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La S.C. di Cassazione, con la sentenza n. 5476/21, ha deciso un interessante caso nel quale un datore di lavoro aveva rinnovato il contratto a tutti i suoi dipendenti assunti a tempo determinato, tranne che a una lavoratrice in stato di gravidanza. Più in particolare, questa lavoratrice aveva prestato la propria attività alle dipendenze dell’azienda con contratti di lavoro a tempo determinato varie volte rinnovati, l’ultimo dei quali con scadenza al 1 aprile 2004. In tale data, il datore aveva rinnovato il contratto a tutti i dipendenti a termine, meno che alla ricorrente, che nel frattempo aveva scoperto di essere incinta. La lavoratrice dunque adiva il Tribunale di Roma per sentir accertato il carattere discriminatorio della condotta aziendale con conseguente accertamento del suo diritto alla proroga del contratto a termine.

Il caso in esame è di particolare interesse, perché affronta il tema delle tutele dei lavoratori assunti a tempo determinato in caso di cessazione del rapporto di lavoro.

Infatti, è bene ricordare che il decorso del termine comporta la cessazione del rapporto in modo naturale, senza che si abbia un atto di recesso da parte del datore: dunque, esso non è un “licenziamento” in senso tecnico e si sottrae alle garanzie per esso approntate dalla legge.

In termini generali, il recesso del datore di lavoro (licenziamento) non è libero, ma è consentito solo in determinati casi previsti dalla legge (giusta causa, giustificato motivo oggettivo, giustificato motivo soggettivo) e, se questi non ricorrono, sono fornite tutele che vanno dal riconoscimento di un indennizzo economico sino alla reintegrazione sul posto di lavoro.

Con specifico riguardo alle donne in gravidanza, è il d.lgs. 151/2001 a disporre che esse non possono essere licenziate, se non per una loro grave colpa o per cessazione dell’attività aziendale, e il licenziamento eventualmente intimato sarebbe nullo, con conseguente reintegrazione sul posto di lavoro; nullità che, peraltro, opera oggettivamente, indipendentemente dal fatto che il datore sia a conoscenza o meno dello stato di gravidanza.

Chiaramente, però, questa tutela non può essere applicata a fronte della scadenza naturale del termine, non avendosi alcun “licenziamento”, e, dunque, in questo caso la cessazione del rapporto è legittima anche se la lavoratrice è in stato di gravidanza.

Ebbene, particolare è il caso deciso dalla sentenza in commento, in quanto il datore di lavoro aveva scelto di rinnovare tutti i contratti a termine presenti in azienda, meno quello della lavoratrice incinta. Di fronte a tale condotta, possono dunque porsi due interpretazioni: una puramente formale (fatta propria dalla Corte d’Appello), secondo la quale, trattandosi appunto di cessazione del rapporto per decorrenza del termine, non è configurabile alcun diritto della lavoratrice ad essere riassunta, per quanto argomentato sopra; una, che chiameremo sostanzialistica, invece attenta al carattere discriminatorio del comportamento datoriale, per la quale la scelta di non rinnovare il contratto, pur in sé lecita, diventa discriminatoria se perpetrata nei confronti della sola lavoratrice incinta.

La Suprema Corte ha aderito a questa seconda interpretazione, anche sulla scorta di precedenti decisioni della Corte di Giustizia dell’UE (causa C-438/99), sottolineando che sarebbe stato onere del datore di lavoro provare l’assenza di qualsivoglia intento discriminatorio: infatti, giusto l’art. 40 d.lgs. 198/2006, non è onere del lavoratore provare di essere vittima di discriminazione, bastandogli provarne il “rischio”, ma piuttosto del datore di lavoro allegare e provare le ragioni lecite sottese al suo comportamento. A fronte del mancato assolvimento di tale prova da parte del datore di lavoro, la S.C. ha accertato il carattere discriminatorio della condotta datoriale, rimettendo alla Corte d’Appello di provvedere sulla base di tali principi.

La sentenza è dunque molto interessante, nella misura in cui pare aprire una breccia in favore dei lavoratori “precari”, superando quell’assoluta insindacabilità della cessazione del rapporto per decorso del termine che sicuramente spinge molti datori a stipulare contratti a termine allo scopo di sottrarsi alle tutele avverso il licenziamento.

Tuttavia, pare presto per poter affermare un cambio di rotta, in quanto il caso sottoposto alla Corte è troppo particolare per poterne trarre principi generali: al momento, il principio espresso da questa sentenza non pare estendibile ad altri casi che non vedano il rinnovo del contratto per tutti i dipendenti, meno che per uno, soggetto ad un particolare rischio di disparità; a meno che in casi diversi possano comunque ravvisarsi elementi di discriminazione.