Home Forum Nuovi Giuristi La responsabilità genitoriale Argomento 2 – La separazione personale nel matrimonio

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    La separazione consiste nell’interruzione stabile ed effettiva della convivenza coniugale (art. 150 c.c.). Le cause della stessa risiedono frequentemente nella violazione dei fondamentali doveri del matrimonio, quali la fedeltà e l’assistenza morale e materiale, nonché quelle relative a maltrattamenti fisici o psicologici. Il ricorso alla separazione rappresenta un diritto personalissimo, indisponibile, non trasmissibile ed imprescrittibile, che spetta soltanto ai coniugi. I quali non possono rinunziarvi co accordi preventivi, pena la nullità del relativo contratto. Nel giudizio di separazione sono esclusi, come parti, i figli minori, dal momento che la loro tutela è affidata al giudice della separazione titolare del potere di ascoltarli in qualunque momento, qualora ne ravvisi una effettiva necessità, tenendo comunque conto dell’età degli stessi. Negli ultimi arresti giurisprudenziali, si fa tuttavia facendo strada, soprattutto quando l’interesse del figlio minore si pone in maniera antitetica con quelli di uno dei genitori o addirittura di entrambi, la   costruzione di una parte processuale autonoma rappresentata da un curatore speciale, così come avviene nei procedimenti di adottabilità innanzi al TM.

    La separazione può essere di tre tipologie:

    Separazione giudiziale (art. 151 c.c.)  È proposta con ricorso ad iniziativa di uno dei due coniugi, contenente l’esposizione dei fatti sui quali esso si fonda, al tribunale civile del luogo dell’ultima residenza coniugale ovvero del luogo ove il coniuge convenuto ha la residenza o il domicilio o, nel caso di irreperibilità o residenza all’estero di questi, del luogo ove si trova il ricorrente. Se entrambi i coniugi risiedono all’estero, può essere proposto a qualunque tribunale della Repubblica. Presupposti della separazione giudiziale sono i fatti o le circostanze che hanno determinato l’intollerabilità della convivenza coniugale e in alcuni casi anche il grave pregiudizio per l’educazione dei figli, anche se non direttamente dipendenti dalla volontà dei coniugi.  Tali situazioni  vanno valutate caso per caso, tenuto conto dell’indice di sensibilità media di una persona, dell’ambiente di appartenenza e di ogni altro elemento che possa risultare utile ad individuarla  Il procedimento  di separazione giudiziale  si conclude con   una  sentenza di separazione attraverso la quale ;il tribunale accerta  «ove ne ricorrano le circostanze e ne sia richiesto, a quale dei coniugi sia addebitabile la separazione, in considerazione del suo comportamento contrario ai doveri che derivano dal matrimonio». Deve trattarsi di comportamenti di particolare gravità inerenti la violazione dei doveri coniugali (di cui agli artt. 143 e seguenti cod. civ.), attuati in maniera cosciente e volontaria, con omissioni o con azioni. La loro valutazione è, pertanto, rimessa al prudente e discrezionale apprezzamento del giudice, nell’ambito di una valutazione unitaria e organica dei fatti dedotti dalle parti nel giudizio. Sia ad istanza di parte che di ufficio, il tribunale può emanare sentenza non definitiva di separazione, nel caso in cui il processo debba continuare per la richiesta di addebito, per l’affidamento dei figli o per le questioni economiche.   In qualunque stadio del procedimento e per concorde volontà dei coniugi, è comunque possibile trasformare la procedura da contenziosa in consensuale.

    Separazione consensuale (art. 158 c.c.)– È proposta con ricorso, per accordo congiunto dei coniugi, al tribunale civile del luogo di residenza o domicilio dell’uno o dell’altro. Tale accordo deve contenere, oltre al mutuo consenso dei coniugi di sospendere a tempo indeterminato l’obbligo della coabitazione, anche tutte le altre collegate pattuizioni, quali ad esempio: a) l’entità dell’eventuale assegno per alimenti e/o mantenimento a favore del coniuge economicamente più debole; b) le condizioni in ordine all’affidamento dei figli ed al loro mantenimento; c) le modalità di articolazione del diritto di visita agli stessi; d) l’assegnazione della casa familiare. Il procedimento instaurato in forma consensuale si conclude – in modo molto più celere e meno traumatico rispetto a quello in forma giudiziale – con il decreto di omologazione di detto accordo, previo controllo da parte del tribunale delle condizioni in esso proposte. Non è possibile la trasformazione del rito da consensuale in giudiziale o contenzioso.

    Separazione di fatto – Consta nell’interruzione della convivenza coniugale a seguito di un accordo informale (espresso o tacito) dei coniugi, non accompagnato da alcun provvedimento giudiziale di ratifica. Essa mantiene in vita (almeno formalmente) tutti i diritti e gli obblighi discendenti dal matrimonio, di cui all’art. 143 cod. civ.

    Tra la proposizione del ricorso di separazione in tribunale e l’udienza di prima comparizione dei coniugi innanzi al Presidente finalizzata ad emanare i provvedimenti del caso, si determina tra i coniugi una fase di attesa, assimilabile ad una separazione di fatto, in cui permangono generalmente operativi quasi tutti gli obblighi discendenti dal matrimonio. In particolare, dal momento della proposizione del ricorso, sia in forma giudiziale che consensuale:

    • rimane sospeso l’obbligo della coabitazione;
    • rimane intatto l’obbligo della fedeltà coniugale;
    • rimane l’obbligo dell’assistenza morale e materiale, sebbene ridimensionato in relazione a quegli aspetti strettamente collegati alla coabitazione;
    • rimane ovviamente intatto ogni altro obbligo verso i figli.

    La pronuncia di separazione (sia giudiziale che consensuale) dà origine ad uno stato giuridico dei rapporti coniugali di carattere transitorio, che può rimanere tale a tempo indeterminato, oppure cessare con la riconciliazione o sfociare nel divorzio. Con essa viene ufficialmente meno l’obbligo della coabitazione e – di conseguenza – dell’assistenza, relativamente alle modalità in cui si articolerebbe in una stabile convivenza; come pure viene meno,  l’obbligo della fedeltà, mentre permane quello del mantenimento degli eventuali figli (art. 155 c.c.) nonché del coniuge che «non abbia adeguati redditi propri», purché non sia a questi addebitabile la separazione, la cui entità è determinata in relazione «alle circostanze e ai redditi dell’obbligato» (art. 156 c.c.). Molto si è discusso dei criteri sulla base dei quali il giudice della separazione deve stabilire l’assegno di mantenimento nei riguardi del coniuge economicamente più debole con particolare riguardo alle seguenti circostanze:

    1. all’assegnazione dell’abitazione familiare e alle conseguenti maggiori spese per un alloggio alternativo a carico del coniuge obbligato (cfr. Cass. Sez. 1 -Ordinanza n. 25604 del 12/10/2018 La casa familiare deve essere assegnata tenendo prioritariamente conto dell’interesse dei figli minorenni e dei figli maggiorenni non autosufficienti a permanere nell’ambiente domestico in cui sono cresciuti, per garantire il mantenimento delle loro consuetudini di vita e delle relazioni sociali che in tale ambiente si sono radicate, sicché è estranea a tale decisione ogni valutazione relativa alla ponderazione tra interessi di natura solo economica dei coniugi o dei figli, ove in tali valutazioni non entrino in gioco le esigenze della prole di rimanere nel quotidiano ambiente domestico, e ciò sia ai sensi del previgente articolo 155 quater c.c., che dell’attuale art. 337 sexies c.c.
    2. all’assistenza continuativa che il coniuge ritenuto economicamente più debole riceva dal convivente «more uxorio». A riguardo la giurisprudenza di legittimità si è ormai definitivamente pronunciata nel senso che: In tema di separazione personale, la formazione di un nuovo aggregato familiare di fatto ad opera del coniuge beneficiario dell’assegno di mantenimento, operando una rottura tra il preesistente tenore e modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale ed il nuovo assetto fattuale, fa venire definitivamente meno il diritto alla contribuzione periodica. 1 – Sentenza n. 32871del 19/12/2018

     

    1. alle elargizioni che i coniugi stabilmente ricevano dalla propria famiglia d’origine (cfr.  1, Sentenza n. 10380 del 21/06/2012 In tema di determinazione dell’assegno di mantenimento, sono irrilevanti le elargizioni a titolo di liberalità ricevute dal coniuge obbligato dai propri genitori o, comunque, da terzi, ancorché regolari e continuate dopo la separazione, in quanto il carattere di liberalità impedisce di considerarle reddito ai sensi dell’art. 156, secondo comma, cod. civ., così come non costituiscono reddito, ai sensi del primo comma dello stesso articolo, analoghi contributi ricevuti dal coniuge titolare del diritto al mantenimento.

    E’ noto che la sentenza della Suprema Corte a S.U. n. 11504/2017 ha dato inizio a un percorso giurisprudenziale che ha del tutto destituito il principio per cui il diritto all’assegno divorzile si misurava sull’impossibilità del coniuge richiedente di mantenere analogo tenore di vita a quello goduto durante il matrimonio, privilegiando il principio dell’autosufficienza attraverso il quale la solidarietà post coniugale cede il passo alla solidarietà sociale. E’ in atto perciò la tendenza, anche per quanto attiene alla fase della separazione, a evitare forme di parassitismo, e quindi a limitare gli importi dell’assegno tutte le volte in cui sia configurabile una sostanziale autosufficienza del coniuge ritenuto economicamente più debole sulla base del divario fra i redditi.  Deve però essere evidenziato come siano riscontrabili profonde differenzevdell’assegno nella separazione   rispetto a quello nel divorzio Innanzitutto la loro fonte normativa è diversa: l’articolo 156 del codice civile per l’assegno a favore del coniuge separato, l’articolo 5 comma 6 della legge n. 898 del 1970 per l’assegno di divorzio. In secondo luogo è diverso il presupposto sui cui si basa il dovere di assistenza materiale fra i coniugi nell’ambito della separazione personale, da un lato, e gli obblighi correlati alla cosiddetta “solidarietà post-coniugale” nel giudizio di divorzio, dall’altro. Nella separazione personale il rapporto coniugale non viene meno ed anzi permangono i doveri di natura personale, quali la fedeltà e la collaborazione; gli aspetti patrimoniali, invece, rimangono invariati pur assumendone forme confacenti alla nuova statuizione. Nel caso della sentenza che pronuncia lo scioglimento del matrimonio o la cessazione dei suoi effetti civili, invece, il rapporto matrimoniale si estingue completamente, sia sul piano personale, sia sul piano economico-patrimoniale.

    La Suprema Corte, prendendo atto di queste profonde differenze, ha pertanto affermano che “l’obbligo di assistenza materiale trova di regola attuazione nel riconoscimento di un assegno di mantenimento in favore del coniuge che versa in una posizione economica deteriore e non è in grado, con i propri redditi, di mantenere un tenore di vita analogo a quello offerto dalle potenzialità economiche dei coniugi”. In altre parole, con il termine “redditi adeguati”, l’articolo 156 del codice civile ha inteso riferirsi al tenore di vita consentito dalle possibilità economiche dei coniugi (così Cass. 24 aprile 2007 n. 9915). In sostanza il giudice di merito, per verificare il diritto all’assegno di mantenimento, dovrà appurare se i mezzi economici di cui dispone il coniuge richiedente l’assegno, gli consentano o meno di conservare tale tenore di vita; all’esito di tale verifica, per la determinazione dell’assegno, occorrerà procedere ad una valutazione comparativa dei mezzi di cui dispone ciascun coniuge, valutati anche sulla base di particolari circostanze, come ad esempio la durata della convivenza. La Corte ha infatti precisato che la norma di cui all’art. 156 c.c. non è intesa a promuovere una colpevole inerzia del beneficiario, in quanto si ritiene che, in relazione all’assegno di mantenimento, si debba tener in considerazione l’attitudine del coniuge al lavoro, intesa come effettiva possibilità di svolgimento di un’attività lavorativa retributiva, in considerazione di ogni concreto fattore individuale ed ambientale (cfr. Cass., 13 febbraio 2013, n. 3502; Cass., 25 agosto 2006, n. 18547; Cass., 2 luglio 2004, n. 12121).

    Dopo il passaggio in giudicato della sentenza di separazione o il rilascio del decreto di omologazione, sia i provvedimenti relativi ai coniugi tra loro sia quelli relativi ai figli sono sempre suscettibili di modifica da parte del competente tribunale a domanda di ciascuno di essi o di entrambi. Tra tali provvedimenti si annovera anche quello relativo al termine di rilascio della casa coniugale, qualora sia stato disposto. L’art. 156 cod. civ. richiede, a tal fine, la sopravvenienza di «giustificati motivi». In relazione ai coniugi, essi vanno individuati in una sensibile riduzione delle risorse economiche del coniuge obbligato ovvero in un sensibile incremento delle stesse da parte del coniuge beneficiario; in relazione ai figli, riguardano le condizioni preventivamente statuite circa il loro affidamento e il diritto di visita ai medesimi. Ne consegue che, sia in caso di separazione giudiziale che consensuale, sarebbero comunque nulli gli eventuali accordi preventivi tra i coniugi finalizzati alla rinuncia o alla limitazione di successive modifiche dell’assegno; come pure sarebbe nullo qualsiasi tipo di accordo finalizzato ad escludere i rapporti tra genitore e prole, ovvero ad escludere le sue facoltà di vigilanza e controllo sugli stessi previste dalla legge a favore del genitore non affidatario in caso di separazione.

     Il divorzio dei coniugi

    Fino all’emanazione della “Legge sul Divorzio” (legge n. 898/1970, detta anche “Legge Fortuna-Baslini”), non erano previste cause di scioglimento del matrimonio diverse dalla morte di uno dei coniugi: il matrimonio era quindi considerato legalmente indissolubile. La Legge sul Divorzio prevede i casi in cui è consentito il divorzio; il caso di gran lunga prevalente è dato dalla separazione legale dei coniugi che dura senza interruzioni da almeno 12 mesi se la separazione è giudiziale o da almeno 6 mesi se la separazione è consensuale (tali termini sono stati previsti dalla c.d. Legge sul Divorzio breve, in vigore dal 26 maggio 2015, e sostituiscono il precedente termine di 3 anni). Il procedimento di divorzio può essere contenzioso o a domanda congiunta e, una volta pronunciato, ha effetti sul piano civile, patrimoniale, successorio e sull’affidamento degli eventuali figli. Anziché rivolgersi al Tribunale gli ex-coniugi possono ora divorziare mediante un accordo raggiunto al termine della procedura di negoziazione assistita da un avvocato, prevista dal DL 132/2014 (così come convertito con l. 162/2014), oppure – a certe condizioni – mediante un accordo raggiunto davanti al Sindaco quale Ufficiale di Stato Civile.

    Nel caso di matrimonio civile (ossia di matrimonio contratto in Comune davanti all’Ufficiale dello Stato Civile), il divorzio è lo scioglimento definitivo del vincolo matrimoniale, pronunciato con sentenza da parte del Tribunale competente; lo scioglimento del vincolo può essere ora l’effetto anche di un accordo raggiunto al termine di un’apposita procedura di negoziazione assistita da un avvocato, introdotta dal DL 132/2014 così come convertito, oppure di un accordo innanzi al Sindaco quale Ufficiale di Stato Civile (ma solo se ricorrono determinate condizioni).

    In caso di matrimonio concordatario (ossia quando il matrimonio è stato celebrato in Chiesa e poi regolarmente trascritto nei registri dello Stato Civile del Comune), si parla più propriamente di “cessazione degli effetti civili” del matrimonio stesso: permangono infatti gli effetti sul piano del sacramento religioso (a meno che non si ottenga una pronuncia di annullamento o di nullità da parte del Tribunale Ecclesiastico Regionale o della Sacra Rota). Prima di pronunciare la sentenza di divorzio, il Tribunale deve sempre tentare la riconciliazione e accertare che la comunione spirituale e materiale tra i coniugi non possa più essere mantenuta o ricostituita (art. 1 della Legge sul Divorzio): in altre parole, prima di pronunciare il divorzio il Giudice deve sincerarsi che la frattura nei rapporti fra marito e moglie non possa essere in alcun modo ricomposta. Oltre a ciò, il Giudice deve controllare la sussistenza di almeno uno dei presupposti tassativamente previsti dalla legge. In estrema sintesi, i casi di divorzio sono i seguenti:

    • i coniugi sono separati legalmente e, al tempo della presentazione della domanda di divorzio, lo stato di separazione dura ininterrottamente da almeno 12 mesi se la separazione è giudiziale o da almeno 6 mesi se la separazione è consensuale (tale termine decorre in ogni caso dal giorno della comparizione delle parti davanti al Presidente del Tribunale nel procedimento di separazione);
    • uno dei coniugi ha commesso un reato di particolare gravità (ad esempio è stato condannato con sentenza definitiva all’ergastolo o a una pena superiore a 15 anni di reclusione) oppure – a prescindere dalla durata della pena – è stato condannato per incesto, delitti contro la libertà sessuale, prostituzione, omicidio volontario o tentato di un figlio, tentato omicidio del coniuge, lesioni aggravate, maltrattamenti, ecc.;
    • uno dei coniugi è cittadino straniero e ha ottenuto all’estero l’annullamento o lo scioglimento del vincolo matrimoniale o ha contratto all’estero un nuovo matrimonio;
    • il matrimonio non è stato consumato;
    • è stato dichiarato giudizialmente il cambio di sesso di uno dei coniugi.

    Il D.L. 132/2014 dà la possibilità agli ex-coniugi di divorziare tramite una procedura facoltativa a quella giudiziale: la convenzione di negoziazione assistita da avvocati. In pratica, in questi casi gli ex-coniugi possono cercare di trovare un accordo bonario, grazie all’assistenza di avvocati (ciascuna delle due parti deve essere assistita da un legale e i due avvocati non devono appartenere allo stesso Studio Legale per evitare conflitti d’interesse). La negoziazione assistita inizia con l’invio di un invito a concludere la convenzione per il divorzio; la mancata risposta all’invito o il rifiuto sono elementi che potranno – in caso di successivo giudizio – essere tenuti in considerazione dal Giudice. L’accordo fra gli ex-coniugi deve essere raggiunto entro un termine prestabilito, comunque non inferiore a un mese dall’inizio della procedura di negoziazione assistita. L’accordo è sottoscritto dagli avvocati che assistono le parti. Nel sottoscrivere l’accordo, gli avvocati ne garantiscono la conformità «alle norme imperative ed all’ordine pubblico» e autenticano le sottoscrizioni apposte dagli ex-coniugi. Gli avvocati che assistono gli ex-coniugi divorziati hanno l’obbligo di trasmettere la copia autenticata dell’accordo all’Ufficiale dello Stato Civile del Comune in cui il matrimonio fu iscritto o trascritto. Se non ci sono figli minorenni, incapaci o portatori di handicap gravi, occorrerà poi ottenere il nullaosta del Pubblico Ministero (ma non è previsto un termine entro il quale il nullaosta deve essere richiesto). Se invece ci sono figli minorenni, incapaci o portatori di handicap gravi, l’accordo deve essere trasmesso entro e non oltre 10 giorni al Pubblico Ministero, il quale potrà rilasciare la necessaria autorizzazione oppure, entro 5 giorni, ritrasmettere lo stesso accordo al Presidente del Tribunale, affinché si ordini la comparizione degli ex-coniugi. (Il procedimento relativo al rilascio da parte del Procuratore della Repubblica del nulla osta o dell’autorizzazione è esente dal contributo unificato di iscrizione a ruolo dovuto per ciascun grado di giudizio su richiesta di attività giurisdizionali delle parti interessate. Allo stesso modo è esente il procedimento davanti al Presidente del Tribunale). In alternativa, qualora non vi siano patti di trasferimento patrimoniale (ossia trasferimenti di beni immobili, mobili o somme di denaro non crea problemi, invece, la previsione, nell’accordo concluso davanti all’ufficiale dello stato civile, di un obbligo di pagamento di una somma di denaro a titolo di assegno periodico) e/o non vi siano figli in comune che siano minori o incapaci o portatori di handicap gravi o anche solo non autosufficienti dal punto di vista economico, il D.L. 132/2014 prevede addirittura la possibilità di divorziare innanzi al Sindaco quale Ufficiale di Stato Civile, senza necessità di assistenza legale da parte di un avvocato (che rimane facoltativa). In tutti gli altri casi, ci si dovrà necessariamente rivolgere al Giudice, con il cd. “divorzio giudiziale” o “a domanda congiunta”. Infatti, lo scioglimento del vincolo matrimoniale può essere richiesto da uno dei coniugi, anche se l’altro coniuge non è d’accordo.

    Il procedimento cd. in contenzioso (per la mancanza di accordo dei coniugi) si svolge innanzi al Presidente del Tribunale del luogo in cui il secondo coniuge ha la propria residenza o il proprio domicilio; nel caso in cui il secondo coniuge sia residente all’estero o risulti irreperibile, la domanda di divorzio si presenta al Tribunale del luogo di residenza o di domicilio del coniuge richiedente. Nel ricorso si deve aver cura di indicare l’esistenza di figli di entrambi i coniugi.

    Se il coniuge richiedente è residente all’estero, è competente qualunque Tribunale.

    Ciascun coniuge deve essere assistito dal proprio difensore.

    Come previsto dalla Legge sul Divorzio, alla prima udienza il Presidente del Tribunale tenta la conciliazione e accerta che la comunione spirituale e materiale tra i coniugi non possa essere mantenuta o ricostituita. Il Presidente emana quindi un’ordinanza con i provvedimenti temporanei e urgenti necessari per regolamentare gli aspetti patrimoniali e che interessano i figli nella pendenza del procedimento. Il Presidente nomina un Giudice Istruttore e fissa la data della relativa udienza innanzi a quest’ultimo. Il procedimento prosegue poi come un processo ordinario, con la fissazione di altre udienze. Se il procedimento comporta una lunga fase istruttoria, vale a dire un lungo periodo di acquisizione delle prove (testimoni, perizie, ecc.), il Tribunale emana una sentenza provvisoria, che intanto consenta ai coniugi di riottenere lo stato libero.

    Lo scioglimento del vincolo matrimoniale può essere richiesto da entrambi i coniugi. Come nel divorzio in contenzioso, anche in questo caso i coniugi devono stare in giudizio assistiti da un difensore che, tuttavia, può essere unico per entrambi. Il procedimento si svolge innanzi al Tribunale in camera di consiglio, ossia con una procedura molto più snella del divorzio in contenzioso. In questo caso tutto si esaurisce in una sola udienza innanzi al Tribunale in camera di consiglio: l’udienza è fissata dal Presidente del Tribunale dopo aver letto il ricorso. All’udienza il Tribunale tenta la conciliazione e accerta che la comunione spirituale e materiale tra i coniugi non può più essere mantenuta o ricostituita. Quindi il Tribunale verifica la sussistenza dei presupposti richiesti dalla Legge sul Divorzio ed emette la sentenza di scioglimento del vincolo matrimoniale (o di cessazione degli effetti civili, in caso di matrimonio concordatario).

    L’iter del divorzio a domanda congiunta è quindi più veloce e più semplice dell’iter del divorzio giudiziale.

    Sia che venga emessa al termine di un procedimento in contenzioso, sia che venga emessa alla fine di un procedimento “a domanda congiunta”, la sentenza di divorzio viene trasmessa all’Ufficiale di Stato Civile per l’annotazione nel Registro dello Stato Civile del luogo in cui fu trascritto il matrimonio.

    La sentenza di divorzio produce i seguenti effetti:

    • in caso di matrimonio civile, si ha lo scioglimento del vincolo matrimoniale; in caso di matrimonio religioso, si verifica la cessazione degli effetti civili (permane, invece, il vincolo indissolubile sul piano del sacramento religioso);
    • la moglie perde il cognome del marito che aveva aggiunto al proprio dopo il matrimonio (ma può mantenerlo se ne fa espressa richiesta e il Giudice riconosce la sussistenza di un interesse della donna o dei figli meritevole di tutela);
    • fintantoché il coniuge economicamente meno abbiente non passi a nuove nozze, il Giudice può disporre che l’altro coniuge sia tenuto a corrispondere un assegno periodico (detto “assegno divorzile”): l’importo è quantificato in base alle condizioni e ai redditi di entrambi i coniugi, anche in rapporto alla durata del matrimonio (vedi scheda sulla modificazione delle condizioni di divorzio);
    • viene decisa la destinazione della casa coniugale e degli altri beni di proprietà;
    • i figli minorenni vengono affidati a uno dei coniugi, con obbligo per l’altro di versare un assegno di mantenimento della prole, o a entrambi congiuntamente (cd. “affidamento condiviso”), nel rispetto di quanto previsto anche dagli artt. da 337-bis a 337-octies cod. civ. (così come introdotti dal D.Lgs. 154/2013 in materia di filiazione);
    • ciascuno dei coniugi perde i diritti successori nei confronti dell’altro;
    • se la sentenza di divorzio aveva a suo tempo riconosciuto a un coniuge il diritto all’assegno di mantenimento, tale coniuge ha diritto anche alla pensione di reversibilità dell’ex coniuge defunto (o a una sua quota), a condizione che nel frattempo il coniuge superstite non si sia risposato.
    • In ogni caso, se uno dei coniugi matura il diritto al trattamento di fine rapporto (TFR) prima che sia pronunciata la sentenza di divorzio, l’altro coniuge ha diritto a una parte di tale importo.

    La giurisprudenza della Corte di legittimità, chiamata in molteplici e multiformi fattispecie ad intervenire sulla complessa materia inerente la determinazione del quantum dell’assegno divorzile, si è pronunciata a S. U. in data 11 luglio 2018, affermando  un sostanziale revirement alla tesi secondo cui l’assegno di divorzio non doveva  più garantire il medesimo tenore di vita goduto durante il matrimonio, ma essere parametrato alla capacità economica e reddituale del coniuge più debole. Secondo il Supremo Collegio, invece, per il riconoscimento dell’assegno, si deve adottare un criterio composito che, alla luce della valutazione comparativa delle rispettive condizioni economico-patrimoniali, dia particolare rilievo al contributo fornito dall’ex coniuge richiedente alla formazione del patrimonio comune e personale, in relazione alla durata del matrimonio, alle potenzialità reddituali future e all’età dell’avente diritto. Alla base di tale interpretazione si stagliano i principi costituzionali di pari dignità e di solidarietà che permeano l’unione matrimoniale anche dopo lo scioglimento del vincolo. il contributo assegnato alla conduzione della vita familiare rappresenta il frutto di decisioni comuni di entrambi i coniugi, libere e responsabili, che possono incidere molto sul profilo economico patrimoniale di ciascuno di essi dopo la fine dell’unione matrimoniale: «Lo scioglimento del vincolo – scrivono i giudici – incide sullo status ma non cancella tutti gli effetti e le conseguenze delle scelte e delle modalità di realizzazione della vita familiare». Pertanto, «l’adeguatezza dei mezzi deve essere valutata non solo in relazione alla loro mancanza o insufficienza oggettiva ma anche in relazione a quel che si è contribuito a realizzare».

    La massima che ne è scaturita è stata pertanto la seguente : Ai sensi dell’art. 5 c.6 della L. n. 898 del 1970, dopo le modifiche introdotte con la L. n. 74 del 1987, il riconoscimento dell’assegno di divorzio, cui deve attribuirsi una funzione assistenziale ed in pari misura compensativa e perequativa, richiede l’accertamento dell’inadeguatezza dei mezzi o comunque dell’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, attraverso l’applicazione dei criteri di cui alla prima parte della norma i quali costituiscono il parametro di cui si deve tenere conto per la relativa attribuzione e determinazione, ed in particolare, alla luce della valutazione comparativa delle condizioni economico-patrimoniali delle parti, in considerazione del contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare e alla formazione del patrimonio comune e personale di ciascuno degli ex coniugi, in relazione alla durata del matrimonio e all’età dell’avente diritto.

     

    AFFIDAMENTO DEI FIGLI IN CASO DI SEPARAZIONE E DIVORZIO

    L’affidamento dei figli è da sempre il nodo cruciale delle separazioni e dei divorzi. Di sicuro la fase della separazione, quella che segna il momento della disgregazione della famiglia, è la più difficile da gestire, sotto ogni profilo, indipendentemente se si sfocia in una procedura consensuale o contenziosa. E’ in questo momento processuale che fondamentalmente si decide delle sorti dei figli, del loro affidamento, del loro mantenimento, dei calendari del diritto/dovere di visita e frequentazione del genitore non collocatario della prole.

    Nella fase del divorzio, nella stragrande maggioranza dei casi, viene confermato il medesimo assetto della separazione, rispetto alle modalità di affidamento. Tuttavia non mancano colpi di scena nel divorzio e figli che decidono di cambiare la propria quotidianità e andare a vivere stabilmente con l’altro genitore, una volta pervenuti nella fase dell’adolescenza in cui la volontà dei figli diventa decisiva, specie in fase di ascolto. Con la Legge 54 del 2006 (legge Paniz),  è stato introdotto anche in Italia l’istituto dell’affidamento condiviso, dopo un sentiero tortuoso e non scevro da polemiche e divisioni a tutti i livelli. Nel nostro Paese era fin troppo stratificata la tesi secondo la quale, in caso di separazione o divorzio, la soluzione migliore per i figli fosse l’affidamento esclusivo, quasi sempre appannaggio della figura materna. Anche il mondo della psicologia, in sede peritale di ufficio, fino a qualche decennio fa, nella maggioranza dei casi si era schierata a favore di tale impostazione.

    La madre dal 1970 al 2006 è stata considerata, in via tendenziale, il genitore più adatto allo sviluppo psicofisico dei figli e l’unica figura genitoriale che avrebbe potuto determinare nel quotidiano i più rassicuranti indirizzi educativi in favore dei figli, una volta che il matrimonio fosse giunto all’epilogo. La figura paterna, spesso era confinata in una situazione subordinata a quella materna, con scarse possibilità di incidere sulle decisioni importanti della vita dei figli e con tempi risicatissimi per mantenere rapporti significativi con i propri figli. Il principio della bigenitorialità anche nella fase patologica   dei rapporti familiari, istituito dalla convenzione di New York del 1989, è entrato a far parte della nostra legislazione attraverso l’istituto dell’affidamento congiunto previsto all’art. 155 c.c con la Legge 8 Febbraio 2006 n. 54.La norma si riferiva espressamente alla valutazione prioritaria circa la possibilità di un affidamento condiviso, che il giudice doveva effettuare al momento dell’emissione dei provvedimenti di cui al secondo comma dell’articolo 155 c.c. al fine di assicurare l’apporto di entrambi genitori ai figli nel caso di separazione e di divorzio secondo il criterio della pari idoneità genitoriale. 

    La difficoltà di applicazione del principio e la sempre maggiore centralità delle questioni della famiglia hanno indotto il legislatore a riorganizzare la materia nel 2012 – 2013 introducendo con decreto legislativo 28.12.2013 n.154 i nuovi articoli da 337 bis c.c. a 337 octies c.c. che riscrivono la responsabilità genitoriale verso i figli in caso di separazione, scioglimento, cessazione degli effetti civili, annullamento, nullità del matrimonio e nei procedimenti relativi.

    In questi nuovi articoli (337 bis a 337 octies) sono stati trasportati i vecchi articoli da 155 a 155 sexies (come modificati dalla legge 54 del 2006) del codice civile ed alcuni commi dell’art 6 della legge n. 898/1970 che dettavano alcune disposizioni relative ai figli all’interno della legge sullo scioglimento del matrimonio.

    Le questioni maggiormente problematiche che, per via giurisprudenziale si ponevano e (si pongono) tuttora riguardano:

    – l’obbligo di mantenimento del coniuge debole e la questione connessa alla problematica della perdita del diritto al mantenimento per l’addebito della separazione

    – l’obbligo di mantenimento dei figli (maggiorenni o meno)

    – la violazione dell’obbligo di mantenimento dei figli e del coniuge

    – il diritto di abitazione della casa familiare

    – l’addebito della separazione

    Già si è detto della Responsabilità genitoriale e del suo cambio di denominazione rispetto alla Potestà genitoriale. Per quello che qui interessa, va rimarcato che l’art. 337 bis c.c. identifica i casi nei quali le norme da 337 ter a 337 octies sono applicabili. La norma definisce l’ambito di applicabilità di tali articoli e cita espressamente la separazione dei coniugi, lo scioglimento del matrimonio, la cessazione degli effetti civili del matrimonio, l’annullamento del matrimonio, la nullità del matrimonio e, infine, i   procedimenti relativi ai figli nati fuori dal matrimonio. Si può dedurre che si è in presenza di norme generali che regolano i rapporti genitori – figli (ma anche ascendenti – nipoti) quando finisce il matrimonio o quando finisce l’unione di fatto, in presenza di figli nati fuori dal matrimonio (quest’ultima espressione si riferisce sia alle coppie di fatto, ma anche a qualsiasi altra ipotesi, come, ad esempio, i figli nati da relazioni extra coniugali).

    Diritti dei figli

    L’art. 337 ter c.c.individua i diritti dei figli verso i genitori dopo la separazione o il divorzio, (o la fine della convivenza dei genitori non sposati) in particolare è previsto, come principio generale, che i figli devono continuare ad avere un rapporto equilibrato con entrambi i genitori, (e con gli ascendenti di entrambi i genitori) anche dopo la fine del matrimonio. Dunque, come regola generale la fine del matrimonio (o della convivenza) non pone fine al rapporto genitori – figli. Lo stesso articolo aggiunge che i figli, anche dopo la fine del matrimonio, hanno diritto ad avere l’istruzione, l’educazione necessaria, oltre all’assistenza materiale e spirituale.  Per rendere effettivi questi diritti dei figli (e, di conseguenza, continuare a far eseguire ai genitori i propri doveri verso i figli) l’art. 337 ter comma II prevede che il giudice (durante uno dei procedimenti indicati nel precedente art. 337 bis c.c.)  adotta tutti i provvedimenti necessari a tal fine, considerando, esclusivamente, l’interesse dei figli. Valuta prioritariamente la possibilità che i figli minori restino affidati a entrambi i genitori oppure stabilisce a quale di essi i figli sono affidati, determina i tempi e le modalità della loro presenza presso ciascun genitore, fissando altresì la misura e il modo con cui ciascuno di essi deve contribuire al mantenimento, alla cura, all’istruzione e all’educazione dei figli. Prende atto, se non contrari all’interesse dei figli, degli accordi intervenuti tra i genitori.  Adotta ogni altro provvedimento relativo alla prole, ivi compreso, in caso di temporanea impossibilità di affidare il minore ad uno dei genitori, l’affidamento familiare.  All’attuazione dei provvedimenti relativi all’affidamento della prole provvede il giudice del merito e, nel caso di affidamento familiare, anche d’ufficio. A tal fine copia del provvedimento di affidamento è trasmessa, a cura del pubblico ministero, al giudice tutelare che vigila sull’esecuzione dei provvedimenti nell’interesse dei minori.

    La responsabilità genitoriale è esercitata da entrambi i genitori. Le decisioni di maggiore interesse per i figli relative all’istruzione, all’educazione, alla salute e alla scelta della residenza abituale del minore sono assunte di comune accordo tenendo conto delle capacità, dell’inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli. In caso di disaccordo la decisione è rimessa al giudice.

    Limitatamente   alle  decisioni su questioni di ordinaria amministrazione, il giudice può stabilire che i genitori esercitino la responsabilità genitoriale separatamente. Qualora il genitore non si attenga alle condizioni dettate, il giudice valuterà detto comportamento anche al fine della modifica delle modalità di affidamento. Salvo accordi diversi liberamente sottoscritti  dalle   parti, ciascuno dei genitori provvede al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito; il giudice stabilisce, ove necessario, la corresponsione di un assegno periodico al fine di realizzare il principio di proporzionalità, da determinare considerando:

    1) le attuali esigenze del figlio.

    2) il tenore di vita goduto dal figlio in costanza di convivenza con entrambi i genitori.

    3) i tempi di permanenza presso ciascun genitore.

    4) le risorse economiche di entrambi i genitori.

    5) la valenza economica dei compiti domestici e di cura assunti da ciascun genitore.

    L’assegno è automaticamente adeguato agli indici ISTAT in difetto di altro parametro indicato dalle parti o dal giudice.

    Ove le informazioni di carattere economico fornite dai genitori non risultino sufficientemente documentate, il giudice dispone un accertamento della polizia tributaria sui redditi e sui beni oggetto della contestazione, anche se intestati a soggetti diversi.

    Art. 337-quater. Affidamento a un solo genitore e opposizione all’affidamento condiviso

    Il giudice può disporre l’affidamento dei figli ad uno solo dei genitori qualora ritenga con provvedimento motivato che l’affidamento all’altro sia contrario all’interesse del minore. Ciascuno dei genitori può, in qualsiasi momento, chiedere l’affidamento esclusivo quando sussistono le condizioni indicate al primo comma. Il giudice, se   accoglie la domanda, dispone l’affidamento esclusivo al genitore istante, facendo salvi, per quanto possibile, i diritti del minore previsti dal primo comma dell’articolo 337-ter. Se la domanda risulta manifestamente infondata, il giudice può considerare il comportamento del genitore istante ai fini della determinazione dei provvedimenti adottare nell’interesse dei figli, rimanendo ferma l’applicazione dell’articolo 96 del codice di procedura civile.

    Il genitore cui sono affidati i figli in via esclusiva, salva diversa disposizione del giudice, ha l’esercizio esclusivo della responsabilità genitoriale su di essi; egli deve attenersi alle condizioni determinate dal giudice. Salvo che non sia diversamente stabilito, le decisioni di maggiore interesse per i figli sono adottate da entrambi i genitori. Il genitore cui i figli non sono affidati ha il diritto ed il dovere di vigilare sulla loro istruzione ed educazione e può ricorrere al giudice quando ritenga che siano state assunte decisioni pregiudizievoli al loro interesse.

    L’ Art. 337-quinquies autorizza i genitori a chiedere in ogni tempo la revisione delle   disposizioni    concernenti    l’affidamento   dei   figli, l’attribuzione dell’esercizio della responsabilità genitoriale su di essi e delle eventuali disposizioni relative alla misura e alla modalità del contributo.

    L’art. 337-sexies dispone che il godimento della casa familiare è tenendo prioritariamente conto dell’interesse dei figli. Dell’assegnazione il giudice tiene conto nella regolazione dei rapporti economici tra i genitori, considerato l’eventuale titolo di proprietà. Il diritto al godimento della casa familiare viene meno nel caso che l’assegnatario non abiti o cessi di abitare stabilmente nella casa familiare o conviva more uxorio o contragga nuovo matrimonio. Il provvedimento di assegnazione e quello di revoca sono trascrivibili e opponibili a terzi ai sensi dell’articolo 2643. In presenza di figli minori, ciascuno dei genitori è obbligato a comunicare all’altro, entro il termine perentorio di trenta giorni, l’avvenuto cambiamento di residenza o di domicilio. La mancata comunicazione obbliga al risarcimento del danno eventualmente verificatosi a carico del coniuge o dei figli per la difficoltà di reperire il soggetto.

    All’art.337-septies. Vengono disciplinate le disposizioni per i figli maggiorenni in relazione ai quali, il giudice, valutate le circostanze, può disporre in favore dei figli maggiorenni non indipendenti economicamente il pagamento di  un assegno periodico. Tale assegno, salvo diversa determinazione del giudice, è versato direttamente all’avente diritto. Ai figli maggiorenni portatori di handicap grave si applicano integralmente le disposizioni previste in favore dei figli minori.

    Di centrale importanza ai fini dell’adizione da parte del giudice è:

    l’Art. 337-octies.  Poteri del giudice e ascolto del minore Prima dell’emanazione, anche in via provvisoria, dei provvedimenti di cui all’articolo 337-ter, il giudice può assumere, ad istanza di parte o d’ufficio, mezzi di prova. Il giudice dispone, inoltre, l’ascolto del figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici e anche di età inferiore ove capace di discernimento. Nei procedimenti in cui si omologa o si prende atto di un accordo dei genitori, relativo alle condizioni di affidamento dei figli, il giudice non procede all’ascolto se in contrasto con l’interesse del minore o manifestamente superfluo. Qualora ne ravvisi l’opportunità, il giudice, sentite le parti e ottenuto il loro consenso, può rinviare l’adozione dei provvedimenti di cui all’articolo 337-ter per consentire che i coniugi, avvalendosi di esperti, tentino una mediazione per raggiungere un accordo, con particolare riferimento alla tutela dell’interesse morale e materiale dei figli.”.

    La separazione nelle coppie di fatto:

    I dati ISTAT degli ultimi anni confermano l’aumento del  numero delle coppie di fatto, ovvero  delle persone che decidono di convivere senza unirsi in matrimonio, La regolamentazione della separazione in questi casi  può avvenire senza alcuna formalità Se la coppia convivente ha avuto dei figli è necessario invece pervenire ad una regolamentazione  del rapporto genitoriale  ove i  figli siano ancora minori secondo quanto disposto dalla legge 219/2012  che , come si è visto, ha  eliminato o ogni differenza tra figli naturali (nati fuori dal matrimonio) e figli legittimi (nati da coppie coniugate).

    La mediazione familiare.

    Inizialmente si credeva che la mediazione familiare fosse accessibile solo alle coppie sposate. Oggi con l’equiparazione dei figli nati dal matrimonio o da una coppia di fatto e con l’attrazione della competenza del tribunale la mediazione familiare è stata estesa ad ogni rapporto familiare: rapporti coniugali, rapporti di mera convivenza ma anche rapporti tra parenti (esempio: rapporti successori) estendendo così il concetto di “famiglia”.

    La mediazione familiare ha, come detto, lo scopo principale di conciliare le parti: la conciliazione può essere intesa sia come rappacificamento della coppia (con superamento della crisi) sia come supporto alla coppia utile a far deporre “l’ascia di guerra” e incentivare la c.d. “separazione dignitosa” (ovvero scevra dai sentimenti di rabbia, frustrazione e vendetta che possono sorgere al termine di una relazione).La mediazione familiare viene generalmente gestita da un terapeuta (con competenze nella gestione dei conflitti) e dai legali specializzati nel diritto di famiglia e nelle tematiche di gestione della crisi familiare.

    Il mediatore (sia esso terapeuta o legale) riceve la coppia conducendo colloqui separati e congiunti in modo da incentivare il dialogo tra le parti: invero una delle ragioni principali della crisi dei rapporti (siano essi coniugali o di mera convivenza) va ravvisata nell’assenza di dialogo.

    I figli (la loro tutela e il loro benessere) hanno un ruolo centrale nella mediazione familiare: spesso si ritiene utile coinvolgere gli stessi nella fase di mediazione in modo da comprendere il loro punto di vista, le loro esigenze e il loro stato d’animo rispetto ad una situazione di crisi familiare. Tale modus operandi viene spesso attuato dai terapisti il cui compito non è solo quello di aiutare la coppia a risolvere la crisi (o a separarsi dignitosamente) ma anche (e soprattutto) quello di evitare che i figli (spesso vittime inconsapevoli della crisi) subiscano traumi maggiori a quelli (comprensibilmente) inevitabili.

    La mediazione può, come detto, avere due risultati:

    • la risoluzione della crisi: la coppia, grazie alle sessioni con i mediatori, comprende la natura e la ragione del problema e, seguendo le indicazioni del mediatore, attua un percorso volto a ripristinare la situazione ante crisi;
    • la presa d’atto della fine della relazione: in tal caso l’unico compito del mediatore è, come detto, quello di invitare le parti a trovare un accordo ponendo fine alla relazione sentimentale nel modo più salutare possibile. Si esaminano, quindi, le possibili soluzioni e si consiglia la strada migliore (quella meno indolore per i figli ma anche per la coppia stessa) per conclamare la fine del rapporto. In tal caso, pertanto, si addiviene:
    • ad una separazione consensuale: in caso di coppia sposata, ove la crisi sia insanabile, la mediazione ha lo scopo di indurre i coniugi ad addivenire ad una separazione consensuale aiutando gli stessi a trovare soluzioni di reciproco accordo in relazione alla gestione dei figli, mantenimento degli stessi, regolamentazioni economiche e tutto quanto consegue alla fine del rapporto matrimoniale;
    • alla redazione di una scrittura privata di impegno: in caso di coppia non sposata, ove la crisi sia insanabile, la mediazione ha lo scopo di indurre le pari a trovare soluzioni congiunte e condivise concernenti la gestione della prole, il mantenimento della stessa e la regolamentazione dei diritti di visita genitore-figlio. Tali condizioni congiunte e condivise vengono trascritte in una scrittura privata che ha effetti obbligatori tra le parti. A tutela dei figli, tuttavia, il legale (o anche la parte personalmente) può provvedere al deposito di tale accordo in Tribunale in modo da dotare di efficacia esecutiva l’accordo così raggiunto. Il Tribunale ovviamente non si limiterà ad apporre il visto ma si incardinerà una procedura di disamina dell’accordo raggiunto (al fine di valutare l’assenza di condizioni contra legemo, comunque contrarie all’interesse dei minori o lesive dei diritti di uno delle due parti) e, in caso di correttezza dello stesso, provvederà (previo visto del Pubblico Ministero) a dotare di “ufficialità” l’accordo raggiunto in sede di mediazione. Tale procedimento è necessario (a tutela della prole) in quanto, come noto, la scrittura privata ha solo valenza tra le parti con la conseguenza che, in caso di inadempienza, la parte diligente non potrà immediatamente agire esecutivamente per ottenere l’adempimento della prestazione, cosa invece assolutamente possibile nel caso di ratifica dell’accordo da parte del Tribunale.
    • al fallimento totale della mediazione familiare: si ha nel caso in cui la crisi tra le parti (coniugate o conviventi) sia insanabile e il mediatore non riesca nell’intento di trovare un accordo tra le parti. In tal caso le parti dovranno necessariamente passare alla fase giudiziale.

    L’esperimento della procedura di mediazione familiare non è obbligatorio: invero nel caso in cui il legale si renda conto che il caso sottoposto alla sua attenzione è relativo ad una crisi insanabile, causata da motivi gravi (pensiamo a casi di violenza o a casi in cui una delle due parti sia dedita all’abuso di alcolici o sostanze stupefacenti o conduca uno stile di vita alquanto inappropriato) procede direttamente in sede giudiziale. Va precisato che nel caso in cui non si esperisca la mediazione familiare, radicando immediatamente un procedimento giudiziale, è sempre possibile trovare una conciliazione: invero il Giudice relatore, analogamente al Presidente nell’ambito delle separazioni giudiziali, alla prima udienza di comparizione dei coniugi tenta di farli addivenire ad un accordo che è sempre raggiungile sino al momento dell’udienza di precisazione delle conclusioni.

    Il ricorso al Tribunale.

    Sulla base della Legge 219/2012 è stato introdotto il cd. «rito partecipativo» per la regolamentazione in giudizio dei diritti dei figli nati fuori dal matrimonio e delle coppie di fatto, conviventi, non sposate.

    Detto procedimento prevede che, una volta depositato il ricorso ex art. 316-317 bis cod. civ., il Presidente del Tribunale non fissi (come accade invece per i procedimenti di separazione e divorzio) udienza, bensì conceda due termini, uno per la parte ricorrente per la notifica del ricorso, ed un altro alla parte resistente per il deposito di una memoria difensiva di costituzione, concedendo sempre ad entrambe le parti il termine per il deposito delle ultime tre dichiarazioni dei redditi. Lette le difese, il Collegio può:

    • fissare direttamente udienza dinanzi a sé, non ritenendo sussistenti i presupposti per formulare un suggerimento conciliativo;
    • rimettere le parti dinanzi al giudice delegato con il compito di suggerire ai genitori una possibile soluzione conciliativa, riservandosi di intervenire successivamente, se fallito il tentativo di conciliazione;
    • pronunciare provvedimenti provvisori, in presenza di conclusioni parzialmente conformi dei genitori (es. entrambi chiedono l’affido condiviso).

    Il procedimento prevede, quindi, una fase conciliativa innanzi ad un giudice delegato (di solito un giudice onorario), e solo in caso di fallimento di quest’ultima, una fase contenziosa innanzi al Collegio. La fase conciliativa o pre – contenziosa potrebbe, pertanto, concludersi con un accordo dei genitori, che verrà poi recepito dal Collegio, una sorta di omologa, sempre in analogia con quanto avviene nei procedimenti di separazione e divorzio. Tale accordo ben potrebbe corrispondere alla proposta del giudice designato oppure in una soluzione totalmente o parzialmente diversa, elaborata dai genitori grazie all’assistenza dei difensori nominati, che certamente possono utilizzare il suggerimento del magistrato al fine di convincere le rispettive parti a confrontarsi sui problemi emersi ed a dialogare come padre e madre. Se la fase conciliativa non porta a nessuna composizione bonaria, gli atti vengono rimessi al Collegio che provvede alla definizione giudiziale del procedimento, se del caso, previa nuova convocazione dei genitori.

    Infine, qualora i genitori concordino integralmente sulle condizioni di affidamento e mantenimento, possono presentare al Tribunale ordinario un ricorso congiunto ai sensi dell’art. 316 cod. civ. In tal caso i genitori non dovranno neppure comparire davanti al Giudice e l’esame del Tribunale si limiterà alla verifica dell’adeguatezza degli accordi raggiunti dai genitori nell’interesse della prole minore, alla luce del disposto normativo di cui all’articolo 337-ter, comma secondo, codice civile, accordo che verrà poi recepito dal Collegio.

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