Home Forum Nuovi Giuristi La responsabilità genitoriale Argomento 1 – La Responsabilità genitoriale

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    Nei rapporti di famiglia si attribuisce preminente rilevanza all’interesse superiore dei figli minori, concetto introdotto per la prima volta a livello internazionale dalla Convenzione di New York sui diritti del fanciullo del 1989, a cui è seguita la Convenzione di Strasburgo del 1996 ratificata con la L. n 77/2003 ed introdotta nel ordinamento italiano solo tre anni più tardi con la legge sull’affido condiviso l n 54/2006 completamente modificata dal d.lg 28 dicembre 2013 n 154.

    Nell’ambito di tutti i procedimenti in cui sono coinvolti i minori dunque il superiore interesse della prole deve essere sempre tenuto ben presente da tutti  i soggetti del processo; è infatti importante sottolineare come nel nostro ordinamento si è passati  dal termine antico di potestà genitoriale di derivazione  romanistica a quello più moderno di responsabilità genitoriale, termine che indica bene quali sono i doveri  della coppia genitoriale nei confronti dei figli in luogo della potestà in origine del pater familias, ed  estesa, in un secondo momento, ad entrambe le figure genitoriali  dal legislatore del 1975, anche se, per la verità la potestà genitoriale, per opera della giurisprudenza, ben prima della riforma epocale del 1975, era già stata ridisegnata quale esercizio di una funzione, di un munus diretto a realizzare gli interessi della prole e non quelli di chi ne fosse investito.

    La sostituzione del concetto di potestà con quello di responsabilità genitoriale realizzata con il dlgs 28 dicembre 2013 n 154 va inserita nell’evoluzione del concetto di supremo interesse del minore visto che, con il termine responsabilità si vuole evidenziare più che il potere che il genitore deve esplicare sul figlio il dovere di accudirlo e di educarlo. La responsabilità genitoriale nell’ultima normativa viene valorizzata in tutta le fasi del rapporto genitore figli, sia nella fase fisiologica sia in quella patologica a prescindere dall’esistenza o meno di un vincolo matrimoniale, rimarcando in questo modo l’importanza del ruolo del minore piuttosto che quello del genitore.

    Il legislatore non da una definizione del termine “responsabilità genitoriale” così come non lo aveva dato il legislatore del 1942 quando aveva definito “la patria potestà”. La nozione deve essere riempita di contenuti con l’evoluzione socio culturale dei rapporti genitori figli. Si è soliti ritenere che il concetto di responsabilità ricomprenda la vecchia potestàe si ponga come qualcosa di più ampio rispetto alla stessa, nel senso che al potere che il genitore esercita necessariamente sul figlio deve accompagnarsi anche l’adempimento dei doveri di accudimento, di istruzione, di educazione. La responsabilità genitoriale permane anche in caso di raggiungimento della maggiore età e vincola i genitori al mantenimento dei figli fino alla indipendenza economica degli stessi, oltre quindi la maggiore età.

    Il contenzioso familiare. La centralità dell’interesse dei minori. La PAS (sindrome di alienazione parentale)

    La centralità dell’interesse dei figli rispetto a quello dei genitori deve essere tenuto ben presente in ogni contenzioso di carattere familiare. E’ noto a tutti che, quando i rapporti familiari vanno in crisi, i genitori  tendono a diventare egoisti,  a scaricare l’uno sull’altro le proprie rabbie e frustrazioni derivanti dalla fine del rapporto,  con evidente disinteresse della sorte dei loro figli, disinteresse che cresce in maniera proporzionale al grado  di conflittualità  e che si manifesta  in atteggiamenti di severità nei confronti dei figli più piccoli cui vengono riservate  minori attenzioni rispetto a quelli più grandi, comportamenti che potranno portare a gravi patologie comportamentali nello sviluppo del minore, come la sindrome di alienazione genitoriale. Tale termine, pur essendo privo di validità scientifica certa, per essere stato eliminato dal manuale diagnostico dei disturbi mentali, è stato elaborato da certa letteratura medica per indicare un complesso di elementi essenziali e distintivi atti a descrivere il rapporto dei genitori separati o divorziati con i loro figli. Tali elementi si sostanziano precisamente in due ovvero: l’indottrinamento da parte di un genitore in pregiudizio dell’altro e l’allineamento del bambino con il genitore ”alienante”.

    Tra i casi più clamorosi va segnalato quello del bambino di Cittadella (PD) che nell’ottobre 2012, è stato forzosamente prelevato da scuola al fine di dare esecuzione al provvedimento della Corte d’Appello di Venezia (decreto 2 agosto 2012). Quest’ultima, nello specifico, ne ha disposto l’affidamento al padre con inserimento all’interno di un’apposita struttura residenziale educativa dove potesse incontrare i genitori seguendo, altresì, un apposito ed accurato programma psicoterapeutico. Tale decisione modificativa della situazione preesistente, che vedeva il minore affidato ai servizi sociali e collocato presso la madre decaduta dalla potestà, si fondava sui risultati della CTU, la quale aveva riscontrato nel minore la ”Sindrome da alienazione parentale” attivata dalla figura materna. La vicenda è approdata fino in Cassazione la quale, con la sentenza 6-20 marzo 2013, n. 7041 ha annullato il decreto impugnato disponendo il rinvio alla Corte d’Appello di Brescia per nuovo esame.

    Nella pronuncia della Suprema Corte si evidenzia proprio quella difficoltà di inquadrare definitivamente l’alienazione genitoriale quale patologia rilevante in ambito giuridico, a causa dell’assenza di un effettivo, condiviso e formale riconoscimento della stessa nel settore medico-scientifico. La Cassazione, infatti, evidenzia come ”venga in considerazione una teoria non ancora consolidata sul piano scientifico, ed anzi, come si vedrà, molto controversa” ed inoltre, richiamando le censure mosse dalla madre alla validità scientifica di tale disturbo ed alla sua eventuale sussistenza nel caso di specie, mette in rilievo”le perplessità del mondo accademico internazionale, al punto che il Manuale Diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM) non la riconosce come sindrome o malattia”, oltre ad altri studi di esperti del settore. La Cassazione dunque non nega, l’esistenza generale di questo disturbo in ambito scientifico e conseguentemente giuridico ma conclude con la chiara affermazione che: ”di certo non può ritenersi che, soprattutto in ambito giudiziario, possano adottarsi delle soluzioni prive del necessario conforto scientifico, come tali potenzialmente produttive di danni ancor più gravi di quelli che le teorie ad esse sottese, non prudentemente e rigorosamente verificate, pretendono di scongiurare”.

    In senso non dissimile la sentenza della Cass. Civ., n. 5847/2013  che ha  rigettato  il ricorso presentato dal padre contro la sentenza della Corte d’Appello di Catania ed  in parziale accoglimento dell’appello proposto dalla madre  gli  ha tolto  l’affidamento dei figli La Corte, in tal caso, ha rigettato il ricorso perché la decisione della Corte d’Appello non si basava solo sul riconoscimento della sindrome di alienazione genitoriale  ad opera del servizio di psichiatria della Asl ma anche ”su altri elementi non specificatamente censurati dal ricorrente, concernenti il giudizio negativo circa le attitudini genitoriali del padre (…), dandone conto in una motivazione priva di vizi logici e quindi incensurabile in questa sede…”).

    Va pertanto posta in chiara evidenza l’ultima sentenza in materia della Corte di cassazione civile  n. 6919 del 08/04/2016  che   ha annullato senza rinvio la sentenza della Corte di appello di Milano del 17.12.2013   sancendo questo importante principio: “ In tema di affidamento di figli minori, qualora un genitore denunci comportamenti dell’altro genitore, affidatario o collocatario, di allontanamento morale e materiale del figlio da sé, indicati come significativi di una sindrome di alienazione parentale (PAS), ai fini della modifica delle modalità di affidamento, il giudice di merito è tenuto ad accertare la veridicità del fatto dei suddetti comportamenti, utilizzando i comuni mezzi di prova, tipici e specifici della materia, incluse le presunzioni, ed a motivare adeguatamente, a prescindere dal giudizio astratto sulla validità o invalidità scientifica della suddetta patologia, tenuto conto che tra i requisiti di idoneità genitoriale rileva anche la capacità di preservare la continuità delle relazioni parentali con l’altro genitore, a tutela del diritto del figlio alla bigenitorialità e alla crescita equilibrata e serena.”

    Il fenomeno della PAS, la rilevanza della stessa e la sua sussistenza effettiva nei casi concreti, assume particolare rilievo in relazione all’istituto dell’audizione del minore, ex art. 155 sexies, co. 1,  c.c., data l’esigenza di comprendere se ciò che dichiara il minore sia frutto di una sua effettiva volontà, bisogno e desiderio o, al contrario, sia conseguenza di un pregiudizievole fenomeno di alienazione genitoriale (v. Cass. Civ., n. 5847/2013, citata, in cui si riconosce come l’esistenza della PAS ”causata da pressioni paterne che avrebbero inficiato i risultati dell’audizione”). L’audizione, invero, quale strumento  processuale (obbligatorio per i minori che abbiano compiuto 12 anni) che permette al minore di esprimersi e di introdursi più attivamente all’interno di un giudizio destinato a concludersi con provvedimenti per lui particolarmente rilevanti, merita la giusta attenzione al fine di non divenire pregiudizievole per l’interesse  che si vuole tutelare Non necessariamente, infatti, le dichiarazioni del minore e ciò che esso esprime come sua volontà   devono essere assecondate, dato che sta all’autorità giudiziaria individuare con attenta analisi ”l’interesse morale e materiale” della prole, parametro esclusivo nell’adozione dei provvedimenti che la concernono (Tra le tante Cass. Civ., n. 7773/2012, in cui tra le altre cose si afferma che: ”… attesa la primazia dell’interesse morale e materiale della prole stessa, la norma contenuta all’art. 155 sexies, primo comma, (…), non solo consente di realizzare la presenza nel giudizio dei figli, in quanto parti sostanziali nel procedimento (…), ma impone certamente che degli esiti di tale ascolto si tenga conto. Naturalmente le valutazioni del giudice, in quanto doverosamente orientate a realizzare l’interesse del minore, che può non coincidere con le opinioni dallo stesso manifestate, potranno in tal caso essere difformi...”).

    La ripartizione della competenza tra il Tribunale per i Minori e il Tribunale ordinario. Il Principio di concentrazione delle Tutele.

    Per effetto della riforma del 1975 vigeva la regola del “doppio binario”, in virtù del quale al Tribunale ordinario spettava, nell’ambito dei  procedimenti di separazione e divorzi, di dirimere le questioni  inerenti l’affidamento e il mantenimento dei figli legittimi,  oltre a quelle relative al mantenimento dei figli naturali, laddove il  Tribunale per i Minorenni si occupava con competenza esclusiva, dell’affidamento dei figli naturali e della disciplina del loro rapporto con i genitori, dei procedimenti relativi alla potestà genitoriale di cui agli articoli 330 e 333 del codice civile e dei giudizi in tema di affidamento, adottabilità e adozione ai sensi della Legge n. 184 del 1983.  In base a questa bipartizione, i genitori coniugati potevano accedere ad un sistema unitario di giustizia, che faceva capo al Tribunale ordinario, mentre i genitori non coniugati, a seconda del tipo di tutela di cui avevano bisogno, dovevano necessariamente rivolgersi al Tribunale ordinario ovvero al Tribunale per i Minorenni. Tale sistema, oltre a comportare di difficoltà nella scelta del giudice da adire, accentuava, sul piano processuale, le disparità di trattamento tra figli legittimi e figli naturali; e ciò nonostante fosse stato dichiarato legittimo della Corte Costituzionale.

    La Legge n. 219 del 2012, nell’imporre l’unicità dello stato giuridico della filiazione garantendo la stessa condizione giuridica tra figli legittimi, legittimati e naturali, ha reso particolarmente importante procedere ad una disamina approfondita dell’art. 38 delle disposizioni di attuazione del codice civile che, oggi, dispone testualmente:

    Art. 38. – Sono di competenza del tribunale per i minorenni i provvedimenti contemplati dagli articoli 84, 90, 330, 332, 333, 334, 335 e 371, ultimo comma, del codice civile. Per i procedimenti di cui all’articolo 333 resta esclusa la competenza del tribunale per i minorenni nell’ipotesi in cui sia in corso, tra le stesse parti, giudizio di separazione o divorzio o giudizio ai sensi dell’articolo 316 del codice civile; in tale ipotesi per tutta la durata del processo la competenza, anche per i provvedimenti contemplati dalle disposizioni richiamate nel primo periodo, spetta al giudice ordinario.

    Sono emessi dal tribunale ordinario i provvedimenti relativi ai minori per i quali non è espressamente stabilita la competenza di una diversa autorità giudiziaria.Nei procedimenti in materia di affidamento e di mantenimento dei minori si applicano, in quanto compatibili, gli articoli 737 e seguenti del codice di procedura civile. Fermo restando quanto previsto per le azioni di stato, il tribunale competente provvede in ogni caso in camera di consiglio, sentito il pubblico ministero, e i provvedimenti emessi sono immediatamente esecutivi, salvo che il giudice disponga diversamente. Quando il provvedimento è emesso dal tribunale per i minorenni, il reclamo si propone davanti alla sezione di corte di appello per i minorenni.

    Il giudice, a garanzia dei provvedimenti patrimoniali in materia di alimenti e mantenimento della prole, può imporre al genitore obbligato di prestare idonea garanzia personale o reale, se esiste il pericolo che possa sottrarsi all’adempimento degli obblighi suddetti. Per assicurare che siano conservate o soddisfatte le ragioni del creditore in ordine all’adempimento degli obblighi di cui al periodo precedente, il giudice può disporre il sequestro dei beni dell’obbligato secondo quanto previsto dall’articolo 8, settimo comma, della legge 1° dicembre 1970, n. 898. Il giudice può ordinare ai terzi, tenuti a corrispondere anche periodicamente somme di denaro all’obbligato, di versare le somme dovute direttamente agli aventi diritto, secondo quanto previsto dall’articolo 8, secondo comma e seguenti, della legge 1° dicembre 1970, n. 898. I provvedimenti definitivi costituiscono titolo per l’iscrizione dell’ipoteca giudiziale ai sensi dell’articolo 2818 del codice civile.

    Tuttavia, ancora oggi le tutele processuali non sono le stesse. La legge di riforma ha operato infatti la scelta di lasciare che l’amministrazione della giustizia minorile restasse affidata alla dicotomia tra Tribunale ordinario e Tribunale per i Minorenni, nonostante la volontà di introdurre un unico Tribunale per la famiglia e i minori con competenza esclusiva per tutti i procedimenti in materia.

    Va innanzitutto chiarito che l’articolo 38 delle disposizioni di attuazione del codice civile vecchia formulazione demandava al Tribunale per i Minorenni l’emanazione dei «provvedimenti contemplati dagli articoli 84, 90, 171, 194, comma secondo, 250, 252, 262, 264, 326, 317-bis, 330, 332, 333, 334, 335 e 371, ultimo comma, nonché nel caso di minori dall’articolo 269, primo comma, del codice civile». Il secondo comma stabiliva che rientravano nella competenza del Tribunale ordinario i provvedimenti non attribuiti espressamente alla competenza di una diversa autorità giudiziaria.

    Pertanto, erano di competenza del Tribunale per i Minorenni:l’ammissione al matrimonio dell’ultrasedicenne (articolo 84 c.c.); la nomina di un curatore per l’assistenza nelle convenzioni matrimoniali (articolo 90 c.c.); la destinazione ai figli di una quota dei beni del fondo patrimoniale (articolo 171 c.c.); la costituzione di usufrutto sui beni del coniuge non affidatario in caso di divisione della comunione (articolo 194, secondo comma, c.c.); la sentenza che tiene luogo del consenso mancante in caso di riconoscimento di figlio nato fuori del matrimonio cui si opponga l’altro genitore che abbia già effettuato il riconoscimento (articolo 250 c.c.); l’affidamento del figlio nato fuori del matrimonio e suo inserimento nella famiglia del genitore coniugato (articolo 252 c.c.); la decisione sull’assunzione del cognome da parte del figlio nato fuori del matrimonio (articolo 262 c.c.); l’autorizzazione a impugnare il riconoscimento (articolo 264 c.c.); la dichiarazione giudiziale di paternità e maternità nel caso di figlio minore (articolo 269, primo comma, c.c.); i provvedimenti in caso di contrasto dei genitori su questioni di particolare importanza nell’esercizio della potestà genitoriale (articolo 316, c.c.); provvedimenti sull’esercizio della potestà sui figli nati fuori del matrimonio (ex articolo 317 bis, c.c., nel testo ante novella del 2013); i provvedimenti de potestate, modificativi e ablativi della potestà genitoriale (artt. 330-335 c.c.); i provvedimenti di autorizzazione del minore a continuare l’esercizio dell’impresa (articolo 371, ultimo comma).

     Il nuovo testo dell’art. 38 riduce fortemente le materie di competenza del Tribunale per i Minorenni ed introduce un limite importanterappresentato dalla pendenza tra le stesse parti, di un giudizio di separazione, divorzio o giudizio ai sensi dell’articolo 316 codice civile. In questi casi per tutta la durata del processo, la competenza – c.d. per «attrazione» (incidentale) – è attribuita al giudice ordinario.  La ratiodella disposizione risiede nell’esigenza di favorire il simultaneus processus, attribuendo al giudice ordinarioanche il potere di emanare – nell’interesse del minore – ulteriori provvedimenti in qualche misura connessi. La riduzione di competenza del Tribunale per i Minorenni risponde all’esigenza di realizzare una parità di trattamento tra figli, in riferimento al prioritario interesse del minore – che funge da perno per tutta la materia familiare – ed evitare giudicati contrastanti. La vis actractivaopera per quanto attiene il procedimento di separazione e divorzio ma non l’incontrario, ragione per cui le competenze del tribunale per i Minorenni devono intendersi tassative e non possono attrarre competenze del Tribunale ordinario (cfr. Ordinanza della Corte di Cassazione del 29/07/2015   ha così statuito: Instaurato da parte del P.M. un giudizio ex art. 333 c.c. davanti al tribunale per i minorenni, nel corso del quale sia stata accertata l’insussistenza di comportamenti pregiudizievoli da parte dei genitori nei confronti del proprio figlio minore, il successivo procedimento ex art. 317 bis (oggi art. 337 ter) c.c., introdotto da uno dei genitori e relativo all’affidamento del figlio medesimo, è devoluto alla competenza generale del tribunale ordinario del luogo di residenza abituale del minore, non potendo subire la “vis actractiva” del tribunale per i minorenni, che ha competenze tassativamente individuate dalla legge.)

    I presupposti indicati dal legislatore per rendere operante la vis actractiva sono due, vale a dire che vi sia un giudizio “in corso” e “tra le stesse parti”. Il termine “in corso” deve essere interpretato come processo pendente, iscritto a ruolo, posto che nel caso di cancellazione della causa dal ruolo il giudice deve provvedere alla estinzione del processo. Con l’espressione “tra le stesse parti” sembrerebbe che la vis actractiva non possa essere applicata nelle ipotesi in cui la richiesta di provvedimenti de potestate sia fatta valere innanzi al Tribunale per i Minorenni dai parenti, soggetti legittimati ai sensi dell’articolo 336 codice civile, i quali potrebbero anche domandare l’affidamento ad essi del minore. Il procedimento, inoltre, potrebbe essere instaurato avanti al giudice minorile dal pubblico ministero, anch’egli dotato di una specifica legittimazione in questo ambito ai sensi dell’articolo 336 codice civile.  In presenza di diversi orientamenti interpretativi,  è intervenuta la Suprema Corte, la quale ha sancito che «qualora sia in corso un giudizio di separazione, divorzio o un giudizio ai sensi dell’articolo 316 codice civile, anche in pendenza dei termini per le impugnazioni e nelle altre fasi di quiescenza, fino al passaggio in giudicato, la competenza in ordine alle azioni dirette ad ottenere provvedimenti limitativi od ablativi della responsabilità genitoriale, proposte successivamente e richieste con unico atto introduttivo dalle parti (così determinandosi un’ipotesi di connessione oggettiva e soggettiva) deve attribuirsi al giudice del conflitto familiare (Tribunale ordinario e Corte d’Appello). L’identità delle parti dei due giudizi non è esclusa dalla partecipazione del Pubblico Ministero».

    Una conseguenza di particolare rilievo della riforma riguarda il regime dei figli nati fuori dal matrimonio in relazione ai quali competente per la determinazione delle condizioni di affidamento e mantenimento è il giudice ordinario. Ciò dovrebbe garantire la certezza del diritto e la concentrazione delle tutele che, secondo la Suprema Corte, rappresentano un aspetto centrale della ragionevole durata del processo. Tale principio, oltre ad assicurare maggiore rapidità nella decisione, è un valido rimedio per scongiurare il pericolo di giudicati contrastanti.

    Tuttavia il testo dell’articolo 38, a causa di una formulazione ambigua, non chiarisce se la competenza del Tribunale per i Minorenni cede a quella del Tribunale ordinario solo per i provvedimenti limitativi della responsabilità genitoriale previsti dall’articolo 333 codice civile o anche per i provvedimenti ablativi della suddetta responsabilità genitoriale previsti, per gli abusi più gravi, dall’articolo 330 codice civile; in presenza di opposte tesi tendenti alternativamente ad escludere o a confermare la  proroga della competenza a favore del giudice ordinario in relazione a provvedimenti ablativi della responsabilità genitoriale, è intervenuta la Suprema Corte la quale, privilegiando il principio di effettività di tutela   ha stabilito che «ai sensi dell’articolo 38 i procedimenti ex articoli 330 e 333 codice civile sono di competenza del Tribunale per i Minorenni. Per i procedimenti di cui all’articolo 333 è esclusa la competenza del Tribunale per i Minorenni ove sia in corso tra le stesse parti un giudizio di separazione e divorzio (e più in generale un giudizio ai sensi dellarticolo 337 ter codice civile); in tali ipotesi, anche per i provvedimenti contemplati dall’articolo 330, la competenza spetta al Tribunale ordinario. La competenza per il procedimento ex articolo 330 resta radicata presso il Tribunale per i Minorenni se, al momento del ricorso, il procedimento previsto dall’articolo 337 ter codice civile non è ancora pendente davanti al Tribunale ordinario e, a maggior ragione, se il Tribunale minorile ha già adottato un provvedimento di sospensione dalla responsabilità genitoriale ai sensi dell’articolo 333, operando, in tal caso, i principi della perpetuatio jurisdictionis e di economia processuale». Tale impostazione è stata di recente confermata con Ordinanza n. 20202 del 31/07/2018: Ai sensi dell’art. 38 disp. att. c.c. come novellato dall’art. 3 della legge 10 dicembre 2012, n. 219, il tribunale per i minorenni resta competente a conoscere della domanda diretta ad ottenere la declaratoria di decadenza o la limitazione della potestà dei genitori ancorché, nel corso del giudizio, sia stata proposta, innanzi al tribunale ordinario, domanda di separazione personale dei coniugi o di divorzio”.

    La materia presenza ricadute sociali di notevole rilievo se si considera che l’articolo 333 codice civile opera in caso di condotte pregiudizievoli per il minore, e permette al giudice di emanare i «provvedimenti convenienti» «secondo le circostanze», contemplando tra questi anche misure restrittive particolarmente rigorose (ad esempio può disporre l’allontanamento del minore dalla residenza familiare ovvero l’allontanamento del genitore o convivente che maltratta o abusa del minore). Perciò, a fronte di tali incertezze interpretative, alcuni Tribunali ordinari e minorili, operanti nel medesimo territorio, hanno raggiunto protocolli d’intesa al fine di garantire la tutela del minore e superare la mancata individuazione, da parte del legislatore, di un raccordo tra le rispettive attività in materia di ripartizione delle competenze.

     In questo scenario interpretativo così multiforme  si colloca  la sentenza della Corte  Costituzionale  n. 134 del 2016 che, investita della questione di legittimità costituzionale dell’articolo 38: È inammissibile, per insufficiente motivazione in ordine alla rilevanza, la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 38, comma 1, nella parte in cui attribuisce alla competenza del Tribunale per i Minorenni, anziché del Tribunale ordinario, i procedimenti contemplati dagli articoli 330 e 333 codice civile, ablativi o limitativi della responsabilità genitoriale, in riferimento agli articoli 3, 97 e 111 della Costituzione». Con tale sentenza la Corte è tornata nuovamente sulla questione processuale dell’articolo 38 confermandone la conformità alla Carta e ritenendo non manifestamente irragionevole la scelta operata dal legislatore. La questione sollevata  dal Tribunale ordinario di Firenze con riferimento all’articolo 38, comma 1, nella parte in cui attribuisce alla competenza del Tribunale per i Minorenni i provvedimenti contemplati dagli articoli 330 e 333 del codice civile, riguardava  il caso di  un padre  che aveva promosso un ricorso ex articolo 709 ter codice procedura civile diretto a modificare il decreto con cui, nel 2007, il Tribunale per i Minorenni di Firenze aveva disposto l’affidamento condiviso della figlia ad entrambi i genitori; e ciò al fine di ampliare i tempi di permanenza della minore presso di sé. La madre, convenuta dinanzi al Tribunale ordinario, aveva chiesto da un lato, la sospensione del processo ai sensi dell’articolo 295 codice procedura civile, in attesa della definizione di altro giudizio promosso dalla Procura minorile di Firenze ex articolo 336 codice civile — scaturito da una denuncia penale della madre nei confronti dell’ex convivente, accusato di comportamenti violenti verso la donna e i nonni materni — e, dall’altro, il rigetto del ricorso, con l’affidamento esclusivo della minore, incontri protetti tra padre e figlia oltre la fissazione di un assegno di contributo al mantenimento da parte del padre.  Secondo il giudice remittente il mantenimento del riparto di competenza del Tribunale per i Minorenni, accanto a quella del Tribunale ordinario, per i provvedimenti ablativi o limitativi della responsabilità genitoriale – violando il principio di cui all’articolo 3 della Costituzione di uguaglianza dei figli e pari dignità sociale della filiazione – avrebbe determinato un trattamento processuale differenziato di situazioni identiche sul piano dei diritti sostanziali. Il giudice, inoltre, ha denunciato la violazione degli articoli 97, comma 2, e 111 Costituzione, in quanto la “duplice” competenza si pone in contrasto con il principio di buon andamento della pubblica amministrazione e con il principio del giusto processo, sotto il profilo della ragionevole durata dei procedimenti. Pertanto, in attuazione della unicità di status sarebbe stata legittima, di conseguenza, anche l’unificazione del trattamento processuale delle controversie inerenti la filiazione e la responsabilità genitoriale.

    La Corte Costituzionale ha dichiarato inammissibile la questionein quanto il ricorso ex articolo 709 ter codice procedura civile era diretto soltanto a regolare il diritto di visita del padre, senza per questo alterare lo stato dell’affidamento o la titolarità della responsabilità genitoriale. Pertanto, secondo la Corte, vi era nel caso giudiziario sottoposto alla sua attenzione l’impossibilità di valutare se nel giudizio a quo sussistesse la denunciata sovrapposizione di competenze del Tribunale ordinario e del Tribunale minorile. La Corte ha  quindi asserito «l’impossibilità di valutare se nel giudizio a quo sussista la denunciata sovrapposizione di competenze del tribunale ordinario e del tribunale minorile» e l’insussistenza degli «aspetti disfunzionali» della separazione delle competenze del tribunale ordinario e del tribunale per i minorenni, che ricorrono, «in tutti quei casi nei quali il conflitto tra i genitori sulle modalità di affidamento sia destinato a sfociare in provvedimenti restrittivi della responsabilità genitoriale».

    Va per ultimo segnalato la diversificazione dei riti processuali davanti dei procedimenti di famiglia, posto che l’applicazione degli artt. 737 cp.c.  riguarda le sole controversie “in materia di affidamento e di mantenimento dei minori”.  Tale scelta non è estesa alle controversie di cui agli articoli 171, 194, 250, 252, 262, 264 codice civile, di competenza del Tribunale ordinario e che non hanno ad oggetto questioni relative all’affidamento o al mantenimento dei minori. Tuttavia, poiché il comma 3 dell’articolo 38 stabilisce: «fermo restando quanto previsto per le azioni di stato, il tribunale competente provvede in ogni caso in camera di consiglio, sentito il pubblico ministero, e i provvedimenti emessi sono immediatamente esecutivi», si può ragionevolmente dedurre che il procedimento in camera di consiglio valga per tutte le controversie minorili, nonostante siano state  portate all’attenzione del giudice ordinario e non  siano strettamente attinenti con l’affidamento o con il mantenimento.

    Inoltre, nel modello processuale ordinario la famiglia può beneficiare di una fase procedimentale preliminare, nell’ambito della quale le parti sono convocate e sentite per un tentativo di conciliazione dinanzi al Presidente. Ciò al fine di tentare di ricostruire il legame familiare e consentire ai genitori di raggiungere un accordo conciliativo. Nel rito camerale una udienza del genere non è prevista, in quanto il Presidente deve fissare direttamente la comparizione dei genitori dinanzi al Collegio o al Giudice Delegato. Per tali motivi, in attuazione dell’art. 316 c.p.c.[1], la Sezione IX del Tribunale di Milano ha introdotto il cd. rito partecipativo, così definito in quanto consente ai genitori non uniti in matrimonio di “partecipare” alla costruzione di una decisione comune, ove il ruolo del giudice non è quello di imporre, bensì di suggerire le opportune soluzioni per approdare ad una conciliazione. Una volta depositato il ricorso da parte del genitore, il Presidente dispone lo scambio delle difese riservando all’esito la valutazione in ordine all’esistenza o meno dei presupposti per accedere alla fase conciliativa. Lette le difese, il Collegio potrà:

    1. a) fissare direttamente udienza dinanzi a sé, non ritenendo sussistenti i presupposti per formulare un suggerimento di definizione amichevole;
    2. b) rimettere le parti dinanzi al Giudice Delegato con il compito di suggerire ai genitori una possibile soluzione conciliativa, riservandosi di intervenire successivamente, ove fallisca il tentativo di conciliazione;
    3. c) pronunciare provvedimenti provvisori, in presenza di conclusioni parzialmente conformi dei genitori (es. entrambi chiedono l’affido condiviso).

    La proposta conciliativa – formalizzata dal Giudice Delegato – tende a ricostituire il legame familiare ed a convertire il rito da giudiziale a consensuale/congiunto mediante l’intervento del magistrato.

    Il Tribunale di Milano ritiene che la gestione del contenzioso, inerente le controversie tra genitori non uniti da matrimonio, debba offrire al nucleo familiare in crisi l’opportunità di una fase preliminare conciliativa ove il giudice delegato suggerisca ai genitori un accordo regolativo delle nuove dinamiche relazionali. Durante questa fase, i genitori hanno a disposizione un lasso di tempo ragionevole per valutare la proposta del giudice, dall’altro lato viene permesso loro di essere ascoltati. Il Giudice Delegato collaborando con gli avvocati delle parti mette a loro disposizione una udienza dedicata, affinché possa costituire un terreno utile per la nascita di accordi che risolvano la crisi familiare. Questa fase precontenziosa può concludersi con un accordo dei genitori che potrebbe ricalcare perfettamente la proposta formulata dal giudice designato, ovvero potrebbe discostarsene adattarsi alle singolari esigenze del nucleo familiare. Nel caso in cui la fase conciliativa si concluda in modo infruttuoso, gli atti verranno rimessi al Collegio che provvederà alla definizione giudiziale del procedimento previa nuova convocazione dei genitori, se ritenuta necessaria. Il procedimento così proposto prevede, come avviene per il rito della separazione e del divorzio, che dalla fase conciliativa, in caso di fallimento, si passi alla fase contenziosa. Tale procedura consente di accelerare i tempi di accesso alla prima udienza giudiziale, cosicché i genitori non debbano attendere 6/8 mesi per la prima convocazione.

    Le decisioni sulle tematiche familiari, in particolare sulla tutela dei figli, devono essere assunte di comune accordo tra i genitori separati, o separandi, perché la soluzione condivisa “risolve” il conflitto. Si profila dunque una realtà processuale dove il Giudice interviene nel processo, dialoga con le parti al fine di aiutare i genitori a raggiungere un accordo nell’esclusivo interesse dei figli.

    [1]Art. 316. Responsabilità genitoriale. (1) – Entrambi i genitori hanno la responsabilità genitoriale che è esercitata di comune accordo tenendo conto delle capacità, delle inclinazioni naturali e delle aspirazioni del figlio. I genitori di comune accordo stabiliscono la residenza abituale del minore. In caso di contrasto su questioni di particolare importanza ciascuno dei genitori può ricorrere senza formalità al giudice indicando i provvedimenti che ritiene più idonei. Il giudice, sentiti i genitori e disposto l’ascolto del figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici e anche di età inferiore ove capace di discernimento, suggerisce le determinazioni che ritiene più utili nell’interesse del figlio e dell’unità familiare. Se il contrasto permane il giudice attribuisce il potere di decisione a quello dei genitori che, nel singolo caso, ritiene il più idoneo a curare l’interesse del figlio. Il genitore che ha riconosciuto il figlio esercita la responsabilità genitoriale su di lui. Se il riconoscimento del figlio, nato fuori del matrimonio, è fatto dai genitori, l’esercizio della responsabilità genitoriale spetta ad entrambi. Il genitore che non esercita la responsabilità genitoriale vigila sull’istruzione, sull’educazione e sulle condizioni di vita del figlio. (1) Articolo così sostituito dall’art. 39, comma 1, D.Lgs. 28 dicembre 2013, n. n. 154.

    Quanto alla delega al giudice relatore, come noto essa è pacificamente ammessa: costituisce l’espressione di un principio generale immanente (Cass. civ., Sez. I, 16 luglio 2005, n. 15100) quello secondo cui un giudice può essere delegato dal collegio alla raccolta di elementi probatori da sottoporre, successivamente, alla piena valutazione dell’organo collegiale, principio vitale in difetto di esplicite norme contrarie che trova applicazione anche nelle ipotesi di procedimento camerale applicato a diritti soggettivi per quelle ragioni di celerità e sommarietà delle indagini, cui tale particolare tipo di procedimento è ispirato (Cass. civ., Sez. Unite, 19 giugno 1996, n. 5629 in Giust. Civ., 1996, I; Famiglia e Diritto, 1996, 4, 305).

     Quanto alla possibilità per giudice di formulare proposte conciliative non vi è ormai ragione di dubitare atteso che la legge 4 novembre 2010, n. 183 modificando l’art. 420 c.p.c. ha espressamente previsto e tipizzato l’istituto, con norma che – come osservato dalla giurisprudenza – non è eccezionale ma emersione in un determinato settore di una regola generale. Ve ne è conferma nel nuovo art. 185-bis c.p.c. (Proposta di conciliazione del giudice – II giudice, alla prima udienza, ovvero sino a quando è esaurita l’istruzione, formula alle parti ove possibile, avuto riguardo alla natura del giudizio, al valore della controversia e all’esistenza di questioni di facile e pronta soluzione di diritto, una proposta transattiva o conciliativa. La proposta di conciliazione non può costituire motivo di ricusazione o astensione del giudice) introdotto dal decreto legge 21 giugno 2013 n. 69, considerato norma generale (Trib. Milano, 26 giugno 2013). Ovviamente, nel nostro caso, l’intervento giudiziale più che una proposta è un “suggerimento” autorevole, in analogia con quanto previsto dall’art. 316 c.c.; suggerimento che non è vincolante e che venga formulato con spirito conciliativo, in attuazione di quella funzione di “mediazione giudiziale” che in altra sede il Codice espressamente assegna al magistrato della famiglia (v. art. 145 c.c.).

    Maria R. Sodano
    Amministratore del forum
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    Cari partecipanti lancio una discussione su questo primo argomento del forum. E vi chiedo che rapporti ci sono fra la responsabilità genitoriale così come delineata nel codice civile e quella conseguente alla realizzazione di gravi reati in ambito faliliare?

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    Cari partecipanti lancio una discussione su questo primo argomento del forum. E vi chiedo che rapporti ci sono fra la responsabilità genitoriale così come delineata nel codice civile e quella conseguente alla realizzazione di gravi reati in ambito faliliare?

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