misure di protezione, sia per la necessità di modificare la legge 31 maggio 1995, n. 218, recante riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato». Si argomenta, infatti, che «la delicatezza dell’affidamento familiare, nonché la mancata disciplina dell’assistenza legale tramite kafala o istituti analoghi nell’ordinamento italiano, che allo stato non conosce forme di affidamento sine die, destinate cioè a protrarsi fino al raggiungimento della maggiore età del minore, hanno indotto ad adottare norme disciplinanti i presupposti e le modalità, in presenza dei quali le competenti autorità italiane possano approvare il collocamento o l’assistenza, qualora venga prospettato da parte delle autorità di un altro Stato contraente il collocamento di un minore in Italia in una famiglia di accoglienza (o in un istituto), ovvero la sua assistenza legale tramite kafala o istituto analogo». In definitiva, in materia di affidamento e adozione, si manifesta particolare attenzione alle complesse e delicate istanze che si muovono nella società civile, che da un lato mirano a garantire pienamente l’interesse del minore al riconoscimento di uno status di filiazione, che viene certamente inficiato da discutibili inerzie nel prolungare affidamenti sine die in assenza di alcuna progettualità; e dall’altro, tuttavia, appare ineludibile un’attenta considerazione della molteplicità e complessità dei modelli familiari, che rende inadeguata l’univocità di un modello di adozione, nella sua principale declinazione come legittimante, alla stregua di una seconda nascita, cui debba necessariamente conseguire l’interruzione dei rapporti con la famiglia di origine.

     

    1. bis L’elaborazione dottrinaria sul semi-abbandono permanente e la sperimentazione dell’adozione mite

     

    La sperimentazione della cosiddetta adozione mite è cominciata nel giugno 2003 come semplice prassi giudiziaria autorizzata dal Csm nel Tribunale per i minorenni di Bari e fondata sul parziale insuccesso della legislazione in tema di affidamento familiare e sull’esigenza di dare maggiore impulso al processo di deistituzionalizzazione dei minori (in vista della scadenza del dicembre 2006 per la chiusura degli istituti) [1]. Il punto di partenza del discorso è costituito dalla constatazione che il numero dei bambini dichiarati adottabili e poi adottati era andato notevolmente diminuendo negli ultimi anni, a conferma che le situazioni di pieno abbandono morale e materiale tendevano a ridursi, mentre restava sempre alto quello delle domande di adozione. A ciò si aggiungeva che l’adozione internazionale, verso cui molte coppie si orientano, ha costi alti, che spesso scoraggiano gli aspiranti adottanti. La sperimentazione si innestava sulla constatazione che l’impostazione normativa aveva trascurato del tutto il caso frequente della famiglia inidonea parzialmente, ma in modo continuativo, a rispondere ai bisogni educativi del figlio; che è cioè incapace di rispondere alle sue esigenze educative, ma che non lo ha abbandonato e, anzi, ha con lui un rapporto affettivo significativo, anche se inadeguato. In tal caso, da un lato, non è opportuno nell’interesse del minore che tale rapporto venga del tutto cancellato, ma, dall’altro, non esiste una ragionevole previsione di pieno recupero di esso. Si tratta del cd. semi-abbandono permanente, che è privo di qualunque riconoscimento normativo, in quanto riceve quale risposta solo l’affidamento familiare: viene, cioè, gestito come se si trattasse di un’inidoneità familiare di carattere temporaneo, mentre si tratta di cosa ben diversa [2]. Una riflessione in termini giuridici sulla nozione dottrinaria di semi-abbandono permanentesi fonda sulla dicitura contenuta nell’art. 44 «quando non ricorrono le condizioni dell’art. 7», che ha indotto la prevalente giurisprudenza a ritenere che l’adozione in casi particolari prescinda dalla dichiarazione di adottabilità dello stesso, se sussistono i presupposti sostanziali dello stato di abbandono. Un’interpretazione evolutiva muove dalla lettura coordinata tra l’art. 44 con riferimento all’esclusione dell’art. 7 e la lett. d), che fa riferimento all’impossibilità di affido preadottivo, per ritenere che possa pervenirsi all’adozione in casi particolari, anche quando non ricorrano situazioni di abbandono del minore tali da giustificare una pronuncia di adottabilità [3].

     

    Un ulteriore elemento interpretativo è costituito dal coordinamento tra l’art. 44 lett. d) e gli artt. 45 e 46, laddove, ai fini dell’adozione speciale, non si esige il presupposto dell’abbandono materiale e morale, quanto il consenso dei genitori o del tutore e del minore che abbia compiuto gli anni 14, ovvero, in caso di mancato assenso e quando esso sia ingiustificato, il mancato esercizio della potestà a seguito di un provvedimento di sospensione o decadenza dalla potestà [4]. Tale previsione – oltre ad escludere la necessità di una declaratoria dello stato di adottabilità, che di per sé sospende la potestà genitoriale – sembra escludere la necessaria ricorrenza del presupposto dello stato di abbandono. Infatti, in caso di ingiustificato dissenso da parte dei genitori, è sufficiente che ricorrano i presupposti per assumere un provvedimento ablativo della potestà, ovvero occorrono carenze nella capacità genitoriale certamente gravi, ma non di tale entità da configurare una situazione di abbandono materiale e morale tale, da determinare una declaratoria di adottabilità. Ad ulteriore conferma, l’art. 10 della legge n. 184/1983 prevede la possibilità di adottare i provvedimenti di cui agli artt. 330-333 cc in pendenza di un procedimento di adattabilità e dunque prima ed indipendentemente da siffatta pronuncia [5].

     

    Uno studio effettuato dal Dipartimento di psicologia presso l’Università di Bari ha acclarato il successo dell’esperienza, essendosi proceduto ad adozione cd. mite in 168 casi, nella maggior parte dei quali con il consenso dei genitori biologici. L’opinione manifestata dai soggetti coinvolti in focus-groups omogenei evidenziava come criticità dell’esperienza il rischio di ambiguità e insicurezza nella costruzione delle relazioni parentali e il timore negli adottanti di pericolose interferenze della famiglia di origine, mentre come punto di forza si evidenziava la più serena accettazione della sua storia da parte del minore e la salvaguardia di esigenze di continuità affettiva. Un ulteriore rischio era quello di strumentalizzazione dell’adozione mite, al fine di pervenire in modo indiretto ad un’adozione piena. Si evidenziava inoltre la necessità, per la riuscita del percorso, di una costante opera di sostegno da parte dei servizi, anche nel post-adozione. Quanto agli esiti dei casi di adozione mite, si evidenziava che nella grande maggioranza dei casi i bambini non mantenevano rapporti con la famiglia di origine, salvo che con i fratelli, per loro scelta. Rispetto agli altri adottati, questi bambini parevano più sereni, anche se, rispetto ai minori in adozione chiusa, presentavano una maggiore insicurezza nell’attaccamento. Solitamente venivano anche meno i rapporti tra la famiglia biologica e quella adottiva.

     

    La sperimentazione barese sull’adozione mite è stata oggetto di accese polemiche, essendo stata accusata di aver forzato il dato normativo della legge n. 184/1983 dilatando l’ambito di applicazione dell’istituto, concepito dal legislatore come residuale, dell’adozione in casi particolari. Un profilo di criticità di tale sperimentazione è peraltro ravvisabile nel dato di realtà per il quale le coppie che propongono istanza di adozione sono in generale poco propense ad accettare il mantenimento dei rapporti tra il minore e la famiglia di origine. Sta di fatto, peraltro, che tale sperimentazione ha avuto il merito di anticipare i recenti orientamenti della giurisprudenza nazionale e sovranazionale, seguiti dallo stesso legislatore, che hanno valorizzato il principio della continuità affettiva, così depotenziando una superata visione massimalista dell’adozione fondata sulla cancellazione della storia precedente del minore, ferma restando la valutazione delle peculiarità dei casi concreti.

    Alla luce di tale evoluzione, sembra possibile recuperare il patrimonio di esperienza della cd. adozione mite, valorizzando esperienze di coordinamento tra tribunale, servizi sociali e privato sociale, al fine di istituire un bacino condiviso di coppie o di persone singole, adeguatamente selezionate e formate, disponibili all’affidamento a lungo termine di minori con una storia personale e relazionale significativa, suscettibile di evolvere in provvedimenti adottivi.

    [1] Nella documentazione interna al Tribunale per i minorenni di Bari, la sperimentazione in esame viene così descritta: «L’iter di tale procedura si articola in due fasi, entrambe dirette ad approfondire la situazione personale e familiare del minore ed a formulare per lui un progetto di vita futura. La prima fase si propone il fine di verificare se vi sono le condizioni per il rientro del minore nella sua famiglia e di realizzarlo; la seconda è diretta – una volta accertata l’impraticabilità del rientro in famiglia – a procedere all’adozione in favore del minore, che sarà quella legittimante, se si riscontra una situazione di abbandono morale e materiale; sarà, altrimenti, l’adozione non legittimante di cui all’art. 44 lett. d) della L. 184/1983, se il minore non è in abbandono, ma è permanentemente privo di ambiente familiare idoneo.La prima fase suindicata si attua con la ripetuta discussione della vicenda in camera di consiglio e con l’espletamento di un’istruttoria collegiale funzionale anzitutto a realizzare insieme con i servizi territoriali l’immediato rientro del minore nella propria famiglia; a programmare, inoltre, nell’eventualità che ciò non sia possibile, un piano d’intervento socio-giudiziario con prescrizioni dirette – anche prevedendo i sostegni e gli aiuti previsti dall’art. 1 L. 184/1983 – ad agevolare il rientro del minore nella famiglia in tempi congrui; a procedere, in una terza ipotesi ad un affidamento familiare giudiziario (nell’ambito del procedimento civile pendente per il minore e previa comparazione tra tutte le famiglie disponibili ad accoglierlo), quando il minore sia ospite di una comunità e non risulti realizzabile, in tempi congrui, nemmeno con adeguati sostegni, il rientro del medesimo nella famiglia biologica. L’affidamento familiare, che viene disposto in tal caso, ha natura giudiziaria, essendo pronunziato ai sensi del combinato disposto degli artt. 4, 2° comma, L. 184/1983 e 330 e seguenti del codice civile, per effetto del disagio familiare riscontrato, in linea con un orientamento dottrinale da tempo affermato. Si creano così le condizioni per una verifica in tempi più lunghi (rispetto alle ipotesi prospettate in precedenza) delle possibilità di recupero della famiglia di origine e di successivo rientro del minore. Infine, nel caso in cui l’affidamento familiare superi la scadenza prevista ed anzi si protragga per vari anni oltre tale termine, gli affidatari del minore vengono invitati a presentare – sempre nel caso in cui il rientro nella famiglia di origine non risulti praticabile – una domanda di adozione mite come dimostrazione della loro disponibilità a modificare la qualità del rapporto già da tempo esistente con il minore, trasformandolo da affidamento familiare in adozione particolare ai sensi dell’art. 44 lettera d) legge 184/1983, oppure in quella legittimante dello stesso minore, se si ravvisano le condizioni per procedere alla sua dichiarazione di adottabilità. Viene in tal modo posto termine a quella condizione familiare precaria, consistente nell’affidamento “sine die”, che crea quella situazione nota con l’espressione “bambini nel limbo”, relativa a minori che rischiano vere e proprie crisi di identità, perché perennemente scissi tra la dimensione affettiva, che li fa sentire ben integrati nella famiglia affidataria, e quella giuridica, che li fa appartenere totalmente alla famiglia d’origine».

    [2] In ordine ad un’analisi sociologica del fenomeno del semi-abbandono, nel quale l’interruzione dei rapporti del bambino con le figure parentali potrebbe rivelarsi pregiudizievole, cfr. V. Pocar e P. Ronfani, Famiglia e diritto, Laterza, Bari, pp. 101 ss. Si evidenzia il presupposto culturale della l. n. 184/83, della prevalenza della famiglia degli affetti su quella biologica. Commentano gli autori: «… all’attuale modello ‘forte’ di adozione potrebbe dunque affiancarsene uno ‘mite’, non rivolto a creare per legge una nuova ed esclusiva genitorialità…».

    [3] Cfr. Trib. Min. Bari, 7 maggio 2008, adottata ex art. 44, lett. d), in un caso in cui la minore era da tempo collocata in affidamento familiare, ed incontrava regolarmente la madre. Si era dunque determinata una situazione definita «palesemente irreversibile», ostativa ad un rientro della minore in famiglia, e d’altra parte la piccola aveva radicato con gli affidatari un saldo legame affettivo, atteso che viveva presso di essi dall’età di due anni, pur non avendo mai interrotto i rapporti con la madre. Questa peraltro aveva prestato l’assenso all’adozione della figlia ed aveva un ottimo rapporto con gli affidatari. Si segnala anche un decreto Trib. Min. Napoli, 24 ottobre 2007, nel quale, in un caso di persistente inadeguatezza della famiglia di origine, veniva comunque da questa espresso un consenso all’adozione mite dei minori.

    [4] È pacifico che la mancanza di assenso da parte di un genitore esercente la responsabilità genitoriale si ponga come ostativo all’adozione speciale, precludendo al giudice la valutazione del carattere giustificato dei motivi a suo fondamento (cfr. Cass., 26 luglio 2000, n. 9795, in Mass. Giust. Civ., 2000, 2047).

    [5] Riguardo al rapporto tra adozione legittimante e non legittimante, si richiama la seguente considerazione contenuta nella citata sentenza Trib. Min. Bari, 7 maggio 2008: «… Pertanto  l’area di applicazione  della prima adozione (quella non legittimante), è diversa da quella  della seconda (quella legittimante) e ne deriva che il rapporto tra le due adozioni 44 d) e legittimante) non va inteso solo come riguardante in entrambi i casi  i soli  minori adottabili; ma deve essere interpretato in senso più ampio e cioè come simile a quello esistente tra due cerchi concentrici, dei quali il più piccolo riguarda i casi in cui il minore venga dichiarato adottabile e quindi sia destinato all’adozione legittimante, mentre il più grande riguarda quelle zone grigie dell’abbandono, quelle situazioni cioè che, pur non dando luogo ad un abbandono pieno, possono tuttavia ritenersi rientranti nel concetto di “semiabbandono permanente”…».

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